Noi, il governo, la sinistra da ricostruire. Un’agenda politica per l’autunno

| politica

Relazione alla riunione dei segretari regionali e di area metropolitana e dei responsabili dei dipartimenti tematici di Articolo Uno svoltasi oggi via web. 

 

Care compagne e compagni,

io penso che possiamo provare, a partire dalla riunione di oggi, a trarre un bilancio un po’ più attento e approfondito sugli effetti della lunga pandemia che ha attraversato le nostre vite e le ha sconvolte. Il virus ha tranciato di netto alcune certezze granitiche, ha rimesso prepotentemente al centro quelle politiche pubbliche che erano scomparse dall’agenda dell’occidente, ha tracciato un confine netto tra il mondo di ieri e il futuro della specie umana.

C’è dunque, come hanno scritto tutti, un prima e un dopo. Conosciamo il prima, fatichiamo tuttavia a intravedere il dopo. La crisi pandemica ha messo a nudo le colpe del neoliberismo, ha smascherato decenni di tagli e di sacrifici imposti da chi quei tagli e quei sacrifici non li ha mai fatti. Ha segnato una battuta d’arresto della destra della protezione che aveva annunciato l’apertura di un ciclo politico ed elettorale apparentemente inarrestabile e ha ridisegnato i confini della geopolitica mondiale.

Davanti abbiamo il travaglio sempre più evidente del grande vincitore della guerra fredda. L’America conserva naturalmente grandi riserve economiche, militari e naturali, ma è apparsa un nano politico in questo passaggio. Il trumpismo che sembrava destinato a rivincere in carrozza le elezioni del novembre 2020 segna il passo, diventa il moltiplicatore di conflitti vecchi e nuovi che fanno emergere fratture mai sopite e che hanno fatto precipitare nel caos interi strati del paese. L’uscita di scena del tycoon newyorkese non sarà indolore e pacifica perché avrà provveduto nel frattempo ad avvelenare tutti i pozzi. Il Black Live Matters – lungi da me pensare che questo movimento abbia necessariamente esclusive caratteristiche di progressività – ha riaperto ferite profonde nella società americana, ha descritto quanta strada ci sia ancora da fare in termini di uguaglianze e di diritti. Uno scrittore americano molto amato in Italia come Don Winslow ha parlato esplicitamente del secondo tempo della guerra di secessione. Lo notiamo dalla corsa ad armarsi fino ai denti, dalla tendenza a blindare e militarizzare quartieri, strade, periferie. Sembra prevalere lo scontro di razza su quello di classe per rispolverare categorie un po’ più antiche e questo non preannuncia granché di buono. Una protesta diffusa che delinea in ogni caso un malessere sociale che non è mai sceso nonostante i dati incoraggianti del Pil dell’occupazione Pre Covid e che rischia di trasferire una vera e propria guerra civile nelle urne. Non è un caso che Trump abbia provato a rompere il tabu della data del 4 novembre (inamovibile da due secoli), adombrando ipotesi di rinvio elettorale e gridando anticipatamente al rischio brogli. Una linea di condotta che ci racconta di quanto la tenuta della pace nel mondo sia profondamente a rischio, perché i nuovi rigurgiti di unilateralismo lo attraversano in maniera impetuosa.

Trump annuncia l’uscita da Oms, liquida la Nato come un ferrovecchio, snobba l’Onu, ingaggia uno scontro mortale con la Cina. Torna in maniera impetuosa l’esigenza di un Governo Mondiale, la suggestione dell’ultimo Berlinguer nella fase più acuta della corsa al riarmo. Avvenire – il quotidiano della Cei – titola non a caso in maniera eloquente, non più tardi di ieri, “disarmiamoci” chiedendo all’Italia di raccogliere l’appello di Pax Christi ad attivarsi perché ratifichi il trattato sul bando delle armi atomiche in occasione del settantacinquesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki. Io penso che dobbiamo fare nostra questa campagna. Togliere di mezzo le armi torna ad essere il presupposto fondamentale perché la transizione nel mondo post Covid non generi il secondo tempo di un incendio che può mandare a gambe all’aria stabilità e sicurezza, redistribuzione e crescita sostenibile.

