Assalto alla città sulla collina. Esiste ancora la democrazia americana?

| Esteri

(Queste riflessioni sono nate da alcuni confronti, in particolare con Fabrizio Mandreoli)

Per studio, insegnamento e passione personale mi occupo da tempo di politica e democrazia. Rimango, quindi, impietrito, ma non del tutto sorpreso, dall’esito delle ultime elezioni negli Usa, culminate negli scontri del 6 Gennaio.

È bene ricordare dove tutto ha inizio: dal mito fondativo dell’impero a stelle e strisce. Non è, quindi, inutile, riandare al contributo che la religione ha dato alla sua nascita e al suo sviluppo: è sufficiente ricordare la scritta che compare sulle banconote, In God we trust; viene dichiarata la fede in Dio su uno dei simboli (o strumenti?) di potere di questa nazione. Uno dei testi decisivi per la nascita degli Stati Uniti d’America, A Model of Christian Charity (un sermone di John Winthrop che, secondo alcune ricostruzioni, venne pronunciato a bordo dell’Arbella durante il viaggio verso la Nuova Inghilterra, tra aprile e giugno del 1630), profetizza come tutta la vita di quella nazione sarà come la città sulla collina, di cui parla il Vangelo di Matteo nel discorso della montagna, a cui tutto il mondo guarderà.

Nasce qui l’eccezionalismo degli Usa, che sempre ritorna e serve per giustificare ogni violenza e anche ogni sopruso: “Persuasi d’essere i veri israeliti, gli americani trassero dall’impianto puritano la cosiddetta violenza redentrice. Ovvero, la convinzione di compiere la volontà di Dio obliterando dalla terra le popolazioni infedeli, impossibili da convertire in vita. Purificando il Nuovo Mondo dai suoi abitanti indigeni, conducendoli alla redenzione attraverso la morte. Svolta drammatica che avrebbe reso la violenza il principale strumento a disposizione della collettività. Presunzione crudele che avrebbe condotto alla conquista del Nordamerica” (D. Fabbri, La città sulla collina, imperituro mito d’America, Limes 2/2020, pag. 43-50, qui pag. 45).

Questa immagine degli Usa come città a cui tutto il mondo deve guardare ricorre tante volte nella politica statunitense, e in casi anche molto delicati. Ad esempio se ne serve Woodrow Wilson, anche per entrare nella Prima Guerra Mondiale; Franklin Roosevelt per trascinare nella Seconda; John Kennedy per indicare la necessità della guerra fredda; e così Ronald Reagan, Bill Clinton, George W. Bush ed anche, pur in contesti differenti e, pur con una certa propensione a pensare solo ai confini di casa, Barak Obama e Donald Trump (“Nell’era di Obama e Trump gli Stati Uniti hanno respinto utilitarismo, isolazionismo, economicismo per l’ancestrale volontà della popolazione di restare sulla vetta del mondo. L’eccezionalismo ha continuato ad animare la società d’Oltreoceano. La percezione d’essere città sulla collina s’è rivelata antidoto contro qualsiasi abbandono dell’arena geopolitica”, Fabbri, ibid. pag 49).

Ebbene, questa visione genera, oggi, conseguenze di rilievo: dato che gli Usa sono assolutamente spaccati in due parti, senza, in questo momento, nessuna possibilità di riconciliazione, qual è la vera America? È utile vedere le cartine che illustrano quali stati abbiano votato repubblicano e quali democratico: le coste sono tutte blu, il centro tutto rosso; ovviamente estremizzando la rappresentazione. Ed è così da molto tempo. Quale America è depositaria dell’investitura di Dio? Chi è il rappresentante dell’Onnipotente in terra? Biden o Trump? Non serve raccontare che molti elettori non spiegheranno così la questione; resta il fatto che la polarizzazione, non creata ma cavalcata da Trump, impone una scelta, affinché la vera America possa continuare il suo percorso. E chi pensa di incarnare il vero volto del Paese, cioè i bianchi elettori di Trump, tendenzialmente cristiani sovranisti, deve a tutti i costi governare.

