Intervista a L’Unità
di Umberto De Giovannangeli
La guerra di Gaza interroga la sinistra italiana, il Pd, e impone una riflessione su un’identità smarrita e sull’esperienza, a otto mesi dal suo insediamento, del nuovo corso dem di Elly Schlein. L’Unità ne discute con Alfredo D’Attorre, membro della segreteria nazionale del Partito democratico con la responsabilità dell’Università. All’attività politica D’Attorre intreccia quella di docente (insegna Filosofia del diritto all’Università di Salerno) e saggista. Ricordiamo il suo libro più recente e di stringente attualità: Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel conflitto politico (Editori Laterza).
Gaza, per usare un’affermazione molto forte del Segretario generale delle Nazioni Unite, è diventata un “cimitero di bambini” Orrore e morte. Ma in Italia tutto o quasi tace.
Se guardo al dibattito politico e giornalistico, sono in effetti allibito anch’io da paginate sul “premierato” o su altri ballon d’essai, tipo gli hotspot in Albania, mentre è in corso una delle vicende più sconvolgenti dal dopoguerra a oggi. In altri tempi, la scelta del governo italiano di astenersi all’Onu sulla richiesta di un cessate il fuoco umanitario avrebbe scatenato un dibattito gigantesco. È come se larga parte del sistema politico e informativo avesse ormai introiettato l’idea che la politica italiana non è più fatta per occuparsi delle cose veramente importanti. Detto questo, non tutti i protagonisti della politica italiana stanno avendo lo stesso atteggiamento.
Considera chiara la posizione del Pd?
Il Pd ha condannato duramente l’attacco di Hamas e ha espresso una forte contrarietà sul modo in cui il governo israeliano sta esercitando il suo diritto di autodifesa. Le scelte passate e presenti di Netanyahu sono una catastrofe sia per il popolo palestinese, sia per il sacrosanto diritto di Israele di vivere in pace e sicurezza. L’eradicazione militare di Hamas, ammesso che possa davvero essere completata senza costi umani ancora più spaventosi, non coinciderà purtroppo con la sua sconfitta politica, né tra i palestinesi né tra le masse arabe. Non esiste nessuna vittoria militare che produce risultati stabili se non è accompagnata da un disegno politico. Basterebbe leggere anche solo i teorici della guerra, a partire da Clausewitz.
Un tempo il sostegno ai popoli in lotta per l’autodeterminazione era un punto fondante, basilare, dell’identità della sinistra. Oggi non è più così.
Negli ultimi decenni la parola “sinistra” ha coperto le posizioni più varie, ma nemmeno dopo tutte queste peripezie penso che essa possa essere disgiunta dal principio di autodeterminazione popolare e, nello specifico, del diritto dei palestinesi di vivere in un proprio Stato sovrano. Tant’è che nessuno in linea di principio nega questa tesi. Il punto piuttosto è un altro.
Quale?
Non sempre questa posizione di principio ha avuto il coraggio di congiungersi con la condanna esplicita delle decisioni delle leadership israeliane e palestinesi che di fatto la rendevano inattuabile. E con il contrasto alla sostanziale rimozione della questione palestinese che sia gli Stati Uniti sia l’Europa hanno avallato nell’ultimo quindicennio, fino al 7 ottobre scorso. Perché un’azione così vile e disumana come quella di Hamas è così tragicamente popolare nel mondo arabo, ben oltre i confini della Palestina? Perché una larga parte di quel mondo le attribuisce il merito di aver sbattuto di nuovo in faccia ai “padroni del mondo” la condizione reale dei palestinesi, quella che buona parte del mondo occidentale pensava di poter seppellire definitivamente con gli “Accordi di Abramo”
Cosa impedisce al Partito democratico di ripresentare in Parlamento una mozione che chieda il riconoscimento dello Stato di Palestina a fianco dello Stato d’Israele, nei confini indicati dalle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite?
Guardi che una mozione del genere è stata già approvata dal Parlamento italiano nel 2015. Lo ricordo bene, è stato prima della scissione, io ero ancora parlamentare del Pd e Roberto Speranza era ancora capogruppo. Se vogliamo però essere onesti fino in fondo come richiede una tragedia di queste dimensioni, dobbiamo riconoscere che nelle condizioni attuali la semplice riproposizione della formula “due popoli e due Stati” non significa molto, rischia perfino di suonare beffarda: per la radicalizzazione delle posizioni in campo e per la situazione di fatto che i coloni israeliani hanno creato in Cisgiordania. Oggi più che l’invocazione dell’obiettivo finale conta l’individuazione di una strada realistica per uscire dalla catastrofe attuale e avviare una fase transitoria. È una gigantesca illusione pensare che basti la sconfitta militare di Hamas, se non si superano le condizioni materiali che hanno reso egemoni le sue posizioni, tra i palestinesi e non solo. Ci rendiamo conto che oggi perfino il
Presidente della Turchia – la seconda potenza militare della Nato! – è spinto a solidarizzare con quelle posizioni? Occorrerà un cambio di leadership in Israele e poi una vera assunzione di responsabilità della comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti e dell’Unione europea, che assicuri una fase di gestione transitoria dei territori sottratta al controllo israeliano e un grande piano di ricostruzione. Sul quale l’Occidente deve investire, come si è impegnato a investire sulla ricostruzione in Ucraina.
