Bersani: io nel Pci con Baldo, tra la voglia di uguaglianza e gli errori

Politica e Primo piano

Intervista a Libertà

di Pietro Visconti

Nel Pci di cui si è compiuto il centenario (il 21 gennaio) è stato militante, consigliere comunale, funzionario di partito e assessore regionale. Pierluigi Bersani cammina da cinquant’anni nella sinistra italiana, con ruoli eminenti (più volte ministro, segretario del Pd, ora deputato di Liberi e Uguali). Piacenza è la sua base di partenza, mai lasciata né per Bologna né per Roma. Abbiamo ragionato con lui sul centenario 1921-2021, un anniversario che intreccia ideali e drammi, tenendo i piedi qui e cercando di guardare un po’ oltre.

Onorevole Bersani, nella vita di un ragazzo di Bettola, seconda metà anni ‘60, come arriva il comunismo? È l’idea in sé a far effetto o l’incontro con una persona che già ci credeva?

«Nei miei primordi, avviene questo: che quando da bambino si giocava al Far West, io stavo con gli indiani. Avvertivo un sentimento di uguaglianza, che chissà da dove arrivava. Il percorso è così: prima quel sentimento, poi genericamente la sinistra, poi le battaglie studentesche, poi un’esperienza extraparlamentare e quindi il Pci».

Perché il Pci?

«Più per un’esigenza morale che politica: sentivo di dover andare dove erano le persone che volevo rappresentare e difendere».

E le persone già comuniste prima di lei? Chi trovò sulla sua strada?

«Le persone di Bettola. Baldo Capra per primo. Partigiano, licenziato dall’Arsenale, bottegaio comunista intelligente e simpaticissimo».

Dentro “comunismo” qual era la parola-guida per lei? Giustizia? Rivoluzione? Cos’altro?

«Uguaglianza come uguale dignità. E non trovo di meglio per spiegarlo che uno scambio di battute, da chierichetto, con il mio parroco sant’uomo. “Ma davvero l’Agip – domando io – le chiedeva prima di assumerli se erano comunisti?”. E lui mi risponde, allargando le braccia: “Eh, benedetto figliolo…”. Credo che la scelta di campo avvenne lì. Non potevo tollerare che il lavoro fosse oggetto di discriminazione».

Lei prende la tessera nel ‘72. A chi guardava – militante o dirigente – in quella fase?

«L’onorevole Carlo Cerri e Felice Trabacchi venivano a Bettola da Baldo e io stavo con loro. Facevamo declamare da Cerri la sua poesia sull’eccidio di Rio Farnese. Non sarà un capolavoro ma mi commuove ancora adesso. È una poesia in dialetto, si intitola semplicemente Rio Farnese».

Quali erano i tratti distintivi del Pci di Piacenza? Soffrivate o no di essere l’eccezione biancorossa dell’Emilia tutta rossa?

«Certo, qui non ti sentivi sul sicuro come da altre parti dove il partito era più forte. Qui ti sentivi un po’ sulle sabbie mobili e questo ti esponeva a errori ma anche ad acuire sia l’ingegno sia l’impegno».

C’era davvero oppure è un’invenzione degli avversari un senso di superiorità rispetto al resto del sistema ritenuto attardato, regressivo? Insomma, voi comunisti di allora vi sentivate migliori in quel senso che poi portò Berlinguer a parlare di questione morale come se riguardasse esclusivamente gli altri?

«Quel sentimento di superiorità c’era, sì. Aveva radici lontane. I comunisti erano stati gli unici a operare in clandestinità contro il fascismo. Furono gran parte dei condannati a morte della Resistenza. E poi, venendo avanti negli anni, anche un po’ prosaicamente, possiamo dirlo? Dove si trovava altrove, fino a metà degli anni ‘80, un assessore regionale che guadagnasse come un metalmeccanico o un dirigente che montasse gli stand alle feste di partito?».

Cosa intende dire, onorevole Bersani?

«Cerco di spiegare, di spiegarmelo innanzitutto. Quell’autodisciplina portava a un sentimento di superiorità. E purtroppo ci fece commettere molti errori».

I 100 anni del Pci sono figurativi. Il Pci è finito quando di anni ne aveva 70, sotto il peso della catastrofe politica dei regimi sovietici. Perché durò così a lungo l’ambiguità tra pratica democratica nazionale e fedeltà internazionale al comunismo dispotico, responsabile anche di crimini?

