di Francesco Cancellato
“Quando leggi i passaggi del libro di Vannacci pensi: sciogliamo l’esercito, sciogliamo le Istituzioni e facciamo un grandissimo bar, il bar Italia. Però mi resta una domanda: se in questo bar è possibile dare dell’anormale a un omosessuale, è possibile dare del coglione a un generale?”. Parole e musica di Pierluigi Bersani, già presidente di regione, già più volte ministro, già segretario del Pd, già scissionista e poi rientrato alla base. Sorride, Bersani, mentre iniziamo l’intervista leggendogli quelle parole. E si accende il sigaro, quando gli chiediamo se per caso siano arrivate querele dal generale Vannacci: “Magari fossero arrivate – esordisce -. Sarebbe stato bello che in un’aula di tribunale si discutesse del fatto se è più grave dare dell’anormale a un omosessuale o del coglione a un generale. Sarebbe stata una discussione interessante per il Paese. Al di là di questo, il successo di Vannacci è molto istruttivo, soprattutto per noi: perché le tematiche che solleva Vannacci noi pensavamo fossero cose acquisite, al più un tema di buona educazione come non mettersi le dita nel naso. Un tema da politicamente corretto, che giustamente la gente non sopporta, più che di diritti civili.
E invece?
E invece questo è ancora un tema da combattimento. Questo generale ha tirato su della roba che c’è, nel Paese. E noi dobbiamo partire prima di tutto, da questo. Guardiamo il problema in faccia. Anche, quando serve, con linguaggio da bar. Perché non sono tutti professori. Spiegare a un italiano del nord che non è giusto dire “n****o”, quando è un termine che c’è in tutti i dialetti, non funziona. Non devi puntare il dito su chi usa, per ignoranza, quei termini. Devi spiegare che quello era il modo con cui venivano chiamati gli schiavi, che dietro quella parola c’è stato del sangue, della lotta, delle sofferenze. Chi le sa, queste cose? Le sanno i dotti. Per la gente comune è solo una forzatura. È un problema, questo. Perché la sinistra non può avere un linguaggio a uso e consumo esclusivo dei dotti.
Al netto delle battute, che sensazione le dà vedere che quel libro è primo in classifica?
L’Italia ha una particolarità di uno stato costruito tardi, di un sistema individualista che difficilmente affronta i temi attraverso esercizi collettivi. Questi sono bravi a smontare dei temi collettivi senza vedere una reazione. Hanno attaccato i diritti civili e sembra sia solo un tema di politicamente corretto. Hanno smontato la sanità e non hanno reazioni. Fanno una proposta di fisco corporativo e nessuno nemmeno lo vede. I rigurgiti neo-fascisti sono un di cui, di tutto questo. Per reagire a questo, serve una politica che richiami al civismo. Noi senza questo, senza un’azione collettiva, non siamo in grado di affrontare questa marea. Un civismo che si aggrappi ai fondamentali: al rispetto del prossimo, alla tutela delle minoranze, al non fare propaganda securitaria di fronte a problemi sociali importanti. Sono temi che credevamo acquisiti, ma che evidentemente non lo sono.
Secondo lei l’opposizione sta facendo bene il suo mestiere? O con un governo di destra come questo forse il livello dello scontro dovrebbe essere ancora più alto?
Diciamo che l’opposizione, a partire dalla sinistra, mi pare cominci a comprendere le cose fondamentali.
La prima?
Riconnettersi alle questioni sociali, a cominciare dal lavoro.
La seconda?
Costruire un campo, un’alternativa. Perché tu puoi dire qualsiasi cosa, ma se non la carichi su un carro che abbia la possibilità di marciare, prevale l’affidarsi a quel che c’è, prevale la sfiducia, prevale la sensazione di un voto di scarsa utilità.
Lei crede davvero che stia avvenendo, tutto questo?
Secondo me sì, ma troppo lentamente. Bisogna darsi una mossa. Affidarsi troppo al fatto che questi dovranno registrare i propri fallimenti è velleitario. Che sull’immigrazione non stanno combinando un tubo lo vede anche un bambino. Ma magari uno pensa che sì, ok, non stanno combinando un tubo, ma almeno la pensano come me. Anche sull’immigrazione dobbiamo combattere: e questa battaglia la vinci solo se convinci gli italiani che noi abbiamo un bisogno estremo di un’immigrazione regolare. Non ci sono scorciatoie.
Se dovesse dare un consiglio, da ex segretario a segretaria, a Elly Schlein, quale le darebbe?
Lei secondo me ha compreso questi due temi: riconnettersi dopo rotture profonde e organizzare il campo delle alleanze. Anzi, secondo me ha vinto proprio per quello. Certo, c’è un sacco di gente che ancora non ce la fa: è andata a salutare Conte a una manifestazione e l’hanno contestata. Ci abbiamo fatto un governo, con Conte, e lei non può andare a salutarlo? Ma stiamo scherzando?
