Intervista a la Repubblica ed. Bari
di Giuseppe De Tomaso
Da anni, Massimo D’Alema, ex premier, ex ministro degli Esteri, ex leader della sinistra, non riveste ruoli istituzionali in Italia. Ma non ha mai smesso di far politica e di seguirne gli sviluppi, soprattutto a livello internazionale. La sua agenda di contatti è piena come un uovo. Il che gli permette di avere il polso della situazione in Italia e in tutti gli angoli del pianeta. “Se in Occidente le democrazie sono in crisi – dice subito – ciò dipende dal fatto che sono saltati gli equilibri tra i poteri, in particolare tra il potere politico e il potere economico. Quest’ultimo sta dilagando”. Ma andiamo con ordine.
Presidente Massimo D’Alema, in tutto il mondo le democrazie sono in affanno. Lei è stato presidente del Consiglio e ministro degli esteri e oggi ha incontri e relazioni con leader e analisti di tutto il mondo. Guerre, populismi, disaffezione al voto… che sta succedendo?
“Io partirei dall’Italia e vorrei sottolineare un aspetto su cui si è poco riflettuto. Nelle ultime elezioni politiche, in cui il centrodestra ha conquistato un’ampia maggioranza parlamentare, il consenso tributato ai partiti oggi al governo, è stato di circa 12 milioni e 200mila voti. Quando noi del centrosinistra e Berlusconi ci sfidavamo per la guida del Paese, erano necessari 19-20 milioni di voti per vincere alle politiche. La base del consenso reale a chi governa si è ridotta, all’incirca, al 27% degli aventi diritto al voto. Una disaffezione diffusa che è comune a molte democrazie, tra cui la Francia dove la renitenza alle urne è ancora maggiore. Ma non è finita. Alcuni studi dimostrano come in Italia il tasso di partecipazione al voto, già modesto, si riduca ancora più drasticamente nei centri a più basso reddito. Se a ciò aggiungiamo il fatto che nel nostro Paese lavorano 8-9 milioni di immigrati senza diritto di voto, impegnati in larga parte nelle mansioni più umili, la conclusione è che la stragrande maggioranza di coloro che svolgono lavori manuali non partecipa alla vita democratica. O perché esclusa dalla legge o perché non intende parteciparvi”.
La disaffezione del voto a sinistra non dipende anche, come si è scritto più volte, dal fatto che i diritti civili hanno preso il sopravvento sui diritti sociali?
“Questo è vero. Ma i diritti non sono alternativi fra loro. Il vero problema è che sul piano sociale la politica si deve misurare con poteri che essa non è in grado di fronteggiare. E ciò non riguarda solo la sinistra, ma anche la destra. Il dibattito pubblico si concentra su temi come l’immigrazione, i diritti civili, l’omosessualità, la maternità surrogata, perché le vere grandi questioni sono precluse alla politica, sono già predecise altrove. Quale governo può decidere di tassare la rendita finanziaria? Nessuno, perché il capitale è transnazionale, sfugge alle autorità di governo. La crescita delle disuguaglianze è legata a fenomeni che la politica non è in grado di affrontare, arginare e regolamentare. La destra ha vinto le elezioni sulla base di un programma, per certi versi, assai coraggioso: difendere la sovranità nazionale dalla globalizzazione, sfidare il potere economico transnazionale, contenere il potere di Bruxelles e della Bce… Risultato? Oggi il principale elogio rivolto alla Meloni è di aver abbandonato il suo programma”.
Ma non è un fatto positivo che la Meloni abbia abbandonato il sovranismo? Diceva Mitterrand che il sovranismo porta alla guerra.
“Io non sono sovranista. Voglio solo ribadire che ciò che si promette agli elettori non ha alcun valore, perché ci sono cose che non si possono fare, perché ci sono poteri assai più forti della politica”.
Ma non è inevitabile che sia così, visto che molti problemi sono complessi, internazionali e sovranazionali e richiedono risposte, soluzioni altrettanto sovranazionali?
“È vero. Ma è anche vero che la politica non ha la forza di imporre determinate scelte a livello internazionale. Persino Biden si è dovuto arrendere, mi pare. Aveva detto di voler raddoppiare dal 20% al 39,6% la tassazione sui capital gain, di voler tassare le transazioni finanziarie e di voler aumentare il prelievo sul reddito delle grandi società e dei plurimiliardari, ma il suo piano si è fermato”.