La scelta di Israele di chiudere definitivamente la partita con i palestinesi è ancora lì, sospesa solo dal Covid. La precarietà del Maghreb, a partire dalla fragile democrazia tunisina – verso cui occorrerebbero parole di equilibrio e di sostegno e non minacce isteriche di tagli agli aiuti sviluppo -, ci consegna il tema di una politica verso la sponda sud del Mediterraneo e di un recovery fund che si allarghi anche a quell’area. La Libia si è trasformata nel terreno di conquista di una Turchia sempre più scivolata nel sultanato e di una Russia che si occupa del Medio Oriente come il giardino di casa, vista la defezione europea e statunitense. Il Libano può essere destabilizzato dall’incidente drammatico che ha sfregiato Beirut – dopo mesi di proteste sociali e di ripresa di conflitti settari – e non possiamo cavarcela solo con i tweet di solidarietà, peraltro come è noto talvolta anche sbagliati da parte di autorevoli esponenti della Farnesina. Ci vuole un nuovo investimento verso il multilateralismo: come scrive Massimo D’Alema nel libro recentemente uscito “grande è la confusione sotto il cielo”…

La destra ha scommesso sul protezionismo, contrasta politiche di sicurezza e di cooperazione perché sono un terreno scivoloso per la conservazione della sua egemonia. D’altra parte la destra mondiale in questo passaggio ha mostrato a tutti il suo vero volto. Si era presentata come una risposta comunitaria e protezionista alla crisi del neoliberismo. Non ha esitato – a partire da Trump – a inseguire invece i più rigidi stilemi dell’individualismo proprietario, ha assecondato teorie millenariste, ha incespicato nel negazionismo, è inciampata nella superstizione, ha avallato teorie antiscientifiche, ha persino abbaiato al complotto cinese. Una destra inadatta a governare un nuovo compromesso tra la sicurezza sanitaria e la tenuta delle istituzioni democratiche nella stagione dello stato di emergenza.

Anche le cancellerie europee hanno fatto fatica, l’Italia ha dovuto attraversare in solitudine il primo tratto della crescita del contagio, ma poi sono riuscite a emergere con un colpo di reni finale. La trattativa sul recovery fund – insieme agli strumenti messi in piedi dalla Bce e dall’eurogruppo – ha rivelato un inedito protagonismo dell’Italia ed anche un salto in avanti dell’Unione europea come strumento politico in grado di agire tempestivamente nelle crisi. Non dobbiamo ovviamente indugiare nella retorica, la strada è ancora lunga, ma una svolta sembra possibile. Anche nel rapporto tra l’Italia e l’Unione europea.

Siamo passati in poco più un decennio dall’essere il paese più europeista del continente a un’intolleranza diffusa soprattutto nei ceti popolari verso il cosiddetto vincolo esterno. Sono gli effetti della crisi del 2008 e delle politiche di austerità espansiva che hanno impoverito nettamente i salari e gli stipendi dei lavoratori e indebolito servizi pubblici fondamentali.

Abbiamo avuto un Servizio sanitario nazionale che ha reagito in maniera straordinaria in questi mesi, nonostante oltre dieci miliardi di tagli iniziati con i governi Berlusconi e continuati anche durante la stagione del centrosinistra renziano: non possiamo pensare che questo non abbia lasciato strascichi. In Europa si è intrapresa finalmente una sorta di terza via tra l’avanzare nefasto e inesorabile del sovranismo no euro e l’adesione acritica all’impianto rigidamente ideologico delle tecnostrutture europee. Un europeismo coraggioso, capace di trasformare la critica legittima alla catena di comando intergovernativa dell’eurozona in una politica di riforma dei meccanismi di governance fondati sui veti e sul patto di stabilità. Lo ha fatto con autorevolezza e determinazione il nostro governo ed è questo forse il frutto più maturo della difficile sintesi tra il centrosinistra e il Movimento Cinque Stelle.

