di Alfredo D’Attorre
La sconfitta del Pd e del centrosinistra in Lombardia e nel Lazio era ampiamente prevista, al punto da condizionare con mesi di anticipo il calendario congressuale. Meno prevedibile era francamente che un tale esito, segnato peraltro da un netto distacco, potesse prodursi anche in presenza di una gigantesca astensione elettorale, che negli ultimi anni, dalle elezioni comunali a quelle suppletive per il Parlamento, aveva sempre finito per penalizzare fortemente il centrodestra. Stavolta neppure il fatto che più di metà degli elettori abbia disertato le urne, rinunciando a scegliere la guida delle due principali regioni italiane (a proposito: sicuri che il presidenzialismo sia un antidoto efficace alla disaffezione elettorale?), è riuscito a rianimare il centrosinistra. E ciò non è accaduto neanche nel Lazio, regione ben amministrata negli ultimi dieci anni e rimasta uno degli ultimi bastioni elettorali. Una parte non piccola dell’elettorato di destra è rimasto a casa, per rilassatezza, distrazione o per manifestare primi segnali di delusione nei confronti del governo, ma dello «zoccolo duro» dell’elettorato di sinistra, che garantiva facili vittorie in caso di bassa affluenza, non c’è più traccia.
La durezza di questa sconfitta mette definitivamente il Pd di fronte al significato epocale del voto del 25 settembre, di cui queste elezioni regionali costituiscono nient’altro che la triste coda: l’eredità di famiglia si è definitivamente esaurita e ogni rendita di posizione è finita. L’idea sulla quale il centrosinistra ha galleggiato per anni, ovvero che il richiamo a una storia di serietà e buon governo e l’evocazione della minaccia della destra bastassero alle strette a mobilitare il grosso del proprio elettorato storico, ormai si rivela infondata. Alle politiche una quota larga dell’elettorato democratico e progressista si è rifiutata di votare il centrosinistra anche di fronte alla prospettiva del primo presidente del Consiglio post-fascista. Ora un’altra sentenza senza appello dalle regionali: neppure il rischio di tenersi altri cinque anni in Lombardia un governatore tutt’altro che impeccabile (eufemismo) nella gestione della pandemia e della sanità regionale, o quello di un vero e proprio salto nel vuoto nel Lazio, dopo la solida guida di Nicola Zingaretti e la candidatura del suo assessore più apprezzato, hanno mobilitato i potenziali elettori della sinistra.
Tra due settimane si terranno le primarie per scegliere la leadership del «nuovo Partito democratico», dopo mesi in cui tutti, dall’esterno e dall’interno, hanno sottolineato come per il Pd sia essenziale diventare davvero «nuovo» e come non basti semplicemente l’ennesimo avvicendamento del segretario. Il Pd ci ha messo senz’altro del suo per rendere il proprio «percorso costituente» meno comprensibile e attraente. Tuttavia, è francamente fuori luogo il tono liquidatorio con cui tanti hanno commentato la sua vicenda democratica interna, rimuovendo alcune domande essenziali. Si può davvero immaginare la costruzione di uno schieramento alternativo alla destra in Italia, che vada dal M5S fino alle forze liberali, se il Pd salta definitivamente per aria? Il congresso costituente del Pd ha avuto mille limiti, ma cosa e dove sono gli appuntamenti democratici interni del partito di Giuseppe Conte o di quello di Carlo Calenda e Matteo Renzi?
Peraltro, i primi dati di lista che emergono dalla Lombardia e dal Lazio indicano che la scommessa miope di queste forze di giocare sulla loro incompatibilità, per arrivare allo smembramento e alla divisione delle spoglie del Pd, sia stata punita ancora più severamente dagli elettori. Il risultato molto magro delle candidature di Donatella Bianchi e Letizia Moratti e il secco ridimensionamento nel voto di lista del M5S e di Azione-Italia Viva archiviano per questi movimenti ogni velleità di sorpasso o di sostituzione del ruolo del Pd. Allo stesso tempo, il fatto che il centrodestra ottenga la maggioranza assoluta in entrambe le regioni mette fuori gioco anche la scorciatoia politicista per cui basterebbe aggregare tutte le forze fuori dal centrodestra per vincere. Le alleanze sono indispensabili, ma funzionano se hanno un centro di gravità in grado di costruirle e di imprimere loro un’identità.
Detto questo, va da sé che i dati del Lazio e della Lombardia rafforzano ancor di più l’esigenza di un cambiamento profondo e di una discontinuità vera per il Partito democratico, in grado di rimotivare milioni di elettori oggi dispersi nel disincanto e nell’astensione. Da questo risultato il Pd esce certo con la consapevolezza che non ci sono sfidanti in grado di sfilargli il suo ruolo guida nel campo dell’alternativa alla destra. Ma guai a sottovalutare la radicalità del messaggio di delusione e sfiducia che il suo potenziale elettorato gli ha ribadito a distanza di qualche mese dalle elezioni politiche.
Ora serve che il confronto in vista delle primarie del 26 settembre si concentri sulle questioni sostanziali, lasciando da parte frasi fatte e furbizie. Davvero il Pd ha perso in questi anni solo perché non ha dato abbastanza potere agli amministratori? O perché non ha fatto le primarie per scegliere i parlamentari? O perché ci sono le correnti (come in tutti i partiti di una certa dimensione da che mondo è mondo)? Forse è davvero il momento di affrontare invece le questioni di fondo che riguardano il profilo e il posizionamento sociale del partito, a partire dal lavoro e dal rapporto fra Stato e mercato. Per ricostruire un’identità in grado di affrontare il confronto con questa destra, non basta cambiare i dirigenti o far finta di farlo. È necessario cambiare le idee fondamentali e capire poi quali sono le persone più credibili e coerenti per rappresentarle. Occorre cioè fare scelte e riacquistare l’autenticità e il coraggio necessari per difenderle. Serve, in altre parole, tornare a fare politica. Che è sempre una cosa rischiosa, ma priva di alternative quando le rendite di posizione sono finite e il tuo potenziale elettorato dimostra di non essere più disponibile ad accettare gattopardismi e ambiguità.