D’Attorre: caro Pd, il vero europeismo oggi è dire no al Mes

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Alfredo D’Attorre

Considero un fatto davvero positivo che il Partito democratico riconosca gli effetti negativi prodotti dai tagli alla sanità nell’ultimo decennio e individui nel rafforzamento del nostro sistema sanitario pubblico una delle priorità fondamentali di una nuova stagione di governo. È un altro segno significativo del ri-orientamento politico-culturale in atto nel Pd, che può aiutare a superare le divisioni degli anni scorsi e, soprattutto, a riavvicinare i tanti elettori che si sono allontanati dal centrosinistra.

Con altrettanta franchezza, mi sembra invece sbagliata la posizione del suo gruppo dirigente a favore del ricorso del MES come via maestra per finanziare un nuovo piano per la sanità pubblica. Ammettiamo – a differenza di quello che ritengono molti giuristi – che la lettera della Commissione Europea sia sufficiente a fugare i timori circa future “condizionalità in uscita” dei prestiti MES, nonostante che i Regolamenti e i Trattati europei, compreso quello istitutivo del Fondo Salva-Stati, siano rimasti invariati e giuridicamente potrebbero essere attivati in qualsiasi momento.

E ammettiamo anche che il tasso dei prestiti sia quello che promettono adesso i vertici del Fondo, vicino allo zero, nonostante che alcuni analisti finanziari facciano osservare come nei casi precedenti i tassi effettivi siano stati poi in realtà più vicini all’1%, per effetto dei costi sostenuti dal MES per raccogliere le risorse sul mercato. Ma mettiamo pure da parte questi timori e prendiamo per buono che potremmo davvero disporre di 36 miliardi di prestiti senza particolari condizionalità a un tasso vicino allo zero. Attualmente ciò ci farebbe risparmiare in tutto circa 400 milioni di interessi all’anno (meno di quanto si scrive normalmente, perché dopo le decisioni dell’ultimo Consiglio della BCE i tassi sui nostri BTP decennali si sono già ridotti sensibilmente).

Ci sono però almeno tre ragioni importanti per le quali un risparmio di qualche centinaio di milioni di euro all’anno (peraltro ipotetico, perché i nostri tassi potrebbero calare ancora se il programma della BCE andasse avanti) non è assolutamente un motivo valido per chiedere l’accesso al MES.

La prima è rappresentata dallo “stigma” da cui l’Italia sarebbe segnata, specie se fosse l’unico Paese importante dell’eurozona a fare questa scelta. Per ottenere l’accesso al MES, stante l’attuale normativa, un Paese deve sottoscrivere una richiesta motivata dall’esistenza di “rischi finanziari”. Non si spiegherebbe altrimenti perché nessuno tra i Paesi che in questo momento pagano sui propri titoli tassi di interesse più alti di quelli promessi dal Fondo – Spagna, Portogallo, Grecia – abbia intenzione al momento di usare il “MES sanitario”.

Perfino la Grecia, non più tardi di due giorni fa, ha ribadito di non voler fare questo passo. L’incertezza sulle condizionalità effettivamente esistenti, la priorità nel rimborso accordato ai prestiti del Fondo sulla base del suo Trattato istitutivo (che renderebbe tutti gli altri titoli “junior” e, quindi, intrinsecamente più rischiosi) e la certificazione di uno stato di “rischio finanziario” sono tutti elementi che possono facilmente indurre il mercato a chiedere un interesse più alto su tutto il resto delle emissioni.

E per l’Italia, data la mole dei titoli da emettere nei prossimi mesi (un multiplo superiore a dieci rispetto ai prestiti del Fondo), basterebbe anche un piccolissimo scostamento verso l’alto per azzerare l’ipotetico risparmio del MES. Esattamente come, all’inverso, il calo dei tassi verificatosi dopo le ultime decisioni della BCE significa in prospettiva un risparmio per le nostre finanze molto più consistente di quello derivabile dal Fondo Salva-Stati.

In tutto il dibattito giornalistico su questo tema, c’è una domanda che, piuttosto incredibilmente, non viene quasi mai posta: ma davvero pensiamo di far chiedere all’Italia l’accesso al MES (magari assieme a Cipro…) mentre nessun altro Paese europeo ritiene di compiere questo passo?

La seconda ragione è costituita dal fatto che con un prestito una tantum non si può finanziare in maniera strutturale un piano di rafforzamento della sanità pubblica, esattamente per lo stesso motivo per il quale con le risorse del Recovery Fund (come sottolineato correttamente dal ministro Gualtieri) non può essere finanziato un taglio stabile delle tasse.

Se assumiamo medici e infermieri, se aumentiamo il numero degli studenti in medicina e le borse di specializzazione, se innalziamo gli stipendi al personale medico, non possiamo certo farlo con risorse che ci vengono prestate una tantum nell’arco di due anni e che poi dovremo restituire. Al termine dei due anni di erogazione delle risorse, previsti dal MES “sanitario”, che facciamo? Rimandiamo a casa i medici e gli infermieri che abbiamo assunto con quelle risorse?