Come giudica i primi passi di Elly Schlein?
“Intanto, la sua elezione è un fatto assai positivo, è una ventata di cambiamento, di fiducia che interrompe e ribalta una fase di forte depressione a sinistra. È ancora presto per esprimere giudizi sul suo operato. Le mando i migliori auguri. Ha il compito di rilanciare, di rianimare il partito, per evitare che un iscritto possa commentare in questi termini sarcastici, come mi è capitato di sentire, e cito testualmente, l’esito congressuale: “Dopo aver perso le elezioni, il Pd ha perso anche le primarie, il Pd ha votato contro se stesso””.
Autonomia differenziata: al Sud c’è chi è convinto che non se ne farà nulla e c’è chi pensa che bisogna mobilitarsi perché il rischio della spaccatura del Paese è reale.
“Sarebbe il caso di ripensare l’intero sistema delle autonomie, non solo a proposito del disegno di Calderoli, ma anche in merito al regionalismo così come realizzato finora. Il sistema imperniato sul potere delle Regioni non funziona. Eravamo partiti con l’idea che il sistema delle autonomie regionali avrebbe garantito maggiore efficienza. Il risultato è stato, più o meno, l’opposto. E poi non va trascurato un dato storico: nella tradizione italiana non è radicata l’istituzione regionale, ma l’istituzione comunale. Se proprio bisogna rafforzare le autonomie locali, bisogna agire in direzione dei Comuni, non delle Regioni”.
La richiesta dell’autonomia differenziata è figlia dell’errore del governo Amato che, nel 2001, condusse in porto, col solo voto della maggioranza di centrosinistra, la riforma del Titolo Quinto della Costituzione. Fu una scelta sbagliata, no?
“Quello che fu sbagliato, e lo dissi allora, fu aver stravolto l’impianto della commissione bilaterale per le riforme che prevedeva un forte sistema di autonomie locali, ma nello stesso tempo un più forte sistema centrale. Era assicurato un bilanciamento di poteri tra centro e periferia. Avere preso solo un pezzo di quel disegno, attraverso la riforma del Titolo Quinto, e avere lasciato inalterato tutto il resto, ha provocato un evidente squilibrio. La stessa elezione diretta dei presidenti delle Regioni ha rafforzato il ruolo e la visibilità delle Regioni nel rapporto con il governo centrale, che è rimasto debole. Se rafforzassimo ulteriormente il potere delle Regioni, che poi, parliamoci chiaro, sarebbe il potere delle Regioni del Nord, a scapito dello Stato centrale, aumenterebbero i rischi per la stabilità e la tenuta del Paese. Ripeto: non sono contrario al decentramento, ma va garantito un potere centrale di raccordo, così come va ridisegnata la rete di competenze nell’ambito delle autonomie locali”.
Favorevole o no al terzo mandato per i presidenti regionali? Se ne discute in Puglia e in Campania.
“Non voglio entrare nel merito delle propensioni personali. Nella mia vita politica ho sempre avuto il piacere di fare esperienze nuove, ho sempre cercato di evitare il rischio di fossilizzarmi. Il tetto dei due mandati venne stabilito in base ad elementi di ragionevolezza. Che permangono. E poi, è utile e giusto che le migliori energie territoriali abbiano l’opportunità di esprimere anche ad altri livelli il loro valore e le loro potenzialità”.
La guerra in Ucraina, la tensione su Taiwan. Si rischia la guerra totale?
“Sono stato a novembre in America Latina per una conferenza. Nessuno fra i partecipanti ha difeso Putin sulla guerra, tutti lo hanno condannato. Ma l’opinione generale era che l’Occidente fosse corresponsabile del conflitto e che non avesse titolo nel perorare la difesa di princìpi e valori alti, perché li ha violati tutti. Sostiene il cittadino medio dei Paesi arabi: giusto condannare e sanzionare l’annessione della Crimea da parte della Russia, ma nulla di simile è stato fatto dopo l’annessione di Gerusalemme da parte di Israele, che pure costituisce un’aperta violazione della Carta dell’Onu. Ecco perché l’Occidente ha perso credibilità”.