L’altra grande conseguenza della genetica che è alla base degli Stati Uniti è che, data la benedizione divina sulla sua potenza, non importa quale sistema politico o elettorale si metta in campo: in ogni caso, l’America trionferà sul mondo intero, sempre. Collocate in questo contesto, hanno un suono del tutto particolare alcune parole di un acuto osservatore: “Creato difettoso eppure da decenni elevato a modello universale, in questi giorni il sistema elettorale americano manifesta platealmente la propria inconsistenza. Costruito per allontanare la popolazione dalla politica ma raccontato come massimo strumento di democrazia, mostra le sue spettacolari falle. Con gravi rischi per la propaganda della superpotenza, incredibilmente centrata sull’esibizionismo del proprio regime”. (D. Fabbri, E con Trump il rito delle presidenziali si svelò grottesco, Limes 11/2020, pag. 46-48, qui pag. 46).

Non importa chi possa venire eletto: è l’America ciò che conta, è il suo dominio incontrastato che è al centro di ogni cosa. Quindi, va bene votare poche ore in un giorno feriale, va bene rendere difficile l’iscrizione alle liste elettorali, va bene poter modificare i collegi. Va bene tutto. “I costituenti intendevano sminuire la politica, ritenuta perniciosa perché capace di scatenare passioni incontrollate, di distrarre la traiettoria della nazione. Nel concreto, intendevano permettere eventuali aggiustamenti del voto durante il periodo di interregno, scongiurare che l’alternarsi delle classi dirigenti provocasse violenze, impedire alla cittadinanza di percepirsi oltremodo legata al presidente. Estranei a meccanismi elettorali, gli americani dovevano dedicarsi all’accrescimento della potenza, alla costruzione dell’epopea nazionale. L’etichetta anglosassone, centrata sulla disciplina e decoro, avrebbe persuaso i candidati a tollerare elezioni scientificamente fallaci”. (D. Fabbri, ibid. pag. 47)

Con l’elezione di Trump si è rotto qualcosa. Il sistema poteva mantenersi in equilibrio perché nessuno aveva provato a piegare verso i propri interessi tutto il sistema. Nessun presidente aveva provato a occupare il potere per usufruirne. E tutto sommato, scegliere un candidato o il suo avversario non cambiava radicalmente la vita del cittadino americano. Ora la percezione è tutta diversa. L’atteggiamento di Trump, che ha rifiutato in ogni modo di accettare il risultato delle elezioni e solo molto tardi ha invitato i manifestanti ad andare a casa (ma ricordando che aveva subito brogli elettorali), cambia la valutazione sulla democrazia.

Non è un sistema che sappia autotutelarsi; è in qualche modo sempre occupabile dal più forte. E oggi il più forte è colui che sa gestire la comunicazione (su questo rinvio a Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, un libro capace di spiegare perché sono entrate in circolo le fake news e come la politica sappia servirsene), colui che ha più risorse finanziarie (cfr. Piketty, Capitale e ideologia), colui che sa fomentare e cavalcare le divisioni.

Sono tutti elementi che possiamo riscontrare nel cosiddetto populismo; ma negli Stati Uniti siamo molto vicini a una torsione dittatoriale. Qualcuno potrebbe dire che siamo vicini a una fascistizzazione della politica. Fermiamoci un attimo sulla parola populismo.

Tutti i mali delle nostre attuali democrazie sono a lui attribuibili? Un libro di Marco Revelli, Populismo 2.0, mostra che democrazia e populismo sono due parole imparentate, derivando da demos (greco) e populus (latino) che significano la stessa realtà. Populismo viene a indicare la malattia della democrazia rappresentativa quando qualcuno non viene o non si sente adeguatamente rappresentato, cioè si considera o viene effettivamente escluso dai benefici del processo democratico.

La crisi della democrazia è talmente grave che molti ormai parlano di post-democrazia, “alludendo a una sorta di carattere terminale della patologia in atto: alla sempre più marcata torsione oligarchica che la forma democratica va subendo, diventando sempre meno rappresentativa e sempre più ‘esecutoria’” (Revelli, op. cit. pag 6). A questa torsione si aggiunge, per amplificarne gli effetti, la crisi economica, del lavoro, del sociale e l’arricchimento dei soliti privilegiati, portando anche alla perdita di molte virtù civili, dall’accoglienza alla tolleranza, cosa che ha ulteriormente avvelenato il dibattito politico.