Arriviamo ai consigli…
Il primo: aumenta il livello della discussione politica. Riunisci la direzione, anche tutte le settimane. E metti lì i temi: c’è qualcuno a cui va bene che ci sia gente che guadagna tre euro all’ora? C’è qualcuno che non vuole parlare di cessate il fuoco o problemi ambientali? Riuniscili. E poi se c’è un problema divisivo, non spaventarti. Se non hai una linea di partito sulla maternità surrogata, fai partire una discussione. Anche nella testa della gente non c’è chiarezza. Puoi essere espansiva anche quando non hai una risposta chiara, se discuti.
Ne ha anche un secondo?
Sì. Continua la fase di apertura. C’è un sacco di gente che vorrebbe sentirsi dire, come disse Berlinguer quando entrai io, “entrate e cambiateci”. Tutto questo si riassume in: hai fatto 30? Fai 31. Non limitarti a fare 29.
Il centrosinistra può provare a vincere solamente con una grande alleanza che va da Azione ai Cinque Stelle, passando per il Pd? È una fatica di Sisifo, secondo lei, o vale la pena di provarci, come fece Bersani nel famoso streaming con Beppe Grillo?
Anche un bambino vede che o si va con quell’alleanza, o ci teniamo la Meloni, e ciao.
Cos’è che manca?
Manca la generosità. Manca l’idea che man mano che si disvela cos’è questa destra, sarà più apprezzato chi è più generoso nel combatterla. Questo ancora non appare. Dice: ci sono le europee, si va col proporzionale, e quindi niente alleanze. No, no, no. Anche per la destra alle europee c’è il proporzionale, ma la gente sa che sono una coalizione. Fatti vedere, vai su un palco assieme, non per cercare i voti, ma per parlare di sanità e salario minimo.
Missione impossibile?
Ma no, alla fine si andrà di lì. Il problema è con quale rapidità e con quanta convinzione. Per me il problema più serio, anche se può apparire marginale, è che la sinistra quando ha vinto ha sempre avuto al suo interno una cultura liberal-democratica.
Messaggio in codice a Calenda?
Nemmeno troppo in codice, io glielo dico sempre. Tu che ti definisci azionista e hai la foto di Rosselli nel tuo studio. Tu lo sai che i fratelli Rosselli combattevano con gli anarchici, durante la Resistenza? La cultura azionista è stato sempre un preziosissimo interlocutore di un campo di sinistra. Purtroppo c’è quest’attrazione fatale verso un centro in cerca di autore. Anche se ormai non esiste da nessuna parte in Europa un centro che diriga il traffico. Ormai si organizzano tutti in campi alternativi plurali al loro interno. E invece noi siamo qui a menarla ancora col centro. Anche, mi pare, per eccesso di narcisismo.
Torniamo là, alla stagione 2011 e 2013, perché a mio avviso ci sono tre passaggi che meritano una riflessione a mente fredda. Non parlo delle streaming con Grillo, ma dei centuno che affossarono Prodi al Quirinale, della decisione di concedere che Renzi partecipasse alle primarie di coalizione e della scelta di fare maggioranza con Berlusconi nel governo Monti. Dovesse tornare indietro cosa non rifarebbe? Non si dimetterebbe da segretario dopo che affossarono Prodi? Non farebbe fare le primarie a Renzi? O non accoglierebbe l’invito di Napolitano a fare maggioranza con Berlusconi?
Posso partire da Renzi?
Prego.
A distanza di dieci anni, posso dire quel che non dissi nemmeno ai miei più fidati collaboratori allora. Io avevo elementi indiscutibili, di cui poi successivamente ho avuto conferma, che se non avessi fatto partecipare Renzi alle primarie di coalizione, lui avrebbe strappato la tessera, raccolto le firme, e partecipato lo stesso. Aveva fatto il giro delle sette chiese da qualche personaggio chiave per capire se quella era la strada, e gli avevano detto sì. Io lo feci partecipare, convinto di batterlo sul campo.
Sulle dimissioni dopo i 101 che affossarono Prodi?
I miei amici, dopo i 101, mi chiesero di candidarmi al congresso dopo le dimissioni, per andare alla conta. Ma i 101 erano tanti. Avrei vinto, ma sarebbe stato un frontale distruttivo dentro il partito, un patatrac di proporzioni storiche. Non potevo non prenderne atto.
Ha capito chi fossero, a dieci anni di distanza?
Non tutti e 101, ma molti sì.
C’è anche qualcuno che abbiamo nominato un paio di domande fa?
Mah, basta fare il conto di quelli volevano far fuori me. E sommare quelli che volevano far fuori Prodi. Sono i soliti misteri italici.
Altra curiosità relativa a quel passaggio: perché Napolitano non le diede l’incarico per un governo Bersani?
Anche lì, va chiarito il punto. Io avrei potuto fare un governo, allora. Berlusconi ci sarebbe stato. Ero io che non ci stavo. Io ci stavo solo per un governo del cambiamento. Quando lo dissi, anche nel Pd, mi guardavano con compatimento. Ecco: in quel compatimento c’è l’errore storico del Pd.
