di Umberto De Giovannangeli
Sinistra e mondo: due “universi” che Massimo D’Alema ha conosciuto e praticato, da protagonista, come pochi altri in Italia: da leader di partito, da ministro degli Esteri, da presidente del Consiglio e, oggi, da presidente della Fondazione Italianieuropei. Una memoria storica proiettata nel futuro.
Presidente D’Alema, una sinistra che ricerca un pensiero forte può prescindere da una sua visione del mondo e delle relazioni internazionali?
È evidente che una forza di sinistra non può prescindere da una propria visione del mondo e dei grandi processi internazionali. Noi viviamo in un mondo sempre più frantumato, in un mondo “mosaico”. Anche il campo delle forze progressiste subisce questo processo di frantumazione. A volte risulta difficile individuare un filo che unisce le diverse sinistre. Prendiamo ad esempio la visione di cui è portatrice la sinistra brasiliana tornata al governo di quel grande paese e la posizione di fronte alle sfide di oggi e al tema drammatico della guerra. Una visione radicalmente diversa rispetto a quella della sinistra europea. Già questo è un segno. Che va inquadrato nella fase come si sarebbe detto un tempo che stiamo vivendo.
Quale?
Anche se alcuni aspetti della globalizzazione economica appaiono irreversibili, è tuttavia evidente che noi viviamo una battuta di arresto. In particolare è inquietante la frantumazione politica del mondo, che smentisce in un modo abbastanza clamoroso l’illusione o la pretesa dell’Occidente di una unificazione politica del mondo sotto il segno dell’egemonia liberaldemocratica. Questo non c’è stato ed anzi si sono moltiplicate le linee di frattura e i conflitti. Noi abbiamo avuto diverse fasi: il bipolarismo, la Guerra fredda. Seguita dall’idea di un mondo unipolare, che è tramontata. In questo momento gli Stati Uniti d’America ripropongono la loro leadership sul mondo occidentale, in qualche modo rinunciando ad una pretesa egemonica, nella logica di una contrapposizione, un nuovo bipolarismo tra le democrazie e le autocrazie. Questo è stato in particolare l’approccio dell’amministrazione democratica. Ma questo schema non funziona.
Perché?
Innanzitutto perché non è accettato dal resto del mondo. La più grande democrazia del mondo, l’India, non applica le sanzioni contro la Russia, pur non approvando la guerra. Ma non è schierata con l’Occidente, come pure il Brasile, e con il Brasile quasi tutti i paesi democratici dell’America Latina. Insomma è pieno di democrazie che non si fidano dell’Occidente. E, pur condannando l’aggressione russa all’Ucraina, considerano l’Occidente in una certa misura corresponsabile del conflitto in corso. Ma anche dal punto di vista dell’interpretazione dei fenomeni politici appare assai problematico ridurre la complessità del mondo nell’alternativa tra democrazia e dittatura. Perché abbiamo una quantità di modelli “misti”. Persino l’Occidente presenta dei modelli “misti”. Abbiamo membri dell’Unione europea che sono sotto accusa da parte della Corte europea per violazione di principi fondamentali. Ma se andiamo al cuore dei sistemi democratici, le democrazie sono in una profondissima crisi di partecipazione e di consenso. In particolare nelle democrazie più mature il tasso di consenso e di partecipazione attiva diventa sempre più inquietantemente minoritario. Oggi se uno guarda all’Italia, alla Francia, per fare due esempi, i governi poggiano su una base di consenso limitatissima. Questo è un problema mica piccolo per la democrazia. Siccome democrazia vuoi dire che il potere è del popolo, quando tu vedi che il potere si fonda sul consenso di un quarto della popolazione avente diritto, ti domandi dov’è il potere del rimanente 75%. Pochissimi hanno fatto questa riflessione, secondo me fondamentale. Dieci anni fa ci si disputava il governo del Paese sul filo dei venti milioni di voti. Oggi la maggioranza parlamentare ha come fondamento dodici milioni di voti. È come se fosse crollata un’ala del palazzo. Un cambiamento strutturale. Se riporti questo sugli aventi diritto al voto, la base di consenso del governo si aggira attorno al 27%. Se poi calcoli, invece, quelli che vivono e lavorano in Italia, 8 milioni di lavoratori fondamentali per il Pil del Paese, che non hanno diritto di voto perché sono immigrati, ti rendi conto delle dimensioni allarmanti della crisi profonda delle democrazie. Una crisi, per molti versi drammatica, che non deriva dall’aggressione esterna delle autocrazie ma si sviluppa all’interno delle nostre stesse società per la crescita delle diseguaglianze sociali e dei processi di esclusione. Guai dimenticare, soprattutto a sinistra, che le democrazie, in particolare in Europa, sono state basate anche su un patto di inclusione sociale che oggi appare indebolito e sfibrato.
