di Daniela Preziosi
«La risposta occidentale all’attacco terroristico delle Twin Towers aveva un contenuto militare, che ha ottenuto qualche risultato. Ma aveva soprattutto un forte disegno politico-culturale: l’idea che attraverso l’espansione della democrazia nel mondo islamico si sarebbero costruiti anticorpi in grado di debellare il fondamentalismo antioccidentale e il terrorismo. Questo progetto è fallito».
A destra, in alto, un monumentale uccellaccio dorato, pacchiano, è un fermalibri a forma di aquila americana, «regalo del generale Wesley Kanne Clark», il falco comandante dell’Operazione Allied Force nella guerra del Kosovo. A sinistra, appoggiato a terra in un angolo, un ritratto di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, insomma Stalin, in posa occhiuta, regalo di un amico russo, «è un bel quadro, ma Stalin non merita di essere appeso al muro, ha ucciso troppi comunisti». Massimo D’Alema riceve nello studio di Italianieuropei, a piazza Farnese, seduto a un tavolo, sotto il fuoco incrociato di foto e cimeli post guerra fredda. Il prossimo numero della rivista sarà dedicato all’11 settembre. A vent’anni dagli attentati, si può tentare un bilancio sulla «guerra infinita» che l’Occidente – gli Usa, la Nato, l’Europa, senza sostanziali distinzioni fra conservatori e progressisti – ha portato, e non solo in Afghanistan. D’Alema è stato capo del governo nel 1999, quando l’Italia prese parte alla guerra nei Balcani. E ministro degli esteri nel 2007, quando l’Italia assunse la guida della missione in Libano. Quell’anno proprio sulla politica estera il secondo governo Prodi rischiò di cappottare: due senatori di Rifondazione comunista fecero mancare i voti, il dissenso era sull’Iraq e sull’Afghanistan. Il ministro sosteneva la differenza fra le due missioni, la prima senza l’approvazione dell’Onu e sulla base «della menzogna dell’esistenza delle armi di distruzione di massa». La seconda sulla base del «fatto accertato che ci fossero le basi di Al Qaeda» nascoste nelle montagne afghane. D’Alema la pensa ancora così, nonostante il rovinoso finale di Kabul, di questi giorni.
L’Operazione Enduring Freedom ha avuto risultati militari?
I capi al Qaeda sono stati uccisi, è stato dato un colpo molto duro alle organizzazioni terroristiche in generale ed è stato impedito all’Isis di creare uno stato islamico. È invece il progetto politico ad essere fallito. Tanto i repubblicani americani, soprattutto nella fase neocon, quanto i democratici, che hanno puntato più sul soft power, avevano la stessa idea: combattiamo il terrorismo e modernizziamo il mondo islamico, espandiamo la democrazia. Invece alla fine paradossalmente l’occidente si trova ad avere al suo fianco le autocrazie, non le democrazie.
È fallita l’dea di “esportare la democrazia con le armi”?
Non solo con le armi, è fallita l’idea che si possa esportare la democrazia. Sono fallite anche le primavere arabe, che era l’espansione della democrazia sull’onda di un movimento popolare. L’omologazione culturale non funziona.
I pacifisti radicali dicono da sempre che quella guerra, come tutte, serviva solo all’industria delle armi americane. Hanno torto?
C’è anche quest’aspetto, ma vent’anni di storia non sono spiegabili con il fatto che l’industria militare americana doveva svuotare gli arsenali e vendere le bombe. Cosa che pure è avvenuta. Ma è un vantaggio collaterale.
Un effetto collaterale, come i morti. Allora qual è stato il vero motore della guerra?
Un disegno politico: l’idea che la fine del comunismo e la vittoria della democrazia nell’Europa Orientale aprisse la strada al modello occidentale, che poteva espandersi anche nel mondo arabo. Un’analisi sbagliata perché partiva dalla lettura sbagliata di quello che era successo prima dell’11 settembre. Per molti anni il fondamentalismo musulmano è stato alleato dell’Occidente contro l’Unione sovietica e contro il socialismo nazionalista arabo post nasseriano, che aveva un rapporto positivo con l’Urss. Le forze conservatrici tradizionaliste hanno avuto il sostegno dell’Occidente. L’attentato alle Twin Towers non fu opera dei talebani ma di una élite araba, per lo più saudita, che era finita sulle montagne dell’Afghanistan perché lì l’avevano portata gli americani, che avevano favorito la creazione di un movimento di volontari islamici per combattere contro i sovietici. La preparazione politico-militare del campo fondamentalista dunque è stata fatta dall’Occidente, perché i fondamentalisti erano i principali alleati in chiave anticomunista e antisocialista araba. Non è stata l’unica volta: persino Israele all’inizio finanziò Hamas contro l’Olp. Quando i sovietici si ritirarono dall’Afghanistan, i talebani massacrarono i comunisti afghani – Mohammad Najibullah fu castrato e squartato – e la stampa occidentale salutò l’evento come la vittoria della libertà contro il comunismo. Ricordo che nel Pci condannammo l’intervento sovietico, ma Giorgio Amendola non era d’accordo. Non perché fosse diventato filosovietico ma perché, ci spiegò, “non vi rendete conto che i sovietici stanno arginando il pericolo immenso dei fondamentalismi musulmani”. Era quarant’anni fa. In quel momento si crea il rapporto fra al Qaeda e Afghanistan.
