Bersani: liberalizzazioni con regole chiare, così si difendono i consumatori

Politica e Primo piano

Intervista a la Repubblica – Affari&Finanza

di Marco Patucchi

«Vuol sapere qual è il vero problema di questo benedetto Paese? E’ che in Italia per ragioni storiche non esistono i liberali, per cui si continua a confondere le liberalizzazioni con le deregolamentazioni». Pierluigi Bersani quando inizia a parlare di liberalizzazioni potrebbe non fermarsi mai. Vent’anni fa, nell’arco di una manciata di stagioni come ministro dei vari governi Prodi, provò a scuotere la debole cultura della concorrenza del nostro Paese. Energia, telecomunicazioni, trasporto ferroviario, commercio e poi, con la ormai proverbiale “lenzuolata di Bersani”, l’introduzione di tante norme a tutela dei consumatori. Un’azione di contropiede sorprendente, proprio perché manovrata da un politico di sinistra. L’applicazione fattuale di un concetto, il riformismo, che prima di allora non si era mai spinto più in là degli slogan buoni per ogni tornata elettorale. E per ogni schieramento politico. «Ecco cosa intendo quando dico che le liberalizzazioni sono di sinistra. Significa organizzare un mercato che, nel nostro Paese, fin dal Medioevo, era il luogo delle regole. Invece si è pensato che volesse dire  “fate come vi pare”. Purtroppo in Italia quando esci dalla sinistra trovi solo la destra. Lì in mezzo non ci sono i liberali».

In effetti il percorso delle liberalizzazioni somiglia al gioco dell’oca: passano gli anni e  si torna alla casella di partenza…

«Le spiego come ci muovemmo noi nell’energia e com’è andata, invece, in altri settori. È la rappresentazione plastica del discorso che facevo su liberalizzazioni e deregolamentazioni. Prima di privatizzare Eni e Enel, disegnammo un quadro chiaro di regole sulla concorrenza, a cominciare dalla creazione delle Authority, e decidemmo che lo Stato non se ne sarebbe andato del tutto. Il risultato fu che Eni, Enel e nuovi entranti attivarono una massa micidiale di investimenti e ancora adesso gli ex monopolisti sono protagonisti nel mondo. Per infrastrutture di rete come telecomunicazioni e autostrade, invece, le privatizzazioni si fecero senza quadro regolamentare e così le aziende non sono andate troppo bene, si sono fermati gli investimenti e si sono create posizioni paramonopolistiche. E ora bisogna trovare soluzioni barocche per sciogliere i nodi, magari chiamando in soccorso i fondi stranieri. Come nel Cinquecento, quando la Francia era chiamata a risolvere le crisi tra gli Stati italiani».

Non crede che pesi anche il poco coraggio della classe imprenditoriale italiana? I gruppi privati hanno partecipato solo alle privatizzazioni degli ex monopoli, dove non serviva grande visione o inventiva per continuare a fare soldi….

«Infatti. Mi piacerebbe chiedere al presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che fine hanno fatto le grandi navi scuola centenarie dell’industria italiana. Pirelli, Edison, Fiat, Magneti Marelli… ce n’è ancora qualcuna che possiamo ritenere davvero italiana? È la storia del nostro capitalismo, altro che le polemiche sullo statalismo. Guardi com’è andata con le ferrovie: noi abbiamo aperto l’alta velocità alla concorrenza, primo Paese al mondo a farlo. Però Italo è finita ai fondi esteri…».

Sta auspicando  il ritorno dello Stato padrone? Da Autostrade a Ilva, ad Alitalia, e con la discesa in campo di Cdp e di Invitalia, sembra di essere ai tempi dell’Iri.

«La partnership Stato-privati è inevitabile e va strutturata. Ma non nella forma dell’Iri, piuttosto soprattutto, lo ripeto, in un contesto di vere liberalizzazioni. Torno a chiedere a Bonomi: pensa che Conte e Patuanelli abbiano tutta questa voglia di imbarcarsi nei problemi di gestione delle industrie? Se Bonomi ha un elenco di imprenditori interessati, bene, altrimenti deve pensarci lo Stato perché serve una politica industriale che si occupi dei settori strategici per il Paese».

D’accordo le aziende, ma le liberalizzazioni non dovrebbero puntare innanzitutto alla tutela degli interessi dei consumatori?

«Non lo dica a me… Con la famosa “lenzuolata” cercai di difendere i cittadini dalla prepotenza del mercato. Mi sarei aspettato in questi anni un impegno analogo anche del M5S. Per dire, noi introducemmo la portabilità del numero telefonico cellulare e dei mutui, mentre oggi siamo tornati a una situazione nella quale una compagnia ti fa lo sconto per il telefonino solo se ti leghi per tre anni al servizio. E poi ora ogni cosa è affiancata dalla finanza: non esiste più un concessionario che ti venda l’automobile senza attivare un finanziamento, perché alla fine c’è chi deve guadagnarci sia sull’auto che sulla finanza».

Non pensa che anche le liberalizzazioni abbiano determinato il conflitto d’interessi lavoratore-consumatore? Mi spiego meglio: quando come consumatori beneficiamo dell’abbattimento dei costi di certi prodotti e servizi dovuto alla Gig economy, in fondo ci stiamo rimettendo come lavoratori, perché quel risparmio è costato la scomparsa di molte figure professionali e il ridimensionamento di diritti e tutele…

«Sono d’accordo. Il diritto del consumatore deve finire dove inizia quello del lavoratore. Le dirò di più: dieci anni fa in Italia avevamo 420 contratti collettivi nazionali, oggi sono 980. Qualcuno la chiama liberalizzazione ma è solo dumping dei diritti. Bisogna combattere per la riforma dei contratti: serve una carta dei diritti di base, poi va tracciato il perimetro dei contratti e fatte norme sulla rappresentanza. Dopo questo, rimane ancora un grande margine per aiutare il lavoratore-consumatore. Mi ricordo quando le banche minacciavano migliaia di licenziamenti se veniva introdotta la portabilità dei mutui. Ma ovviamente non è andata così».