Tornando al mondo…
Io credo che il grande problema che ci dovremmo porre, e che in realtà si pone solo la cultura cattolica, è come fare in modo che la crescita delle differenze non generi conflitti ma ci spinga ad elaborare le regole e, direi la cultura di una nuova convivenza, quello che un tempo si chiamava coesistenza pacifica. Una nozione che forse andrebbe recuperata. Certo, una volta la coesistenza pacifica era a modo suo più semplice, perché passava attraverso l’organizzazione dei rapporti tra due blocchi. Oggi presenta un maggiore grado di complessità perché comporta l’organizzazione di rapporti molteplici. E ridefinire una idea di costruzione della pace non solo come assenza di guerra ma anche come un insieme di regole condivise e quindi la possibilità di prevenire i conflitti, di governare le grandi sfide globali l’ambiente, le migrazioni. Tutto questo comporta crescenti forme di collaborazione, d’integrazione internazionale. Significa governare la globalità dell’economia e della finanza, rispetto a cui la politica appare impotente anche perché frantumata e divisa. Si tratta di un problema enorme da cui largamente dipende il futuro della sinistra. Alcune delle grandi questioni su cui la sinistra si gioca la sua identità, ad esempio il grande tema della redistribuzione della ricchezza, senza una regolazione internazionale difficilmente oggi è affrontabile nei confini dello Stato nazionale. Non solo ci vuole una visione del mondo. Ci vuole una visione del mondo improntata a dare risposta a questo grande problema. Come si affronta la frantumazione, il moltiplicarsi dei conflitti, e quindi la guerra.
La guerra, entrata nel secondo anno. La guerra e l’Europa.
L’Europa non è stata in grado di ritagliarsi un proprio ruolo. L’alleanza non rinunciabile con gli Stati Uniti non può significare per l’Europa la rinuncia a tutelare i propri interessi non sempre coincidenti con quelli degli americani e anche a perseguire i valori della tradizione umanistica e giuridica europea. Macron ha posto questo problema ed è stato aggredito da un ultra atlantismo che va molto di moda sui giornali, ma credo risulti poco persuasivo per la grande maggioranza dei cittadini.
Vale a dire?
Il tema posto dal presidente della Francia è esattamente questo, che l’Europa sia se stessa nel rapporto con gli Stati Uniti. In questa vicenda non c’è stata traccia di un’azione politica dell’Europa. Che si debba aiutare l’Ucraina è giusto. In questo l’Europa ha fatto il suo dovere. Ma che contemporaneamente non si dovesse cercare una soluzione politica di questo conflitto, questo no, non è giusto. E in questo l’Europa ha mancato una sua responsabilità. Oggi la ricerca di una soluzione politica di questo conflitto, nella misura in cui questo accade, è affidata ad altri attori.
Quali?