La dico in termini molto netti: senza quella spinta che viene da un pezzo di società che ha scelto in maniera confusa e talvolta vendicativa il populismo grillino, non avremmo probabilmente portato avanti quella trattativa. La transizione dei Cinque stelle dalla retorica no euro a un’europeismo critico è stata la chiave forse più importante della svolta che si è prodotta. Ha contribuito anche a imporre alle forze classiche della sinistra italiana il dovere di un salto di qualità nel rapporto con l’Europa, facendole uscire dalla convegnistica soporifera quanto impotente di cui talvolta è stata protagonista.

Ora ci sono tante risorse da spendere. La partita si sposta in Italia e la lotta politica si concentrerà inevitabilmente su chi comanda la transizione. Non credo di dire un’eresia se segnalo che la lettura quotidiana dei giornali ci consegna l’allergia di una parte dell’establishment verso i “parvenu” che in questo momento abitano a Palazzo Chigi. C’è chi trova intollerabile che a dirigere l’Italia non ci sia “uno di loro” nel momento in cui arrivano fiumi di denaro. Sappiamo che il quadro politico resta fragile e il rischio di fallimento è alto: il livello di aspettative è molto diffuso e non è scontato che il Governo riesca nell’impresa di aprire la strada a una rinascita economica, civile e morale del paese.

Arrivano le risorse economiche ma abbiamo classi dirigenti sfinite e senza personalità, una burocrazia invecchiata, corpi intermedi indeboliti, un capitalismo che non ha saputo innovarsi. Una stagione di crescita sostenibile non si costruisce solo se sai spendere X invece di Y, non soltanto se sai mettere a posto le tabelle ministeriali, ma se sei in grado di chiamare un paese all’impegno, a far emergere le energie migliori, se mobiliti un popolo e una generazione nuova verso una missione. E’ stato così con la Tennesse Valley che inaugurò il New deal di Roosvelt, fu così nell’Europa disastrata dalla seconda guerra mondiale con l’avvio dei gloriosi trent’anni.

Non ce la fa l’Italia senza partiti capaci di comprendere la drammaticità del passaggio storico, in grado di programmare e dare senso alla Ricostruzione. Non è un appello nostalgico, ma le forze che oggi lavorano esplicitamente contro questo attuale equilibrio politico hanno il peso e il potere per spostare il quadro ancora una volta a destra. Il capitalismo italiano in questo momento non va oltre la richiesta di sgravi fiscali, abolizione dell’Irap generalizzata, bonus a pioggia ed eliminazione del blocco dei licenziamenti. Sullo sfondo c’è sempre l’oggetto inconfessabile del desiderio: abolire definitivamente il Contratto collettivo nazionale.

Con questi interessi in campo, torna il tema di una svolta politica nella sinistra e in tutto il campo democratico. Così come siamo non abbiamo il “fisico” per affrontare un autunno dove onda sanitaria e onda sociale possono incrociarsi e produrre un cortocircuito democratico. Le previsioni su occupazione e Pil sono note, la programmazione delle risorse europee ci dice che i tempi non sono brevissimi: non si governano conflitti sociali emergenti solo dal Governo. Lo abbiamo potuto constatare anche nella recente riunione che abbiamo avuto con Cecilia Guerra, Federico Fornaro, Piero Latino e i rappresentanti di Cgil Cisl e Uil sul dl Agosto.

Ho letto con grande attenzione e apprezzato il documento di Gianni Cuperlo e dei compagni della sinistra del Partito democratico: hanno ragione quando affermano che si esce da questa lunga transizione solo con un’iniezione di radicalità forte nella politica economica, ma anche nel coltivare l’etica dell’esempio di fronte all’irrompere di una nuova questione morale che talvolta trova riparo dietro un governismo statico e conservatore.

Siamo chiamati dunque a compiere tre svolte. La prima riguarda i rapporti di maggioranza. Non basta avere numeri parlamentari se non c’è una proiezione della coalizione che governa a Roma nell’intero paese. Ce lo raccontano le elezioni regionali, dove soltanto in Liguria si riesce faticosamente a chiudere un accordo con i Cinque Stelle, ma senza Italia Viva che va per conto suo. Elezioni regionali e amministrative dove saremo presenti con liste progressiste e democratiche ispirate da noi e dove puntiamo ad eleggere ovunque rappresentanti nelle assemblee elettive. Lo abbiamo scritto e detto a più riprese, a costo di apparire ripetitivi e un po’ tonti, bisogna passare dalla resistenza al progetto. Su troppi dossier si sta fermi e si balbetta. Dai decreti sicurezza che vanno superati alle vicende Benetton (dove nonostante la svolta del Cdm di tre settimane fa si fa fatica ad andare avanti) a nodi scoperti come l’Ilva. Fino allo scontro sul blocco dei licenziamenti, dove i sindacati annunciano lo sciopero generale.