Un piano di rafforzamento e ammodernamento del nostro sistema sanitario pubblico è assolutamente necessario, ma va sostenuto con risorse strutturali all’interno di una strategia complessiva della finanza pubblica. Dopo la pandemia si tratta di proseguire e accelerare, peraltro, l’eccellente lavoro svolto finora dal governo Conte e dal ministro Speranza, che in pochi mesi, con il sostegno del Pd, hanno invertito un trend di definanziamento della sanità pubblica in rapporto al PIL, che andava avanti da un decennio, e in valore assoluto hanno aumentato le risorse di circa 6 miliardi (per intenderci: più o meno la stessa cifra stanziata in tutti i 5 anni della legislatura precedente…).

La terza ragione è forse la più politica e la più strategica. Il ricorso al MES rischia di indebolire la battaglia che meritoriamente il governo Conte sta facendo per un cambiamento profondo dell’Unione Europea e dell’eurozona. Questa emergenza può essere davvero l’occasione perché l’Europa risolva i problemi strutturali dell’unione monetaria e finanziaria.

Non era affatto scontato che si potessero finalmente affrontare le due questioni decisive, che finora hanno reso l’euro una costruzione imperfetta e disfunzionale: il ruolo della BCE come prestatrice di ultima istanza e la mutualizzazione di una parte dei debiti pubblici. Le decisioni di straordinaria importanza che la BCE sta assumendo e la proposta del Recovery Fund vanno esattamente nella direzione di mettere in discussione questi che finora sono stati dei veri e propri tabù per la Germania e i Paesi ‘rigoristi’.

Non accettare il ricorso a strumenti che, per quanto ammantati di novità, rispondono a una vecchia logica, come il MES, è oggi la vera posizione europeista, perché favorisce la transizione a una nuova Unione Europea, l’unica che può sopravvivere nel mondo post-pandemia.

Nella fase storica che ci tocca vivere, l’europeismo o è critico e combattivo o rischia di ridursi a esercizio retorico che finisce per favorire i nazionalismi. E riconoscere che la questione assolutamente decisiva è oggi quella della BCE non significa essere subalterni ai cosiddetti “sovranisti”, come ha scritto Renato Brunetta, ma togliere loro l’unico argomento che hanno, mostrando come esso oggi agisca contro di loro.

Non si può polemizzare contro Salvini, Borghi e Bagnai perché dicono che la partita decisiva è quella della BCE. È la verità, come dimostra quello che la BCE stessa ha deciso, mettendosi in scia, peraltro, con tutte le maggiori banche centrali del pianeta. Si può polemizzare con loro, invece, perché proprio l’invocazione del ruolo della BCE e le scelte che essa sta operando tolgono dal tavolo la prospettiva dell’uscita dall’euro.

È esattamente perché ciò che anche loro chiedevano (magari immaginando che non sarebbe accaduto) si sta verificando che l’Italexit non è più in campo. Se la Germania risolverà, come sembra intenzionata a fare (e come non era affatto scontato), la questione posta dalla sua Corte Costituzionale, magari anche promuovendo nei prossimi anni le modifiche della sua Costituzione e dei Trattati europei che si renderanno necessarie, e se il PEPP della BCE andrà avanti ai ritmi attuali, l’Italia non ha affatto bisogno di ricorrere a uno strumento vecchio e dalle risorse limitate come il MES.

Solo tra aprile e maggio, considerando anche la prosecuzione del ‘vecchio’ programma PSPP di Draghi, la BCE ha acquistato circa 51 miliardi di titoli italiani. Di questo passo, fino a giugno 2021, dei 1350 miliardi finora previsti del PEPP, circa 300 potrebbe finire in acquisti di titoli italiani. Queste sì sono davvero risorse senza condizionalità, senza “stigma” e quasi a tasso zero (perché gli interessi vengono restituiti al Tesoro via Bankitalia!).

Si calcola che, alla fine del PEPP, la BCE possa detenere fino a quasi il 30% del debito pubblico italiano. Non un “sovranista”, ma Alain Minc, autorevole consigliere di Macron, ha proposto di recente che questa quota di debito possa essere cancellata dalla BCE o trasformata in titoli perpetui (il che agli effetti pratici sarebbe la stessa cosa). È una cosa sbagliata perché la sostengono anche i “sovranisti”? No, è la battaglia decisiva da fare, anche perché il suo esito positivo correggerebbe in profondità l’impianto dell’euro e smentirebbe la tesi dei nazionalisti sull’irriformabilità dell’Unione Europea.

In conclusione, proprio l’impegno per un’Italia forte e salda in una nuova Unione Europea ci deve portare ad archiviare vecchi strumenti, che rischiano solo di dare più margini di resistenza alle forze che in Germania e negli altri Paesi ‘rigoristi’ voglio impedire un definitivo cambio di fase.

E pazienza se questo significa far dispiacere Confindustria, ancora affezionata all’Europa del “vincolo esterno” e dei governi deboli con cui si tratta meglio. Nella scorsa legislatura, il centrosinistra, dal lavoro alla scuola, ha pagato un prezzo alto al fatto di aver spesso ascoltato in maniera acritica i suoi consigli.

Forse, se vogliamo costruire un nuovo centrosinistra, dobbiamo preoccuparci un po’ di meno delle poche grandi aziende, che Confindustria ancora rappresenta, e un po’ di più di tutto il mondo di piccole imprese, partite IVA, giovani professionisti, con cui da molti anni ormai il nostro campo politico fa molta fatica a interloquire. Ma qui si aprirebbe un altro discorso, sulla nuova cultura economica e lettura dell’Italia di cui la sinistra ha bisogno.