Il capitalismo della sorveglianza distrugge la democrazia

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Stiamo assistendo, da vari anni, ad eventi che possono raccontarci la qualità delle nostre democrazie. Penso ad esempio al Referendum in Catalogna: può un voto decidere la secessione di una regione dallo Stato nazionale? Il Referendum costituzionale in Turchia del 2017: può un popolo decidere di collocarsi sotto una quasi dittatura? Il Referendum in Grecia del 2015: può un popolo rifiutare di sottomettersi a decisioni prese altrove? Penso alle Primavere arabe, alla Costituzione tunisina e al Premio Nobel per la Pace del 2015, assegnato al Quartetto per il dialogo nazionale, che ha contribuito fortemente alla possibilità che quel testo fondativo venisse alla luce. Si potrebbe parlare a lungo della qualità della democrazia negli Usa[1]. Vi è, però, un argomento che interessa ogni processo politico ed è il rapporto tra consenso e verità, tra elezioni e conoscenza. In ordine a questo è interessantissima la lettura di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss, 2019.

Il libro, ad un certo punto, parla di giocattoli spia e mostra la spietatezza del disegno che sorregge il capitalismo della sorveglianza, che arriva a catturare e manipolare la vita anche dei bambini. Sono giocattoli “abbinati a una app mobile che una volta scaricata sullo smartphone ‘offre l’elaborazione dei dati’ in grado di attivare la cattura e la comprensione da parte del giocattolo di tutto quello che dice il bambino. Nel mentre, la app accede a gran parte delle funzioni del telefono, comprese molte che sono irrilevanti per il funzionamento del giocattolo, come la lista dei contatti e la videocamera. La app connette il giocattolo a internet via Bluetooth, e registra e carica le conversazioni nelle quali riesce a coinvolgere il bambino. Una bambola tra quelle prese in considerazione dal reclamo spinge sistematicamente il bambino a fornire una serie di informazioni personali, compreso il luogo in cui vive.” (pag. 280).

La lettura del libro evoca, a tratti, il contenuto di un libro molto importante di Acemoglou e Robinson Perché le nazioni falliscono? Alle origini di potenza, prosperità, e povertà, Il Saggiatore, Milano, 2013, che spiega l’ascesa e il declino delle civiltà, dal passato all’oggi, attraverso il binomio inclusione/estrazione. I grandi imperi si sono dissolti perché le élite hanno smesso di far entrare il popolo nel benessere creato e hanno cominciato ad accumulare ricchezze per loro stesse; il capitalismo della sorveglianza ha costruito il suo successo esattamente sull’estrazione. Estrazione di che cosa? Di dati personali? Certamente. Ma solo dati personali? Il fine del capitalismo della sorveglianza è appropriarsi della vita delle persone per poterla anche plasmare fin nei più piccoli particolari.

Un punto di partenza importante per studiare questo fenomeno è vedere come sia in continuità col capitalismo tradizionale su un punto molto preciso: aspirare a una libertà senza limiti. Nel passato questo modello economico implicava l’ignoranza: il mercato è efficiente perché le persone non conoscono il tutto e si comportano insieme in modo da rendere il sistema capace di raggiungere i suoi obiettivi. Oggi i capitalisti della sorveglianza, in concorrenza tra loro, cercano la totalità. “La totalità dell’informazione si avvicina alla certezza, e pertanto a esiti sicuri […] Il capitalismo della sorveglianza, pertanto, mette la certezza al posto del mistero, e renderizzazione, modifica del comportamento e previsione al posto del vecchio ‘schema insondabile’. E’ un’inversione fondamentale dell’ideale classico secondo il quale il ‘mercato’ era intrinsecamente non conoscibile (p. 513). Ogni cosa è mappata e riplasmata secondo i loro interessi; quindi, secondo i loro profitti. La libertà di questi nuovi eroi del mercato si fonda sulla conoscenza che estraggono dalle nostre vite, commercializzando prodotti che siamo noi: “le nostre vite vengono raschiate e vendute per sovvenzionare la loro libertà e la nostra sottomissione, la loro conoscenza e la nostra ignoranza su tutte le cose che sanno” (p. 514). Sono liberi perché sanno tutto e questa asimmetria verso i loro utenti cresce sempre più, sempre più ad ogni clic.