«Perfino uno come me, trotzkista in origine come si diceva allora, e quindi mai simpatizzante dell’Urss, riconosceva gli spazi che il socialismo reale aveva aperto per le rivoluzioni anticoloniali, per le esperienze socialdemocratiche, per lo stesso Pci, in un mondo che aveva due padroni e non uno solo. E comunque non posso dimenticare la figura minuta di Berlinguer che in un’enorme e gelida sala sovietica afferma il valore universale della democrazia».

Quando pensa a com’è finita, al 12 novembre dell’89 quando all’indomani della caduta del Muro Occhetto dice che si cambia nome, cosa prova?

«Lo strappo di Occhetto era necessario e consegnò il Pci al giudizio della storia senza trascinarlo nelle cronache della fine della Prima Repubblica. No, nessuna nostalgia, guardo avanti. Ci manca soprattutto l’enorme funzione pedagogica di quel partito che dava parole a chi non ne aveva e cancellava il narcisismo di chi ne aveva troppe».

Ci sarà pur stato in sezione o in federazione qualcuno che disse per tempo, prima dell’89, tagliamo il cordone con l’Urss… Le viene in mente qualche compagno inascoltato?

«Non voglio tornare lì. Su questo aveva ragione Berlinguer: per come eravamo fatti, ci voleva un percorso, non un gesto. Ma poi uccisero Moro e lì cambiò tutto, per noi e per l’Italia».

Ma cosa resta in definitiva del Pci nella storia d’Italia? Qual è il patrimonio indistruttibile al di là delle contraddizioni drammatiche che hanno segnato settant’anni di azione politica?

«Il patrimonio permanente è aver imparentato la democrazia con le masse popolari, aver promosso un’operazione enorme di emancipazione e l’idea che qualsiasi tipo di sinistra non può immaginare le proprie fortune fuori da quelle del Paese».

Lei prima ha citato il sant’uomo del suo parroco. Un altro sant’uomo prete, don Ersilio Tonini, all’epoca direttore del “Nuovo Giornale”, nel dopoguerra fu un vero crociato anticomunista. Parlava e scriveva di “eresia comunista”. Senta cosa scrive nel ‘47: “Inutile controbattere con il Comunismo se non si tolgono le ingiustizie private e sociali. Lottare sul terreno delle idee mostrando che Marx è contro Cristo è cosa giusta ma vana. Finché un uomo vede intristire le sue creature che hanno fame e il pane è scarso (…) difficilmente può sentire discutere di materialismo storico-dialettico”. Cosa le dice questa durissima ostilità dottrinaria di una figura eminente della Chiesa conciliare e la consonanza tra avversari di allora sul “pane scarso”?

«Accidenti che parole, che forza… È il grande tema sociale. La politica che abbia un minimo di sentimento sulla comune dignità delle persone, non può non partire dal tema sociale. Ha ragione Tonini. C’è una condizione materiale e umana che devi incrociare, nelle cose essenziali. Senza questo, resta l’ideologia astratta che poi nella gente diventa rifiuto della politica. La questione sociale resta centrale sempre, oggi la pandemia ce ne consegna una versione nuova e drammatica»

Nell’esperienza in Regione e poi al governo da ministro, oltre che da dirigente di partito, quanto le è servito il rodaggio piacentino tra i sindaci della montagna e nel gruppo dirigente della federazione di via Chiapponi?

«Allora… Io ero vicepresidente di minoranza nella prima Comunità Montana, quella di Andrea Losi e Giovanni Bergonzi. Mi ci aveva messo il Pci, essendo io consigliere comunale, anche lì di minoranza, a Bettola. Per me a 24 anni fu una scuola vera, nel confronto con sindaci straordinari. Non posso dimenticare la saggezza di Franzini di Travo, la forza di Maggi di Bobbio, l’umanità di Elefanti di Piozzano, l’intelligenza furba di Caldini di Ferriere e poi ce ne sarebbero altri ancora. In montagna si impara la concretezza che cancella le faziosità. Se fai un acquedotto sai che ci berranno comunisti e democristiani. Lì mi sono davvero molto formato».

In parallelo c’era anche l’attività di dirigente di partito in federazione. Che cos’era quella squadra politica di via Chiapponi, numerosissima se comparata ai tempi odierni?