“Plebe, si sarebbe tentati di qualificare questo nuovo, spesso strato di polvere sociale che si deposita sul fondo della piramide come effetto dello sgretolamento dei vecchi ‘blocchi’ che avevano caratterizzato l’epopea industriale. E oclocrazia, ‘governo della plebe’, – come Polibio chiamò la degenerazione della democrazia quando, smarrito il valore dell’eguaglianza, il popolo ambisce la vendetta – quello anticipato in questa sorta di ‘disaggregato sociale’, portatore di tutta la carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano” (Revelli, op. cit. pag 8). Ma dov’era fino ad oggi questa plebe? Sicuramente ha contribuito alla stabilità e alla legittimità finora sperimentata. Qualcosa ha rotto gli equilibri; e non è un nuovo soggetto politico in senso proprio. “È una entità molto più impalpabile e meno identificabile entro specifici confini e involucri. È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione. Nel vuoto, cioè, prodotto dalla dissoluzione di quello che un tempo fu la ‘sinistra’ e la sua capacità di articolare la protesta in proposta di mutamento e di alternativa allo stato di cose presente” (Revelli, op. cit. pag 10).

In ogni caso, il disagio è immenso. La democrazia non riesce a mantenere le promesse che ha fatto o ha cercato di fare. Vorrei solo, rapidamente, pensare a tre referendum che si sono svolti vicino a noi: in Catalogna, in Grecia e in Turchia.

Si è chiesto più o meno legittimamente al popolo, al demos che dovrebbe contenere il potere, cioè il kratos, se voleva lacerare una Carta costituzionale (quella spagnola); se voleva rifiutare le direttive europee per salvaguardare la sovranità nazionale; se voleva dirigersi verso una dittatura mascherata da alcuni elementi democratici. Tre casi molto diversi; con esiti non comparabili tra loro. Casi, però, che dimostrano che non sempre è possibile definire democratico ogni modo in cui il popolo si esprime. Una conferma dalle primavere arabe: forse in Tunisia si è ottenuta una inaspettata Costituzione (nel 2015 il premio Nobel per la pace è stato conferito a quattro facilitatori del processo costituente), ma in Egitto e in Siria le cose sono andate molto diversamente. Ora, in quegli Stati, il popolo non sta sicuramente meglio di prima.

Occorre un nuovo paradigma di pensiero. Mi sembra che sia necessario riappropriarsi della bellezza della politica, come anche papa Francesco ha chiesto di fare nella Fratelli tutti: “per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso” (Fratelli tutti 154). Uno degli ostacoli alla buona politica è costituito dal non comprendere cosa sia effettivamente il popolo di cui ci si vuole occupare e di catturare l’attenzione degli elettori con un ostinato populismo. Sempre papa Francesco: «la pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale» (Fratelli tutti 157).

Mi sembra, anche che sia importante ritornare a imparare come servire la democrazia, signora di una bellezza tremenda, ma anche tremendamente fragile. Per essere realmente democratici occorre molto esercizio: ascolto, dialogo, visioni di lungo periodo, capacità di mediazione, rispetto delle minoranze, gratitudine per chi ha un pensiero diverso, criticamente fondato, capacità di dissenso, libertà piena, formazione estrema, scuola di eccellenza, università capaci di formare i leader che l’oggi attende. E inoltre saper sempre partire dal pilone più debole del ponte per ogni ragionamento di sostenibilità, sviluppo e progresso. E, infine, una ricerca non dogmatica della verità, ma un processo dialogico in cui tutti portano il loro contributo.

Per quanto riguarda il futuro degli Usa, non ho dubbi che sapranno superare in qualche modo questo ostacolo. Il prezzo che il mondo rischia di pagare è di arrivare a una piena disillusione sulle capacità della democrazia. E di arrivare a pensare che la violenza porta sempre qualche vantaggio. Gli Stati Uniti sono nati sopprimendo i nativi; mi auguro che non abbiano bisogno di altre guerre all’estero per sopravvivere in casa.

Matteo Prodi

Nato nel 1966, laureato in Economia e Commercio all’Università di Bologna nel 1990, è stato ordinato presbitero nel 1997. Dall’anno accademico 2008-09 è professore invitato alla FTER nell’ambito della morale sociale. Nel 2010 ha conseguito il Dottorato in teologia presso la FTER con una tesi su Felicità e strategie d’impresa. Persona, relazionalità ed etica d’impresa. Da Ottobre 2010 Collabora con l’Università di Bologna per il Seminario su Etica d’impresa. Nel Febbraio 2018 ha pubblicato il libro "Votare, oh, oh!" per l’editrice Aracne, una agile guida per riflettere sulle scelte politiche.