Questa asimmetria di potere rende sempre più le aziende legate a internet capaci di essere strutturalmente indipendenti dalle persone. E’ vero che il rapporto tra chi conferisce il capitale e i lavoratori è stato descritto in modi molto diversi e in modi molto diversi si è trovato un punto di equilibrio, anche attraverso i sindacati, trattamenti economici più equi eccetera. Ma si è sempre percepita la reciprocità dei vari attori economici. Oggi le persone sono la vera merce (non solo il loro lavoro) e sono impacchettate per essere vendute, senza nessun riconoscimento di valore, vendute ad aziende che mirano a sapere in anticipo i comportamenti altrui. Inoltre, la reciprocità si è interrotta anche perché il rapporto tra capitalizzazione e dipendenti è sempre più alto, infinitamente più alto, per esempio, rispetto alle aziende automobilistiche nelle loro epoche più fiorenti. Nessuna reciprocità si frappone allo strapotere di questi protagonisti dell’economia attuale; anche la democrazia è, di fatto, in vendita assieme ai cittadini.

L’esito sociale è la vita dell’alveare, in cui conta solo la quantità di prodotto che possiamo offrire ai padroni, i quali applicano “l’arte dell’indifferenza radicale, un modello di conoscenza profondamente asociale. Grazie all’indifferenza radicale, essi giudicano i contenuti in base al volume, varietà e profondità del surplus, con criteri ‘anonimi’ quali clic, like e durate, senza curarsi del fatto evidente che ogni situazione ha un significato diverso […] L’indifferenza radicale ritiene equivalenti i fattori positivi e negativi, malgrado i loro diversi esiti morali. Il solo obiettivo razionale non è più realizzare i prodotti ‘migliori’, ma quelli che intrappolano ‘tutti’” (p. 520-521). Questa è la grande apertura attraverso la quale entrano le fake news[2], diffuse perché rispondono a imperativi economici, accettando di pubblicare pubblicità di clienti fraudolenti, ad esempio. Scopo di queste aziende è avere più contatti possibile, senza guardare alla verità dei contenuti o al rispetto delle persone coinvolte: se si volesse bloccare le fake news lo si potrebbe fare, ma è chiaro che non si vuole. Si cerca proprio la rottura della reciprocità e della crescita comune: i colossi di internet “sono in grado di sfruttare l’indifferenza radicale per corrompere ulteriormente l’insieme delle conoscenze” (p. 527).

Il capitalismo della sorveglianza si presenta, quindi, come furia antidemocratica, valutabile “come una sovversione dall’alto di natura economica […] Impossessandosi dell’esperienza umana, la sovversione si appropria di un potere e di una conoscenza senza pari […] E’ una forma di tirannia che si ciba delle persone ma non è parte di loro. In un surreale paradosso, la sovversione viene chiamata ‘personalizzazione’, anche se ignora, annulla e rimuove ogni cosa personale che ci possa riguardare” (p. 528) E se c’è tirannia, sparisce la politica e ogni sostanza di democrazia: perché sparisce la capacità di volere, di desiderare, di scegliere, al limite di sognare. Tutti sono schiacciati e resi omogenei con l’indifferenza radicale praticata da quello che la nostra autrice chiama il Grande Altro, seducente potere che induce a fare quello che Lui desidera, senza un vero e critico consenso delle persone, senza un giudizio morale autonomo (cfr. p. 530): quindi non trova mai confini, ma lieta e ossequiosa obbedienza. Infatti, Zuckemberg sostiene che Facebook risolverà i problemi della civiltà futura (cfr. p. 529), al prezzo di controllare la natura umana. Ma sarà l’uomo stesso ad accogliere questo Cavallo di Troia, perché tutti aspiriamo a una società senza problemi, sotto controllo, sicura e al tempo stesso inevitabile, come inevitabile è considerato il progresso tecnologico, mentre invece “è solo un sonnifero esistenziale che serve a farci rassegnare: un sogno che ci narcotizza lo spirito” (p. 530). Tutto questo potrebbe condurre alla settima estinzione che riguarda “la parte più importante della natura umana: la volontà di volere, la santità dell’individuo, i legami d’intimità, la socialità che ci lega l’un l’altro attraverso le promesse e la fiducia. Questo futuro morirà, ancora una volta in modo non intenzionale” (p. 530).