«Era effettivamente una fabbrica politica. Ho fatto cinque anni, con competenze su montagna, agricoltura, cultura. Poi è venuta la Regione. Il clima in federazione? Intanto, non si pensi mai che non ci fossero discussioni anche fortissime, e differenze di opinione, pure rivalità. Ma questo la dice lunga su quale fosse il livello di battaglia comune. La coesione nella finalità ci consentiva margini enormi nel confronto tra di noi, anche ai limiti dell’animosità. Era un posto dove non sapevi se la tua posizione il mattino dopo sarebbe stata la stessa. E tutto serve… Io penso per esempio che quando sono andato in Regione, da questa gavetta ho avuto un punto di vantaggio».

Il piacentino “in vantaggio” nella Bologna capitale allora del mondo rosso? Sembra un po’ sorprendente.

«Mi spiego. Mi sono portato dietro da qui, nella mia carriera politica, la consapevolezza di fondo che ci sono anche gli altri, che non si può dormire sugli allori e che non puoi inchiodarti a un’idea di modello, come invece andava per la maggiore sventolare. Sull’archetipo del modello io mi sono messo in polemica perché la trovavo un’idea conservativa, statica. Sì, c’è Bologna, Modena, Reggio, evviva. Ma perbacco, c’è anche Milano…».

Bersani, quando c’era il Pci c’erano le masse, non solo vostre, c’erano identità chiare, rivalità aspre, capacità di stringersi tra diversi nelle fasi di pericolo generale. Da una ventina d’anni la fase è “dispersiva” e il quadro è sempre più caotico. Non c’è proprio rimedio?

«Questa è la parabola dell’esaurimento dei partiti. Il rimedio non può essere uno sguardo all’indietro, perché l’idea di un partito presente ovunque e che indirizza la società è un anacronismo assoluto. Il filo da riprendere è quello di un partito che riesce ad avere antenne e rapporti con nuove forme di autorganizzazione sociale. Ci sono mille modi in cui la gente si ritrova. In molti di questi modi c’è un desiderio di vedersi dentro un progetto ideale. Un partito li dovrebbe collegare, né pesante né leggero, forte il giusto. Bisogna inventarsi un partito nuovo, questa è la sfida di oggi».

Tanti elettori del Pci sono diventati tutt’altro: perfino leghisti e grillini. Cosa direbbe loro?

«È cambiato tutto in 10-15 anni. Salto tecnologico, globalizzazione, protezionismi, nazionalismi, una sinistra attardata su parole d’ordine dei primi anni ‘90 e cioè uguaglianza d’opportunità e merito, mentre veniva fuori un bisogno di protezione che la destra ha interpretato a suo modo. A noi sono rimaste parole d’ordine che non rispondevano alle esigenze della gente. Cosa dire ora a chi si è allontanato da noi? Per arrivarci bisogna aprire un cantiere nuovo, fare una chiamata larga. Abbiamo capito perché sono andati via. Bisogna avere un progetto per farli tornare e qui c’è una responsabilità politica da esercitare. Ma ancora non si vede quel che serve».

Un’ultima carambola nel passato, onorevole. Il Pci era sinonimo anche di Festa dell’Unità. Venivano tutti o quasi. Qual è l’immagine più cara che le resta di quelle serate tra politica e divertimento?

«Ne avrei tante ma tante. Scelgo questa. Siamo alla Festa di Bettola, primi anni ‘70. A un’ora dall’apertura non è pronta l’entrata, qualcosa che faccia capire a chi arriva dove comincia l’area della Festa. E scatta il panico. Bisogna far bella figura nel paese di democristiani e ci manca perfino la porta… Io sto montando il piccolo stand dei libri. Il compagno muratore mi aggredisce citando, secondo lui, nientemeno che Togliatti. “Meno libri e più litri!” mi urla. Io rispondo, falso serafico: “Non mi risulta che sia di Togliatti ma vengo subito a preparare l’ingresso”. Cose meravigliose, come si fa a dimenticarsele?».

 

Nella sede di via Chiapponi a Piacenza in attesa dei risultati delle Regionali del 12 maggio 1985, la rielezione di Bersani al Consiglio regionale dopo la prima elezione nel 1980. Foto di Prospero Cravedi.