Nel 2001 dunque gli americani ci trascinano in una guerra contro i loro ex alleati.
Il vero problema è che i loro ex alleati avevano volto le armi contro l’occidente e gli Stati Uniti trovando accoglienza e sostegno tra i talebani.
I talebani non sono terroristi?
I talebani sono un movimento fondamentalista, violento e intollerabile per i comportamenti contro le donne e contro le minoranze, ma credo sia sbagliato definirli un gruppo terrorista. l’Isis è un gruppo terrorista, i talebani sono un movimento politico, come Hezbollah e Hamas, definirli terroristi è una stupidaggine.
Una “stupidaggine” che fa tutto il consesso delle nazioni civili.
Hezbollah si presenta alle elezioni. Hamas nel 2006 vince le elezioni in cui l’Unione europea manda i suoi osservatori, che certificano che il voto è democratico, ma poi l’Ue dice “non possiamo accettare questa vittoria perché Hamas è un gruppo terrorista”. Una manifestazione di stupidità, o meglio un’analisi semplicistica che non aiuta a capire la realtà e quindi non ci aiuta a capire cosa si deve fare.
Ha ragione dunque l’ex premier Conte quando dice che bisogna parlare con i talebani?
Gli americani parlano con i talebani ininterrottamente dal 2018. È ovvio che lo si debba fare anche per evitare una catastrofe umanitaria e per cercare di esercitare il massimo di condizionamento possibile. Solo da noi si poteva sviluppare un dibattito surreale come quello sulle parole di Giuseppe Conte. Il vero problema è come parlare con i talebani senza che questo significhi un riconoscimento formale della legittimità del loro governo. Come quando bisognava fare la pace fra Hezbollah e Israele, con chi dovevi parlare? Io andai a parlare con gli Hezbollah. Dissi a Condoleeza Rice (segretaria di stato del presidente George W. Bush, ndr): se pensi che si possa fare un accordo senza parlarci, prova tu. Il paradosso adesso è che gli americani con i talebani ora dovranno non solo parlare ma collaborare per sconfiggere l’Isis. Tanto è vero che nel 2018 hanno dovuto fare un decreto per stabilire che i talebani non erano più terroristi ma insurgents.
Gli americani, e gli europei di complemento, fanno il contrario di quello che serve per promuovere la democrazia?
È paradossale, lo si capisce anche dalla vicenda egiziana, e da quella siriana. Più noi spingiamo verso la democrazia, più ci troviamo di fronte il fondamentalismo musulmano, perché ogni volta le elezioni vere le hanno vinte loro. Bisognerebbe studiare cos’è l’islamismo, nelle sue diverse facce, come costruire una compatibilità fra Islam e democrazia, come isolare le frange fondamentaliste violente, quali sono le radici culturali di questa violenza perché non c’è dubbio che la tradizione wahabita è più radicale per una certa interpretazione del Corano. Ma tutto questo lavoro culturale l’occidente non l’ha fatto. Abbiamo pensato che andavamo e aprivamo un McDonald.
Ci sono state sinistre diverse di fronte alla guerra in Afghanistan. La sinistra socialdemocratica, italiana e europea, che ha detto sì a quell’intervento, è stata una forza di complemento in questi errori, o un alleato dei conservatori?
Nel 2007 ai colleghi della Nato dissi, a nome del governo, che la guerra non si poteva vincere perché era una guerra contro un pezzo del popolo afghano. In questi vent’anni sono stati uccisi o mutilati 33mila bambini, in buona parte vittime dei bombardamenti occidentali. Spiegai dunque che non si poteva costruire uno stato in grado di stare in piedi se non si includeva nel processo politico la maggiore forza, i talebani. Anche perché che razza di democrazia è quella in cui la maggiore forza politica viene esclusa? Oggi infatti quell’Afghanistan è crollato in una settimana. All’epoca anche il presidente Karzai (sostenuto dagli Usa, ndr) era d’accordo. Rice disse di no, “gli Usa non tratteranno mai con i talebani”. Dopo molti anni, in una posizione di estrema debolezza, gli Usa hanno dovuto trattare con i terroristi, salvo derubricarli a insurgents, e quando non c’era più niente da trattare, tranne che non ti sparassero alle spalle mentre te ne vai. Bisognava trattare prima, da una posizione di forza, non fu fatto per una scelta ideologica e illusoria.
