Visco: il fisco è un castello di privilegi che pesa sulle spalle dei ceti medi

Politica e Primo piano

Intervista a Repubblica Affari e Finanza

di Eugenio Occorsio

Flat-tax, accise, Pos, condoni e rottamazioni (la “pax fiscale”), limiti al contante. Sono bastati cento giorni perché il governo di centrodestra riaprisse l’eterna guerra del fisco. Si combatte dagli albori della Repubblica: nel 1947, appena redatta la Costituzione fu creata una seconda costituente, una commissione incaricata di disegnare una riforma fiscale efficace che attuasse l’articolo 53 della Carta: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. «Il tentativo fallì e fino a oggi fra riforme e controriforme ancora non si è riusciti a raggiungere un sistema trasparente ed equo», dice Vincenzo Visco, ministro delle Finanze e del Tesoro con i governi Ciampi, Amato, D’Alema e Prodi, che ha raccontato le peripezie per equilibrare il carico fiscale nel saggio “La guerra delle tasse” (Laterza). «Non è una storia solo italiana: la guerra a livello accademico e politico, ricchi contro poveri, neoliberal contro keynesiani, si combatte in tutto il mondo da decenni».

Giorgia Meloni, nell’intervista al Sole 24 Ore di giovedì, promette una “rivoluzione fiscale”. C’è da crederle o il contribuente onesto ne uscirà come sempre sconfitto?

«Vedremo. Oggi anche senza considerare l’evasione, le ingiustizie cominciano con la sperequazione del trattamento fiscale fra autonomi e dipendenti, che il governo sta approfondendo ulteriormente: con la nuova flat tax: un professionista che fattura 85mila euro paga il 15% su un reddito stabilito forfettariamente (dedotti i costi presunti), un dipendente con Io stesso reddito paga di Irpef il 43%, fino a 10mila euro in più».

E l’annosa questione della diversa tassazione fra fonti di reddito?

«Altro nodo insoluto. Chi guadagna con azioni, bond, società, cespiti patrimoniali, canoni di locazione paga molto meno di chi guadagna col lavoro: nulla in certi casi di esenzione, il 12,5% sui Bot, il 26% sui fondi, passando attraverso un’infinita serie di cedolari secche. Un privilegio difeso con le unghie dagli interessati».

Quindi il prelievo è sempre più sbilanciato a sfavore del lavoro?

«I redditi da lavoro sono circa il 50% del valore aggiunto totale mentre fino agli anni 80 rappresentavano il 60-70%. Eppure imposte e contributi continuano a essere riscossi facendo leva su questa categoria. Per di più, dimostrano analisi recenti, gli autonomi evadono il 65-70% dei redditi».

Perché non si riesce ad arrivare a un armistizio?

«C’è un peccato originale. Il fallimento della “costituente” per il fisco fece sì che l’Italia attraversasse il boom economico senza una fiscalità moderna degna di questo nome, mentre si generavano ingiustizie e diseguaglianze. Nel 1962 fu istituita una nuova commissione presieduta da Cesare Cosciani, un grande economista che ha avuto per allievi Dirti, Sarcinelli, Pedone, Ciocca, Galateri, Zadra, il sottoscritto. Cosciani cercò di introdurre una riforma basata su un’imposta personale progressiva sui redditi individuali di qualsiasi origine, in capo al percettore, superando il sistema differenziato per tipologia di redditi».

Come andò a finire?

«Male. Nella commissione prevalse la linea di Bruno Visentini che sosteneva il trattamento differenziato, Cosciani si dimise per protesta e tale linea passò con la riforma del 1974. Negli anni successivi, quelli della globaIizzazione e della libera circolazione dei capitali via via fino a oggi, si è continuato a introdurre imposte differenziate privilegiando i redditi di capitale, immobiliari e agricoli, con l’effetto di gravare sempre più sui ceti medi e sugli stipendi anziché sulle entrate da patrimoni».

I governi dell’Ulivo perché non hanno cambiato le cose?

«In realtà la riforma che misi a punto nel ’96 razionalizzò il sistema tassando in modo uniforme tutti i redditi da capitale, fiscalizzando i contributi sanitari riducendo il costo del lavoro, ottenendo per la prima volta un massiccio recupero di evasione. Purtroppo chi è venuto dopo ha cominciato subito a smantellare quello che avevamo fatto».

Eppure di governi tecnici ce ne sono stati, Monti, Draghi.

«Draghi aveva pronta la sua riforma fiscale, sia pure incompleta, ma ha commesso un errore di ingenuità sottovalutando la durezza del confronto con il Parlamento su un tema così divisivo e strumentalizzabile in chiave di consenso. Risultato, l’ennesimo naufragio».

Non crediamo che vengano a chiederglieli, ma lei quali consigli darebbe al governo?

«Generalizzare i pagamenti tracciati, creare l’obbligo di effettuare una ritenuta d’acconto su tutte le operazioni, applicare un’aliquota unica Iva sulle transazioni intermedie B2B, razionalizzare il quadro normativo della fatturazione elettronica, utilizzare pienamente i dati dell’anagrafe dei conti finanziari insieme a quelli delle altre banche dati. E via dicendo».

E per ridurre le diversità di trattamento?

«L’imposizione sul reddito dovrebbe avvenire con un sistema duale, basato su due imposte personali e progressive. La prima sui redditi da lavoro con aliquote determinate caso per caso in base a una funzione matematica. La seconda basata sul patrimonio complessivo netto, immobiliare e mobiliare, valutato a prezzi di mercato con una franchigia alta per esentare chi ha una ricchezza limitata».

Lei sa che il termine “patrimoniale” è radioattivo in questo Paese?

«Infatti l’ho usato con misura. Nella patria del capitalismo, la Svizzera, c’è una patrimoniale su tutti i cespiti compresi quadri d’autore e gioielli. Da noi neanche sulla casa si trova un accordo: l’Ici-Imu fu varata nel 1992 dal governo Amato, Berlusconi l’ha tolta per la prima casa, Monti l’ha reinserita, il centrosinistra l’ha di nuovo eliminata. E sul catasto siamo fermi sostanzialmente agli anni 30».

Meloni dice che “l’evasione si combatterà prima ancora che si realizzi”. Qualche speranza?

«È importante non consegnare alle nuove generazioni un Paese in cui si combatte una guerra fra Stato e fisco: a vincere sono stati finora i privilegiati e, battaglia dopo battaglia, chi è riuscito a ottenere da una classe politica ostaggio delle lobby una miriade di eccezioni particolaristiche che hanno reso il fisco un castello di piccoli e grandi privilegi».