Innanzitutto papa Francesco con i suoi appelli e con le sue iniziative. E poi la Cina che, piaccia o no, è oggi l’attore politico più rilevante sulla scena internazionale, anche perché si è tenuta fuori da questo conflitto, pur se in tutti i modi gli americani hanno cercato di tirarla dentro ma non ci sono riusciti. Il Brasile che dopo avere inviato Celso Amorim, il collaboratore più stretto di Luiz Inácio Lula da Silva a Mosca, sta ora preparando una importante missione a Kiev, facendo così la spola tra Putin e Zelensky e cercando possibili punti di contatto per costruire una via d’uscita ragionevole da questa tragedia. Vorrei ricordare quello che è stato presentato come il piano di pace cinese e che i cinesi non avevano mai presentato come tale, perché si trattava invece di una indicazione dei principi intorno ai quali si potrebbe ricostruire un quadro internazionale di convivenza. Questa iniziativa è stata accolta con disprezzo da tutto il mondo occidentale, ma con interesse a Kiev. È sconfortante constatare che di fronte alla tragedia della guerra l’Europa sia in grado solo di produrre munizioni lasciando ad altri il compito di produrre idee e soluzioni possibili. È una condizione, per certi versi, senza precedenti dal dopoguerra a oggi. Prendiamo il conflitto nei Balcani. La guerra nel Kosovo, in quel caso non ci tirammo certo indietro davanti alla necessità dell’uso della forza, ma gli europei soprattutto Francia, Germania e Italia furono molto fermi con gli americani per mantenere aperta la prospettiva di una soluzione politica che fosse inclusiva e rispettosa delle diverse forze in campo. Non abbiamo mai detto che noi volevamo vincere la guerra contro la Serbia. Mai. Che oggi è la parola d’ordine in Ucraina. Bisogna vincere la guerra contro la Russia. Una espressione che ha un significato che andrebbe analizzato con serietà. Che cosa significa vincere la guerra contro una potenza nucleare? E chiaro che questo comporta il rischio di una guerra nucleare. Questo è stato valutato politicamente? I militari lo stanno valutando questo rischio e anche le possibili conseguenze. Ma l’opinione pubblica europea è pronta alla guerra nucleare? Nel caso del Kosovo, non c’era un rischio nucleare e tuttavia noi fummo sempre molto precisi nel sottolineare i limiti dell’azione militare volta a proteggere la popolazione civile del Kosovo. Nello stesso tempo esercitammo una pressione politica offrendo a Milosevic una soluzione ragionevole che comprendeva la tutela delle minoranze serbe in Kosovo, la tutela dei luoghi sacri serbi nel Kosovo. Anche durante il conflitto, l’Italia non chiuse l’Ambasciata a Belgrado. Continuammo un dialogo col governo serbo e convincemmo gli americani a coinvolgere la Russia nella ricerca di una soluzione politica del conflitto. E alla fine ci fu un accordo politico. Tanto è vero che in Kosovo non entrò la Nato ma un contingente deliberato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il Kfor. E i primi di quel contingente che entrarono in Kosovo furono i russi che presero possesso dell’aeroporto di Pristina. Ci fu la guerra. Ma nello stesso tempo ci fu la politica. E l’Europa fu particolarmente protagonista di quest’azione politica. Qui la politica è scomparsa. La politica la fanno la Cina, il Brasile. L’Europa vuole vincere la guerra contro la Russia. E questo lo trovo alquanto preoccupante.
Restiamo sul ruolo dell’Europa e del rapporto con l’America.
Riscoprire un ruolo dell’Europa, un senso di sé, come ha affermato Macron, non significa assumere un atteggiamento antiamericano. È stato un teorico americano a spiegare che l’Occidente ha due volti: Marte, l’America. E l’Europa, Venere. E Minerva, mi permetto di aggiungere. Questa vocazione europea, che i teorici dell’iperatlantismo considerano scioccamente un elemento di debolezza, a complementare l’azione americana con una tradizione giuridica, diplomatica propria dell’Europa, questo sembra essere completamente scomparso. E la sinistra europea che dovrebbe l’erede principale di questa tradizione, da questo punto di vista non mostra segni. L’unico – che peraltro non appartiene alla famiglia socialista – che ha posto questo tema per poi essere immediatamente isolato e aggredito da ogni lato, è stato Macron. Il che è tutto dire.
La massima espressione del mondo cattolico è Papa Francesco. Bergoglio ha parlato, inascoltato, più volte di una terza guerra mondiale a pezzi in atto. Perché inascoltato?