Il governo italiano, di centrosinistra, non poteva fare di più che prendere semplicemente atto delle scelte americane?
Grazie all’iniziativa europea e italiana le cose in Libano sono andate diversamente. In Libano abbiamo posto fine alla guerra, lo abbiamo fatto discutendo anche con Hezbollah e trovando soluzioni negoziate che hanno tutelato la sicurezza di Israele. In altre realtà non è stato possibile.
Nel 2001 la sua sinistra era però d’accordo con la missione Usa.
L’intervento militare era legittimo, gli americani erano stati attaccati, al Qaeda aveva basi in Afghanistan.
L’altra sinistra, quella di Rifondazione comunista, diceva invece “guerra ingiusta e inefficace”.
La guerra era giusta. Cioè era legittima, era innegabile. Poi è naturale che la guerra porta sempre con sé un’ingiustizia perché uccide le persone.
Che la guerra fosse inefficace però sembra evidente, oggi, o no?
Quella guerra, come altre, era inevitabile. Ma il problema delle guerre è vincerle. E per vincerle serve la politica, non solo la forza delle armi. Quando facemmo la guerra nel Kosovo, una guerra giusta per porre fine alla loro guerra, avevamo un obiettivo politico chiaro: obbligare il governo della Serbia a ritirare i soldati dal Kosovo e proteggere i civili. Per questo servì un’azione militare e un’azione politica. E nessuno di noi disse “non si può parlare con Milosevic”. Gli americani capirono. Venne in Italia Černomyrdin (Viktor Stepanovič , ex primo ministro sovietico, ndr), chiamammo Clinton. Il nostro governo tenne un rapporto con i serbi e alla fine si trovò una soluzione politica. Poi furono i serbi a cacciare Milosevic. C’era chi la pensava diversamente. L’amico Tony Blair insieme al presidente spagnolo Aznar consideravano possibile l’invasione della Serbia. Sarebbe stata una follia.
II governo D’Alema nacque perché Prodi era meno convinto di lei su quella guerra, e perché lei era più affidabile per la Nato?
Nel trattato della Nato è prevista la clausola dell’«activation order» (il trasferimento dell’autorità sulla macchina militare di un paese Nato al comando dell’alleanza, ndr) nelle situazioni di crisi. L’activation order era stato già emanato da Prodi. Il governo D’Alema è nato perché il governo Prodi fu messo in crisi da Fausto Bertinotti. E di fronte alla posizione del presidente Scalfaro, che escluse la via delle elezioni a causa della crisi internazionale, l’Ulivo indicò unitariamente nelle consultazioni il mio nome.
Per il segretario del Pd Letta le guerre «in Siria, Afghanistan e Iraq» sono state sbagliate. È d’accordo?
La missione della Nato in Afghanistan è stata condotta male, come ho detto. In realtà in tutte queste situazioni, le grandi sconfitte sono state i dopoguerra. Persino in Iraq.
Anche quella contro l’Iraq era una guerra giusta?
Quell’intervento era sbagliato. Ma gli errori più gravi sono stati fatti dopo, e sono stati disastrosi: quando gli americani decisero di sciogliere il partito baathista e le forze armate. È la stessa logica applicata a Kabul, ed è distruttiva: l’idea che siccome sono arrivati loro l’Iraq si trasforma nel Texas. E invece, disciolto lo stato iracheno, è nato l’Isis. Se noi vogliamo promuovere un processo di apertura nel mondo arabo bisogna fare i conti con l’islamismo. Le dico il problema di fondo?
Lo dica.
La grande sconfitta della democrazia nel mondo arabo è stata in Egitto, dove i Fratelli musulmani avevano vinto le elezioni e i militari hanno stroncato questo processo con un colpo di stato che tutto l’occidente ha festeggiato. Hanno messo in prigione il presidente eletto e hanno avviato una repressione feroce contro la maggiore forza politica del paese. Ma se vogliamo un processo di democratizzazione, dobbiamo avere il coraggio di fare i conti con l’islamismo e distinguere fra le componenti violente e fondamentaliste e quelle che non lo sono, o lo sono meno. E avviare un dialogo politico culturale. Fin qui l’Occidente non è stato in grado. E dopo aver predicato per vent’anni di essere lo spillover della democrazia contro il terrorismo ha scelto le autocrazie, cioè i sistemi autoritari.