E qual è questo errore?
Ritenersi il punto di equilibrio del sistema. Io capisco da dove deriva tutto questo. Dai padri e dai nonni. La Dc era il punto d’equilibrio del sistema, per definizione. Allo stesso modo, il Pci doveva mostrarsi responsabile, una volta sul terrorismo, un’altra sull’inflazione. Queste due forze originarie erano legate culturalmente e politicamente al fatto di governare per tenere assieme il sistema. E nessuno ha capito che il punto di equilibrio del sistema è l’alternativa.
In che senso?
Nel senso che il compito storico del Pd non è tenere in piedi il sistema, ma organizzare il campo dell’alternativa. Se ti arriva una roba come il Movimento Cinque Stelle che prende il 25% dalla sera alla mattina, tu non puoi chiuderti nella torre. Perché poi per forza ti confondono con l’establishment. Questo governismo a tutti i costi, questa idea che tu sei il più bravo di tutti gli altri non ci ha mai portato, né mai ci porterà da nessuna parte.
E invece, sul governo Monti? Non lo fece lei l’errore di pensare a tenere in piedi il sistema, anziché forzare la mano per andare al voto?
Qui bisogna ristabilire la verità storica. Berlusconi se ne andò perché mancarono 18 voti alla sua legge di bilancio, e fu chiamato al Quirinale. Il punto è che quei 18 voti in meno non ci sarebbero mai stati per far andare alle urne il Paese il giorno dopo. Se io avessi deciso di portare il Pd sulla strada del voto, ci saremmo tenuti Berlusconi, con lo spread a 560. Non sono io che ho scelto di non andare a votare. Le condizioni per mandare a casa Berlusconi erano solo quelle: un nuovo governo tecnico. Quante volte ne ho parlato con Fini, Casini, con ambienti economici terrorizzati. Noi non abbiamo scelto tra Monti e le urne. Noi abbiamo scelto tra mandare a casa Berlusconi e tenerci Berlusconi.
A posteriori, non è che il grande errore sia stata la nascita del Pd? Da quando è nato, nel 2007, ha solamente “più che pareggiato” una volta, con lei nel 2013. Ha sempre fatto fatica ad allearsi. E soprattutto, non ha drenato l’emorragia di voti in uscita dalla sinistra. Anzi, forse l’ha aggravata. Per citare lo slogan del 2009 con cui si candidò a segretario: ha ancora senso questa storia?
Partiamo da un punto: la strada della sinistra in Italia è in salita per definizione, e deve sempre inventarsi qualcosa. Io credo che il Pd fosse qualcosa di inevitabile. Nel 1996, con la prima esperienza del governo Prodi, succede una cosa: che una cultura liberal democratica cattolica e una cultura di sinistra di governo si trovavano senza nessun problema. L’idea di dare sbocco politico a quella cosa lì era un atto dovuto. Mi lasci dire una cosa: magari avessimo dato continuità politica all’alleanza dopo il governo Conte 2, in cui Pd e Cinque Stelle hanno lavorato bene in un governo apprezzato dalla maggioranza degli italiani. E invece il giorno dopo è cominciata la damnatio memoriae di quell’esperienza, anche in casa Pd e Cinque Stelle.
E allora come mai il Pd non funziona?
Perché è l’organizzazione che ha mostrato la corda. Tu non puoi eleggere con le primarie i dirigenti di un partito. Puoi eleggere un candidato sindaco, un presidente di regione, ma un partito è un partito. La Schlein vince ribaltando il voto degli iscritti, che è una cosa che non è mai successa in nessun partito del mondo. Poniamoci il problema di come aprire il partito, perché per quanto tu sia grande c’è sempre qualcosa di buono fuori di te. Vogliamo aprirci senza aspettare le primarie? Vogliamo fare una conferenza organizzativa con tutte le forze sociali che si sono auto organizzate in questi anni, per discutere di politica con loro?
Lei nel 2003 al Meeting di Rimini disse una frase che fece molto discutere: “Se vuole rifondarsi, la sinistra deve partire dal retroterra di Cl. Solo l’ideale lanciato da Cl negli anni Settanta è rimasto vivo, perché è quello più vicino alla base popolare”. A distanza di vent’anni da allora, la direbbe tale e quale? Oppure facciamo così, io la inizio, lei la finisce: “Se vuole rifondersi, la sinistra deve…”
Partiamo da Cl. A me ha sempre colpito che non abbia mai cambiato nome dagli anni ’60. Questo mi ha fatto riflettere. Perché dentro c’è un’idea di identità ben precisa, che non hai bisogno di adattare e di nascondere. La gente chiede coerenza. Io credo di poter girar per strada dopo cinquant’anni di politica, perché la gente mi riconosce un minimo di coerenza. Se non hai coerenza, se non hai principi, se non hai niente da dire, nessuno ti obbliga a fare politica. Devi avere dei criteri distintivi.