Forse inascoltato dai governi occidentali; ma ascoltato in tutto il resto del mondo. È arrivato il momento di rendersi conto di ciò che rappresenta oggi l’Europa nel mondo. Cento anni fa l’Europa rappresentava più della metà della ricchezza del mondo, e il 26% della popolazione aveva come età media 25 anni. Essere eurocentrici allora aveva un senso. A mio giudizio non era giusto, ma aveva un senso. Oggi noi siamo più o meno 1’8% dell’umanità con un’età media intorno ai 47 anni e rappresentiamo una porzione della ricchezza globale intorno al 14-15%. Continuare a pensare di essere il centro del mondo è quasi ridicolo. Vuol dire non avere il senso della realtà. Della realtà attuale e delle inesorabili tendenze verso le quali noi siamo proiettati. Continuiamo a parlare di quello che succede a casa nostra come se fosse il metro dell’umanità. Non è così. Il Papa ha avuto uno straordinario merito: quello di sganciare il destino della Chiesa da quello dell’Occidente. Di separarlo e quindi di proiettare di nuovo la Chiesa in una dimensione globale. Il mondo lo ascolta. La realtà del mondo è questa. Noi non ne abbiamo la percezione. Quando sono stato al Salone del Libro di Guadalajara, un grande evento della cultura latinoamericana, a parlare della crisi dell’ordine mondiale, la cosa che mi ha colpito parlando con intellettuali e politici, è che nel mondo non è che ci sia solidarietà verso la Russia, anche perché tutto questo mondo è quello che ritiene che la violazione dei diritti nazionali, dei confini, sia qualcosa che va preso molto sul serio. Semmai obiettano all’Occidente il fatto che si muove a fasi intermittenti. L’ambasciatore Ferrara ha scritto un libro molto bello, Alla ricerca di un Paese innocente. È bellissimo. E tra l’altro affronta anche questo tema. Gran parte del mondo quando noi europei diciamo che in Ucraina è avvenuto un fatto di inaudita gravità, è stato violato uno Stato sovrano, c’è un aggressore e un aggredito eccetera, non siamo credibili. Perché, ci viene obiettato che l’Occidente ha violato molte volte questo principi. Si dice: bisogna processare il capo degli aggressori, il malvagio Putin. Gli americani hanno invaso l’Iraq anche avendo inventato di sana pianta una giustificazione, raccontando una balla colossale a tutto il mondo nella sede delle Nazioni Unite. Hanno aperto un conflitto terrificante che è costato un numero altissimo di morti e ha prodotto violazioni massicce dei diritti umani fino all’orrore di Abu Ghraib. Anche perché l’effetto di quella guerra non è stato l’espandersi della democrazia, ma la progressiva destabilizzazione di tutto il Medio Oriente. Di tutto questo nessuno si è preso la responsabilità, né sono stati aperti procedimenti presso qualche corte penale internazionale. Questo vale anche quando si solleva giustamente il tema della inammissibilità della annessione, manu militari, di territori altrui come sta facendo la Russia in Ucraina. Per un arabo non c’è nessuna differenza tra quella annessione e l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme. Insomma i principi e i valori hanno un senso e sono credibili quando si applicano sempre nello stesso modo. Una forza di sinistra non può non avere la percezione di tutto questo. Io non rimprovero all’Occidente di essere se stesso. Anzi lo rimprovero di essere incoerente. Vorrei che l’Occidente fosse più coerente con i principi che afferma. È mai possibile che la presidente della Commissione europea celebri i 75 anni dello Stato d’Israele, senza una sola parola sulla questione palestinese? Parliamo dell’Europa a cui non chiedo di essere filo araba ma di essere coerente con la Dichiarazione di Venezia dell’Unione europea. Di essere coerente con se stessa. Altrimenti perde qualsiasi credibilità.