Verso l’Egitto l’Italia dovrebbe avere un atteggiamento diverso?
Non dico che dobbiamo stare in guerra con tutto il mondo, ma ritengo che ciò che è mancato all’Italia nella vicenda Regeni, è stata una effettiva solidarietà dell’Europa.
L’Europa anche di fronte all’Afghanistan balbetta. Ora sui media si discute di una forza militare comune europea, ma il sospetto è che se ne parli a vuoto.
L’Europa ha contato poco. Intanto perché gli americani hanno deciso il ritiro in modo unilaterale. Gli Usa erano stanchi di guerra, si erano illusi di vincerla sul piano militare e invece ormai era diventata un peso insostenibile. Il contraccolpo in Europa è stato forte perché si è avuta la sensazione che sugli americani si possa contare sino a un certo punto. Il riflesso è dire che dobbiamo preoccuparci di più della nostra sicurezza. Ma è evidente che una forza europea di pronto intervento ha senso se c’è una politica estera comune.
Ma una politica estera comune è all’orizzonte?
Nella Ue la politica estera in alcuni momenti è comune in altri no. I trattati continuano a prevedere che sia materia nazionale. È comune quando si realizza una convergenza. In questo momento non è facile perché l’Europa è politicamente divisa, pesano i nazionalismi, i populismi. Ma sarà sempre più sufficiente la convergenza dei maggiori paesi. Dipenderà da quello che succederà con le elezioni in Germania e in Francia. Se ci sarà una “coalition of the willings” (la coalizione dei volenterosi contro l’Iraq, ndr) in senso buono stavolta, e cioè paesi che hanno un indirizzo comune, poi l’Ungheria farà quello che vuole.
In tutto questo il governo italiano ha un ruolo significativo?
Nell’ambito della sua presidenza del G20, Draghi ha giustamente posto l’esigenza di una assunzione di responsabilità da parte della comunità internazionale che vada oltre i confini della Nato. È stato un errore non coinvolgere nella vicenda afghana la Cina, che è confinante, e la Russia.
Cina e Russia del resto nel frattempo si coinvolgono da sole.
Cina e Russia hanno buon gioco a dire che il disastro afghano l’hanno creato gli occidentali, un formidabile alimento per la loro propaganda interna. Ma sono preoccupati per quello che può avvenire nel confinante Afghanistan, quindi sulla base della Realpolitik avevano preso contatto con i talebani per tempo. E il ministro degli esteri cinese ha detto una cosa saggia: la comunità internazionale faccia pressione sui talebani. Su diversi fronti. Il diritto delle persone che vogliono lasciare il paese deve essere preteso; e però bisogna assicurare l’accoglienza nei nostri paesi, dunque l’Europa li deve accogliere. Bisogna impedire che l’Afghanistan diventi un focolaio del terrore, cosa che è anche interesse dei talebani; bisogna tutelare i diritti fondamentali acquisiti in questi anni, quelli delle donne e delle minoranze; e tutelare il diritto delle organizzazioni internazionali di operare a Kabul. L’Onu e la comunità internazionale devono discutere con i talebani, ponendo condizioni in cambio di aiuti, perché li c’è il rischio di una catastrofe umanitaria che non conviene neanche a loro. Quelli che dicono che non bisogna parlare con i talebani devono studiare.
Può fare un bilancio sugli ultimi trent’anni di guerre? Iraq, Balcani, Libia, e Afghanistan.
In generale l’Italia è un paese che ha svolto bene le sue missioni internazionali, le nostre forze armate hanno saputo combinare la competenza militare e la professionalità con un rapporto positivo con le popolazioni e con le Ong.
Ancora “italiani brava gente”, presidente?
Ovviamente parlo dell’esercito della Repubblica italiana, non di quello del fascismo. Potrei farle decine di esempi in altrettanti teatri di guerra. In Afganistan c’è un’esperienza di un ospedale militare, in una vallata, aperto ai civili, talmente straordinario che se ne occupò il New York Times. In Libano, dove l’Italia ebbe per la prima e unica volta il comando della missione, fu un successo, anche nei Balcani abbiamo fatto bene.
La sua sinistra è pacifista?
La sinistra è per la pace. Che è un concetto diverso dall’essere pacifista. Uno che si batte per la pace non può escludere in linea di principio l’uso della forza. Il che significa che il pacifismo, nelle sue forme più integraliste, va guardato con molto rispetto, ma non è una linea politica in grado sempre di assicurare la pace.