L’esito peggiore, sul piano politico, è quanto il capitalismo della sorveglianza partecipi a un processo molto più ampio di perdita di fiducia nella democrazia. Il rilevamento in 38 paesi mostra una mediana appena del 37% di persone che sostengono esclusivamente la democrazia. Il capitalismo della sorveglianza, brutale e senza precedenti, “sta contribuendo ad affossare la democrazia, facendo piegare i popoli alla sua volontà sussurrata. Ci dà tanto, ma vuole molto di più” (p. 532), esattamente tutto. Ma è dalla democrazia che dobbiamo ripartire: essa è un fattore necessario per la vita stessa del sistema economico: “con la globalizzazione non abbiamo soltanto un ampliamento dei mercati (una prima globalizzazione di questo tipo l’Europa l’aveva fatta dal secolo XVI in poi) ma la fine del mercato occidentale come si è sviluppato negli ultimi secoli. Con la crisi degli Stati sovrani e la prevalenza assoluta delle grandi concentrazioni finanziarie ‘senza fissa dimora’ è venuto meno il rapporto di equilibrio e di tensione tra la politica e il mercato che ha caratterizzato questo sviluppo: non soltanto si indebolisce la politica (intesa come stato di diritto e democrazia) ma viene anche meno il ‘nostro’ mercato. Componente del mercato occidentale, checché ne dicano i teorici neoclassici, è il rapporto con la politica (rapporto che non può essere identificato per nulla con il dirigismo o con lo statalismo): democrazia e mercato simul stabunt simul cadent”.[3]

Il capitalismo della sorveglianza, nato da una tecnologia, internet, che prometteva di democratizzare l’informazione, ha approfittato di una democrazia in crisi e ha finto di offrire rimedi fintamente democratici a quel deficit. Ma ha costruito un sistema puramente estrattivo ad assoluto vantaggio dei suoi leader, divenendo una “creatura insaziabile che cerca di divorare i suoi anziani genitori” (p. 533), in particolare i padri del neoliberismo.

Due le leve su cui possiamo agire: la pubblica opinione e l’indignazione. La prima deve basarsi su tre domande molto care alla nostra autrice: chi sa? Chi decide? Chi decide chi decide? E’ la consapevolezza dello strutturarsi del potere: oggi il potere sta nella conoscenza e nella capacità di qualcuno di regolarne i meccanismi. E la pubblica opinione, finalmente critica e formata, potrà generare regole e leggi adeguate per affrontare i nuovi mostri.

E se vogliamo dare risposte a queste domande, se vogliamo ridare forza alla democrazia, occorre recuperare la forza della indignazione, perché ci stanno rubando la capacità di scrivere con libertà la storia della nostra vita.

“E’ uno scandalo che il capitalismo della sorveglianza ci abbia tolto tanti diritti abusando delle proprie competenze digitali e della promessa di rendere la conoscenza più democratica. Il futuro potrà anche essere digitale, ma dovrà prima essere umano” (p. 536). E se umano, potrà essere libero e quindi, se vorremo, anche democratico. I poteri attualmente in campo non sono invincibili e la storia può essere guidata dalle persone in cerca del bene comune.

 

[1]    “Creato difettoso eppure da decenni elevato a modello universale, in questi giorni il sistema elettorale americano manifesta platealmente la propria inconsistenza. Costruito per allontanare la popolazione dalla politica ma raccontato come massimo strumento di democrazia, mostra le sue spettacolari falle”. D. Fabbri, E con Trump il rito delle presidenziali si svelò grottesco, Limes, 11/2020, pag. 46-48.

[2]    “Durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti del 2016, per 760 milioni di volte un utente ha letto una di queste bugie orchestrate a livello internazionale: tre storie false per ogni americano adulto” (p. 522). Ma una simile narrazione può essere fatta per Indonesia, Filippine, Colombia, Germania, Spagna, Italia, Ciad, Uganda, Finlandia, Svezia, Olanda, Estonia e Ucraina (cfr. p. 523).

[3] P. Prodi, Non rubare: il VII comandamento nella storia dell’Occidente. Lezione tenuta in occasione del proprio 75° compleanno, Bologna, San Giovanni in Monte, 29 Ottobre 2007, 12-13. La Zuboff riporta una frase di Piketty: “Un’economia di mercato lasciata a se stessa contiene potenti forze divergenti, potenzialmente minacciose per le società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali si fondano” (p. 532); e ancora: “se vogliamo riprendere il controllo del capitale, dobbiamo puntare tutto sulla democrazia” (p. 533).

Matteo Prodi

Nato nel 1966, laureato in Economia e Commercio all’Università di Bologna nel 1990, è stato ordinato presbitero nel 1997. Dall’anno accademico 2008-09 è professore invitato alla FTER nell’ambito della morale sociale. Nel 2010 ha conseguito il Dottorato in teologia presso la FTER con una tesi su Felicità e strategie d’impresa. Persona, relazionalità ed etica d’impresa. Da Ottobre 2010 Collabora con l’Università di Bologna per il Seminario su Etica d’impresa. Nel Febbraio 2018 ha pubblicato il libro "Votare, oh, oh!" per l’editrice Aracne, una agile guida per riflettere sulle scelte politiche.