Noi e il mondo…
Noi non siamo soli nel mondo. Anzi, siamo sempre di più pochini. Tutto il resto del mondo ha un modo diverso di vedere le cose. Non accetta questa visione manichea, per cui da una parte c’è il Bene, la democrazia, e dall’altra c’è il Male, il disvalore, le dittature… Vi sono grandi Paesi democratici che hanno rapporti di collaborazione con la Russia, con la Cina. Credo che uno dei fenomeni a cui assisteremo nei prossimi mesi, non anni, mesi, sarà un cospicuo allargamento dei Brics, cioè del forum che unisce Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa. Ci sono molti paesi che vogliono unirsi, come l’Argentina, l’Algeria, l’Arabia Saudita ed altri, e in più si vanno potenziando strumenti di azione comune come la Banca dei Brics, la cui direzione è stata affidata a Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile. Non mi pare proprio che si vada nel senso dell’isolamento delle cosiddette autocrazie. Eppure parliamo di paesi che non approvano l’invasione in Ucraina ma pensano che sia necessario un forte contrappeso al ruolo, ritenuto abusivo, svolto dal G7. Il quale G7, quando si costituì nel 1975, rappresentava indiscutibilmente la gran parte della ricchezza del mondo. Oggi non più, e pretende di comandare anche se rappresenta una minoranza che si va progressivamente restringendo. E una quota di ricchezza che anch’essa si va restringendo in quota proporzionale della ricchezza del mondo. Mi lasci aggiungere che una delle manifestazioni più impressionanti di questa accresciuta difficoltà dell’Occidente ad essere un attore politico è che, in un altro scenario di guerra, è stata la Cina a promuovere la ripresa di un dialogo tra l’Iran e l’Arabia saudita, cosa che sembrava impensabile. Il banco di prova di questa iniziativa è nella possibilità della pace dello Yemen. Tuttavia una qualche prospettiva lì si sta aprendo – scambio di prigionieri, tregua -. In un contesto, quello del Golfo, che non è proprio di casa per la Cina, ma i cinesi si sono presentati portando avanti un’operazione sin qui straordinaria. Alleati storici degli Stati Uniti, come sono le monarchie del Golfo, guardano alla Cina come un interlocutore importante dal punto di vista economico, politico. Come un Paese che è portatore di un elemento di stabilizzazione della regione. Quella la trovo un’occasione enorme perduta dall’Europa e un segnale che stanno mutando degli equilibri importanti nel mondo.
Uno dei concetti forti della sinistra è stato quello dell’internazionalismo. Oggi usare questa parola a sinistra è blasfemia?
Non per me. Il problema dell’internazionalismo nel presente e nel futuro, per non ridursi a una evocazione nostalgica, è quello di come si affronta e ci si pone di fronte a un mondo frammentato. C’è un grande tema culturale. Se si vuole uscire da un dibattito pubblico che appare spesso propagandistico, vuoto, occorre ricostruire il senso di alcune categorie. C’è bisogno di una dimensione internazionale dell’agire politico. Le due grandi questioni che il capitalismo globale non solo non ha risolto ma ha aggravato, che sono la diseguaglianza e il conflitto tra sviluppo e ambiente, non hanno soluzione se non in una dimensione globale internazionale. Perché al fondo della crescita della diseguaglianza c’è il fatto che la ricchezza finanziaria è globale e gli Stati nazionali non hanno sovranità su di essa. Se pensiamo che persino il presidente degli Stati Uniti ha detto: dobbiamo tassare le transazioni finanziarie a livello globale, e non ha fatto nulla dopo avere dichiarato che questo è un grande tema. Perché Biden non è bravo? No, perché non ha la forza per farlo. Perché la finanza è più forte della politica. E anche perché la politica è divisa. Queste sono sfide che soltanto un certo grado di coesione internazionale, di collaborazione tra i grandi poteri politici a livello globale può consentire di affrontare, sennò non l’affronti. Perché se lo fai da una parte, la ricchezza se ne va da quell’altra. Queste sfide si vincono solo ricostruendo una dimensione internazionale dell’agire politico. Il che comporta un certo grado di capacità di convivere con gli altri. Senza coesistenza non c’è collaborazione internazionale. Questo è il grande tema oggi che la sinistra dovrebbe affrontare anziché quello di pensare che il grande tema è quello di vincere la guerra contro la Russia.