Sulla questione degli equilibri costituzionali ci sono valori che non sono negoziabili. Fa parte dell’identità costitutiva di Articolo Uno. Ho difeso strenuamente la scelta dei nostri parlamentari di votare in quarta lettura il taglio dei parlamentari, dopo tre no nelle letture precedenti. Avevamo sottoscritto un accordo di maggioranza ed era nostro dovere rispettarlo, pena la mancata partenza dell’esecutivo Conte. Ma quell’accordo aveva un presupposto decisivo, il passaggio al sistema proporzionale e una legge elettorale preferibilmente approvata prima del referendum confermativo sul dl Brescia. Ad oggi la legge elettorale proporzionale sembra defunta, perché Italia Viva ha cambiato posizione e si è “riconvertita” al maggioritario. Non sappiamo se è una posizione tattica o strategica, se è una scelta per prendere tempo, ma si rischia di precipitare dopo il 20 settembre in una democrazia senza contrappesi e con una intera fascia di territori lasciati senza rappresentanza. Ci batteremo perché ci sia l’approvazione della legge elettorale proporzionale in almeno un ramo del parlamento prima del referendum, avviando anche un dialogo con l’opposizione – prassi che ritengo da sempre giusta perché le regole del gioco vanno scritte insieme – e chiamando tutte le forze della maggioranza alla responsabilità e al rigore della coerenza. Qualora questo non dovesse accadere sarebbero, in tutta coscienza, oggettivamente più solide le ragioni di chi vuole opporsi a un taglio indiscriminato che fa leva soltanto su presunti costi della democrazia, assecondando il più barbaro qualunquismo antiparlamentare che già tanti danni ha fatto alla storia del paese.

La seconda svolta riguarda la ridefinizione del campo della sinistra. Lo dico con franchezza: molte delle ragioni della frattura che si è consumata tra noi e il principale partito del centrosinistra sono entrate in crisi. La scelta del proporzionale supera l’impianto della vocazione maggioritaria su cui è nato il Pd. È un dato di fatto. Così come la politica delle alleanze che fino all’altro ieri era stata sostituita da una presunta autosufficienza, che ci ha portato in dono leggi poco aderenti alla realtà politica italiana come l’Italicum e il Rosatellum. Sul terreno delle politiche economiche emergono timidi segni di discontinuità sul piano del rapporto tra stato e mercato, una critica più estetica che ideologica al posizionamento centrista degli anni del renzismo trionfante, un rapporto più equilibrato con le ragioni del sindacato e del movimento dei lavoratori. Siamo fuori dal cosiddetto progressismo liberale? Onestamente non credo. Abbiamo avuto un colloquio con la leadership del Pd, che giudico positivo sul piano del clima politico, perché è emersa – pur nelle differenze – una sintonia su molti temi dell’agenda di governo, ma fatichiamo ancora a vedere una reale determinazione sull’apertura di un nuovo processo costituente, a cui aveva più volte alluso anche Zingaretti. Non ho mai creduto che una nuova forza politica si costruisca a tavolino né che si determini per concessione politica, ma sono convinto che sia giusto lavorare per quell’approdo. Dobbiamo continuare a porre la questione che l’attuale schieramento della sinistra non funziona, non è espansivo, fa fatica a riannodare i fili con la grande parte di un elettorato smarrito e deluso. Non si ricostruisce una connessione sentimentale con il paese legando i progetti politici alle leggi elettorali o, ancora peggio, ai comportamenti inerziali e abitudinari di un elettorato che invecchia sempre di più. I tesoretti elettorali non durano in eterno. Abbiamo secondo me il dovere di provarci e riprovarci, ma questo non significa stare fermi. Non significa rinunciare a coltivare rapporti, relazioni e reti con esperienze territoriali importanti come Coraggiosa in Emilia, con le personalità più avanzate dell’universo del Movimento cinque stelle, con personalità della sinistra e della società civile, con esperienze che nel mondo cattolico democratico che guardano a una rifondazione dei progressisti con un profilo autonomo e uno spirito unitario.

