D’Alema: Berlusconi un combattente. Sui giudici ha avuto qualche ragione

Politica e Primo piano

Intervista a Il Corriere della Sera

di Tommaso Labate

Presidente D’Alema, che cosa ha provato quando ha saputo della morte di Berlusconi?

«Ho provato dispiacere. Berlusconi era un combattente. Un avversario, certo, ma un uomo capace anche di suscitare ammirazione e persino simpatia dal punto di vista umano».

È d’accordo con il lutto nazionale?

«È una decisione che corrisponde a un sentimento non di tutti, certo, ma di una parte importante degli italiani. Non credo che debba essere materia di polemiche».

La prima volta che ha incontrato Berlusconi?

«Era il 1992, ero capogruppo alla Camera del Pds e a Montecitorio si discuteva un provvedimento che gli stava molto a cuore. Gianni Letta mi disse che Berlusconi avrebbe voluto incontrarmi. Ci vediamo in un ufficio di Fininvest a Roma, c’era anche Confalonieri. E Berlusconi fu bravissimo: per tutta la durata dell’incontro non fece mai riferimento alla legge che gli interessava».

E di che cosa parlaste?

«Disse che era molto contento di conoscermi, che era colpito dalla “rara capacità” che avevo di spiegare la politica mentre i politici normalmente parlavano in modo “aggrovigliato”, che si vedeva che avevo fatto il giornalista. E poi mi chiese: “Perché lei non fa qualcosa con noi?”».

In televisione?

«Sì. Gli dissi che non era possibile, visto che ero deputato della Repubblica. Lui rispose che secondo lui non era un problema tanto più che già Giuliano Ferrara, all’epoca parlamentare europeo del Psi, conduceva Radio Londra su Italia 1. Fu molto carino e mi regalò anche un libro: Il principe di Machiavelli, edito da lui e con una sua prefazione. Ci salutammo con cortesia. Quanto a quel provvedimento, noi continuammo a opporci e alla fine non passò».

Quando capì che Berlusconi vi avrebbe sconfitti alle elezioni del ’94?

«Abbastanza presto. Anche perché vidi che buona parte dell’elettorato salentino del mio collegio di Gallipoli, tradizionalmente democristiano, stava slittando verso “il candidato di Berlusconi”, un esponente del Movimento sociale che in condizioni normali avrebbe preso il 5%. Mi resi conto che lui era riuscito a mobilitare il corpo profondo del moderatismo italiano contro “il pericolo comunista”».

Quale fu il segreto del successo di Berlusconi?

«Era riuscito a catalizzare il voto conservatore e a riempire il vuoto lasciato dalla caduta del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani, ndr). Nel nome dell’anticomunismo ma anche presentandosi come “il nuovo” contro la vecchia politica dei partiti. Una miscela geniale di tradizione e innovazione».

D’Alema, per il popolo berlusconiano lei era il nemico numero uno, per un pezzo dell’intellighenzia progressista l’uomo dell’inciucio con Berlusconi. Come lo spiega?

«I primi avevano sostanzialmente ragione. I secondi mancavano di qualche lettura di Gramsci sull’importanza del compromesso in politica».

Pensa alla Bicamerale?

«La Bicamerale era nelle tesi dell’Ulivo, non nelle volontà di D’Alema. La commissione si concluse con un larghissimo voto favorevole e l’approvazione di una riforma costituzionale di quella ampiezza avrebbe evitato la demonizzazione reciproca di cui ha sofferto la nostra democrazia. Di questo si sono occupati in pochi; gli altri erano concentrati sulle dietrologie, sulle crostate e sugli inciuci. Io credo che la decisione di Berlusconi di rinnegare il voto favorevole e di schierarsi contro in Aula fu un grandissimo errore».

Pentito di essere andato in visita a Mediaset e averla definita «patrimonio del Paese»?

«Tutt’altro. Era un segnale agli imprenditori, non solo a Mediaset, mentre Berlusconi ci dipingeva come comunisti nemici della libera impresa».

Nel 2006 Berlusconi le avrebbe sbarrato la strada per il Quirinale. Ancora arrabbiato?

«Dopo la vittoria elettorale del 2006 il mio nome circolò come possibile candidato del centrosinistra e sembrava che Berlusconi non fosse contrario. Poi, forse dopo aver sentito i suoi, mi telefonò con grande cortesia per dirmi che rappresentavo troppo “una parte”. Sa che cosa gli risposi? Che aveva ragione. Mi consultai con Fassino e chiamammo Napolitano. Che poi, ovviamente, Berlusconi non votò».

L’ultima volta che lo ha visto dal vivo?

«Nel 2015, mi dicono che sta a casa di amici comuni e passo. C’erano le elezioni del presidente della Repubblica. Gli dissi che per noi della minoranza del Pd andavano bene Mattarella e Amato. “Massimo, guardi, io preferisco Amato”, mi rispose. Poi andò da Renzi a dire che Amato andava bene anche a me e fu la fine di quella candidatura».

Secondo lei, Berlusconi ha avuto qualche ragione nel ritenersi perseguitato da alcuni giudici?

«Probabilmente sì. Ma credo che Berlusconi abbia sollevato un problema reale declinandolo nel modo sbagliato. E cioè interpretandolo come se ci fosse il complotto dei magistrati di sinistra contro di lui. In realtà quello che si era determinato nel nostro Paese era stato uno squilibrio nei rapporti tra poteri dello Stato, questa è la verità. L’indebolimento del sistema dei partiti ha lasciato campo a una crescita del potere “politico” della magistratura, che si è arrogata il compito di fare qualcosa di più che perseguire i reati, come per esempio vigilare sull’etica pubblica e promuovere il ricambio della classe dirigente. Il tema era il riequilibrio, non il complotto contro Berlusconi. E alla fine quel suo scontro con i giudici ha creato un clima nel quale non è stato possibile fare nessuna riforma».