Prima che cambino le condizioni di vita di una popolazione martoriata da anni, parlare di Stato palestinese e di elezioni non ha molto senso. Se si facessero le elezioni prima, qualcuno pensa che vincerebbero i moderati?
Domani (oggi per chi legge) il Pd tiene a Roma una manifestazione nazionale. Sono trascorsi otto mesi dall’insediamento di Elly Schlein alla guida del Pd. Che bilancio trae?
All’inizio di quest’anno tutti i giornali parlavano di un Pd a un passo da una definitiva dissoluzione. E per una volta non avevano tutti i torti: al di là dei sondaggi, bastava annusare il clima all’interno del partito, sia a livello nazionale che nei territori. Oggi c’è un Pd nel pieno di un processo di trasformazione, che torna a essere identificato con temi e diritti sociali da cui negli anni scorsi è apparso molto lontano. Perciò, ben venga il dibattito franco e lo stimolo a fare meglio, ma non condivido il giudizio espresso su queste colonne dal direttore Sansonetti. Non so se nasca dall’aspettativa di virtù taumaturgiche di Elly Schlein, che in pochi mesi avrebbe dovuto risolvere tutto, o dalla rimozione dello stato del partito prima della sua vittoria alle primarie. E sinceramente non capisco quale sarebbe l’«anima» che la segreteria Schlein ha tolto al Pd. Quella che ha portato ai rovesci elettorali del 2018 e del 2022?
Che risponde a chi dice che Elly Schlein si sia circondata di un gruppo dirigente debole e che il dibattito interno sia segnato da troppo conformismo?
Se c’è gruppo dirigente giovane, è perché dal Congresso è emersa una forte richiesta di discontinuità. E sono fiducioso che Elly non commetterà l’errore che hanno commesso diversi suoi predecessori, quello di chiudersi in una ristretta cerchia di fedelissimi. Quanto al conformismo, mi pare che siamo in una fase in cui c’è tutta la possibilità di discutere e avanzare critiche senza essere additati come “nemici del popolo”. Se fosse stato sempre così, ci saremmo risparmiati lacerazioni dolorose in passato.
Le aspettative erano molto alte, non pensa che inizi a esserci delusione in un mondo di sinistra che stava tornando a guardare al Pd?
Credo che il nuovo corso abbia riaperto per il Pd la possibilità di tornare a parlare con diversi settori della società. Ma, in politica come nei rapporti personali, perdere la fiducia è facile, mentre riconquistarla è un processo lungo e difficile. E quello che, ad esempio, verifico anche nell’ambito di cui mi occupo più direttamente, quello dell’università e della ricerca. Bisogna aver chiara la direzione nella quale andare e sapere che serve il passo del maratoneta, non dello scattista che va alla ricerca di traguardi immediati.
Non crede che l’assenza di una voce forte e unitaria dell’opposizione sia una responsabilità anche dell’attuale gruppo dirigente del Pd?
L’ispirazione unitaria del nuovo Pd rispetto ai suor potenziali alleati alla lunga funzionerà. Nell’immediato chi cerca elementi di distinzione e di competizione continua sembra avvantaggiato, ma, quando un’alternativa a questa destra diventerà una necessità urgente per il Paese, chi ha investito nella ricerca dell’unità sarà premiato.
Guardando al governo, c’è da essere più preoccupati della legge di bilancio o del progetto di riforma costituzionale?
Le due cose sono molto più collegate di quanto sembri. La Meloni rilancia sulla “madre di tutte le riforme” nel momento in cui la sua seconda legge di bilancio certifica che il 95% del programma economico con cui la destra si e presentata alle elezioni – dalle tasse alle pensioni – è inattuabile. È la ricerca insieme di un diversivo e di un alibi. Se vanno avanti, l’esito è già scritto, saranno travolti al referendum come è già successo a Berlusconi e Renzi (e nel merito questo fantomatico “premierato” è perfino più sconclusionato dei precedenti progetti di riforma). Questo può significare che i tempi della legislatura si accorciano. Con l’accentuarsi delle difficoltà economiche, per evitare un progressivo logoramento, la Meloni potrebbe essere spinta ad accelerare i tempi dell’all-in sul referendum costituzionale.
In conclusione, cosa deve fare il “nuovo Pd” per farsi trovare pronto nel momento in cui la maggioranza degli italiani cercherà un’alternativa alla destra?
Bisogna dare autenticità e profondità alla scelta di ricollocare il Pd dalla parte della giustizia sociale, della dignità del lavoro, della sanità e dell’istruzione pubblica. Significa dimostrare che questa scelta non è frutto di un riposizionamento solo tattico e comunicativo, ma di una convinzione reale e di un’analisi seria della società italiana. Per fare questo dobbiamo alzare il livello dell’elaborazione programmatica e culturale, continuare ad aprire il partito a forze nuove e cambiare il modo in cui esso si presenta in diversi territori.