Scotto: l’atomica incombe, ma pace e negoziato restano impronunciabili

Politica e Primo piano

Pubblicato su Globalist.it

di Arturo Scotto

Non c’è bisogno di chiamare in causa Cassandra per capire che l’umanità non è mai arrivata tanto vicino alla deflagrazione atomica. Almeno dai tempi della crisi missilistica a Cuba. L’orologio dell’apocalisse predisposto dagli scienziati atomici nel 1947 registra il livello di pericolosità di un conflitto atomico in rapporto alla distanza temporale dalla mezzanotte. A partire da gennaio parliamo di appena 90 secondi, un minuto e mezzo. All’inizio dello scorso anno era invece di diciassette minuti.

È la contabilità fredda e inequivocabile del burrone attorno a cui il mondo balla: basta un attimo e l’armageddon esce dai romanzi distopici e diventa realtà effettiva. La scelta di Putin di sospendere il Trattato New Start sul contenimento delle armi nucleari ci racconta di un mondo che sta finendo. Ha dichiarato che non sarà mai lui a sparare il primo colpo, ma intanto agita – non solo sul piano dell’emotività propagandistica – l’incubo imminente dell’olocausto nucleare e lo getta nel dibattito globale. Un annuncio di morte che nessuno ha il coraggio di guardare negli occhi.

Non c’è giustificazione alcuna rispetto a questa decisione – va detto per onestà intellettuale che furono gli Usa di Trump a sospendere il trattato Inf nel 2019, quello sugli euromissili – , mentre ovviamente giace ancora inapplicato – e non sottoscritto nemmeno dall’Italia – il Trattato sul bando delle armi nucleari firmato già da 164 paesi. È presumibile che il TPNW non vedrà probabilmente mai la luce per almeno qualche decennio. Non è questo il luogo per costruire per l’ennesima volta la gerarchia delle responsabilità, quelle più lontane e quelle più recenti, ma è indubbio che sta saltando tutto l’impianto che portò negli anni ottanta Usa e Urss a impostare un graduale superamento della deterrenza nucleare e ad alludere a un mondo senza bomba.

Oggi quell’architettura è defunta. E con essa un abbozzo anche minimo di ordine mondiale fondato sulla razionalità delle relazioni diplomatiche oltre che della deterrenza militare e, conseguentemente, qualsiasi ipotesi di una nuova stagione di cooperazione e reciproca sicurezza tra est e ovest.

L’impressione che si ricava è che non esista alcun punto di equilibrio, alcuna istituzione sovranazionale capace di regolare il traffico, che – come ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres – il mondo sta andando ad “occhi aperti” verso il baratro. La parola pace è diventata impronunciabile, il negoziato è subordinato alla corsa agli armamenti con la riproposizione dell’assioma indimostrabile secondo cui più crescono le dotazioni militari maggiore sarà la possibilità di riaprire la trattativa. Poteva valere nei primi tre mesi dell’invasione russa – e già allora era assai discutibile –, ma oggi la storia di questo lunghissimo anno di lutti ci dice che non si ferma la guerra con la guerra.

Non conosciamo i dettagli della visita di Biden, non sappiamo se sia già deciso che forniremo i caccia e le armi a lungo raggio a Zelensky. Sappiamo però che queste scelte configurerebbero sempre di più un ingresso della Nato nel teatro di guerra. Per mesi abbiamo usato ipocritamente la formula della guerra per procura, oggi lo scontro diventerebbe frontale e pericolosissimo. Diretto, appunto. Siamo consapevoli del salto di qualità che esso comporterebbe? A Washington il pessimismo rispetto al possibile avvio di una trattativa ci dice che ci si prepara a una guerra di lungo periodo, addirittura riesumando le categorie consolatorie della guerra giusta, vedi il filosofo liberal Walzer. Manca assolutamente una riflessione politica su quali equilibri si vogliono disegnare il giorno dopo, se il destino della Federazione Russa è una sua balcanizzazione come desidera ad esempio l’avamposto americano in Europa interpretati dalla “democratica” leadership polacca, se integrità e sovranità dell’Ucraina equivalgono a un ritorno della Crimea a Kiev, la vera linea rossa di questo conflitto. L’assenza di un dibattito a sinistra in Italia e in Europa su quali punti di caduta avrà il conflitto non è solo sconcertante, ma equivale quasi a un ammutinamento. Essere alleati degli Usa non significa che la Nato debba necessariamente sovrapporsi all’Europa. Tecnicamente sarebbe la fine di qualsiasi velleità di autonomia i cui richiami ormai assomigliano poco più che a un esercizio retorico utile a giustificare qualche convegno specialistico e ad arricchire qualche discorso parlamentare. Non esiste autonomia senza politica estera e di sicurezza comune. Oggi appare questo il quadro di realtà, senza girarci troppo attorno.

E la visita di Biden ha ribadito fino in fondo chi è il comandante in capo, se c’era ancora qualche dubbio. Se è così meglio chiarirsi subito, perché anche in un contesto ormai dichiarato di subordinazione ci sono i margini per poter porre qualche domanda sugli obiettivi. E contrattare di rimessa – perché amaramente di questo stiamo parlando – quali siano le linee di fondo della strategia statunitense e di operare negli interstizi lasciati liberi dal linguaggio bellico per una tregua almeno parziale. Né più né meno quello che l’Italia ha fatto per decenni, senza mai doversi scusare verso chicchessia, persino quando tra Washington e Mosca c’era una cortina di ferro.

L’assenza di una posizione del genere dal dibattito pubblico ci rivela qualcosa di più di una semplice assuefazione, ci relega all’impotenza. E lascia milioni di persone che nel week end sfileranno per la pace in ogni angolo d’Europa – appunto Europe for Peace – con l’angoscia di una politica che ha disertato da una funzione di rappresentanza. Esattamente la realizzazione del disegno di Putin: un’Europa che non conta nulla, dove la crisi della democrazia genera la crescita impetuosa della disaffezione verso le istituzioni e il risveglio etnonazionalista. In questo caso però non si tratta dell’omicidio perfetto. Perché chi doveva difendere la propria funzione ha scelto purtroppo di suicidarsi.