La terza svolta riguarda appunto noi. Penso di conoscere abbastanza bene Articolo Uno in tutte le sue pieghe, il suo territorio, i suoi gruppi dirigenti, il potenziale enorme di generosità, di gratuità, di passione di cui dispone. So anche che da tempo la domanda che ci attraversa è sempre la stessa: per quanto dobbiamo aspettare? Diciamocelo con franchezza, la difficile transizione della sinistra italiana verso qualcosa di nuovo indebolisce la nostra esperienza politica, la deperisce sul piano organizzativo, la sfiorisce sul piano della capacità attrattiva. Talvolta, ci raccontiamo come un ufficio delle occasioni perdute, una scialuppa passeggera. Sentirsi provvisori indubbiamente può diventare deprimente, considerarsi in trasformazione può risultare anche avvincente. Questo non significa che è giusto dire “tutto va bene madama la marchesa”. Abbiamo sulle nostre gracili spalle una responsabilità enorme, un ministro che fa onore all’Italia per il rigore e la capacità di governo. Tante volte mi sono domandato se un piccolo partito può “permettersi” un impegno così gravoso e fare fronte alla pressione gigantesca che oggi si scarica sulla sanità italiana e la sua centralità ritrovata. Io continuo a pensare di sì, ma dobbiamo cambiare rapidamente passo.

Noi non aspettiamo nessuno, ci battiamo perché le cose accadano, con l’iniziativa politica e lotta delle idee, in Parlamento e nel Paese. Abbiamo scoperto con il tempo che nessuno ci regala niente, se non andiamo a conquistarcelo. Lo dimostra – se volete – anche il recente episodio delle commissioni parlamentari, con la bocciatura di Grasso e la reazione a schiena dritta dei gruppi e del ministro Speranza. Questo significa impostare un’agenda politica per l’autunno, a partire dalla nostra idea di ricostruzione del paese (a inizio anno abbiamo avuto un ciclo di seminari promossi da Alfredo D’Attorre (qui e qui), c’è la piattaforma che abbiamo varato con il gruppo di lavoro sull’economia di Piero Latino, l’interlocuzione costante con la scuola e l’università del dipartimento di Miguel Gotor, il documento della sanità di Gianluca Busilacchi, la proposta avanzata dal coordinamento delle donne su recovery fund e lavoro di cura, le iniziative in preparazione sul segretariato sociale su cui lavora Luca Pizzuto, la due giorni di Digitalia promossa da David Tozzo e il gruppo Innovazione a inizio settembre). Abbiamo consolidato un patrimonio di saperi e competenze che deve diventare iniziativa politica e parlamentare, nel territorio e centralmente e devono essere ispirate al metodo del confronto continuo con le parti sociali e l’associazionismo. Le nostre campagne del due per mille e del tesseramento o sono legate a questa implementazione di iniziativa politica oppure restano caciocavalli appesi.

Chi vuole sostenere noi lo fa se abbiamo la capacità di convincerlo e di attivarlo attorno a progetti di militanza, perché da scambiare non abbiamo nulla. Il mio non è volontarismo, sono consapevole che anche noi siamo un pezzo della crisi della sinistra, non la risposta a questa crisi. Eppure io credo che una ripresa dell’iniziativa può spostare equilibri, smontare rendite di posizione, smuovere pigrizie e conformismi. Essa passa attraverso un confronto dialettico continuo: non dobbiamo avere paura di discutere perché i prossimi mesi saranno decisivi per la sinistra e per il paese. In autunno non dovremo scegliere cosa fare da grandi, ma come e con chi farlo ed affrontare questa sfida con entusiasmo, non come un ripiegamento. E lo dobbiamo fare avviando una discussione unitaria, città per città, senza lasciare nessuno indietro perché il patrimonio più grande che abbiamo resta la nostra comunità. Non ci mettiamo in panchina, abbiamo bisogno di stare in campo oggi più di prima.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.