Bersani: nel dna del fascismo guerra e sopraffazione. Non dimentichiamolo

Politica e Primo piano

Intervista a Libertà

di Maurizio Pilotti

«Ho sempre pensato che la data della marcia su Roma fosse da un lato un punto di arrivo e dall’altro un punto di partenza. Un arrivo perché con la presa del potere lo squadrismo violento dei fascisti ottiene il proprio obiettivo primario. Ma quel 28 ottobre 1922 è anche il punto di partenza di una dittatura che inevitabilmente avrebbe portato alla guerra. Ecco, il fascismo di fatto può essere considerato un percorso da guerra a guerra: fin dall’inizio l’ha voluta, ci ha amoreggiato, l’ha desiderata. E puntualmente ce l’ha portata».

Pier Luigi Bersani, presidente dell’Isrec (l’Istituto di storia contemporanea, già Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea) di Piacenza e una vita a sinistra da politico, da ministro, da amministratore, aspetta con curiosità di sentire gli storici discutere dei temi proposti dal convegno sul “Fascismo in marcia” che Isrec propone da oggi fino a sabato all’Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano.

Nell’attesa, accetta di rispondere su alcuni dei nodi culturali tutti da sciogliere – che l’analisi del fenomeno storico del fascismo ci pone ancora oggi.

Bersani, la guerra e la morte sono dunque nel codice genetico del fascismo?

«Dissociare il fascismo dalla volontà di violenza, di dominio e dal desiderio di guerra è impossibile. La pulsione alla sopraffazione, al nazionalismo e all’imperialismo erano insopprimibili e realizzabili solo impugnando le armi. Quella genetica ha preso forma dagli esiti della guerra ‘15-’18, mischiando il mito della vittoria tradita, il reducismo combattentistico, l’aggressività verso il pacifismo e il neutralismo, Benito Mussolini intercetta questi umori e ne fa una sintesi. Di fatto sarà un appuntamento verso la seconda guerra mondiale, a conferma del paradigma del “secolo breve”, con i due conflitti così vicini, legati strettamente da un filo».

C’è un’interpretazione “da destra” che dice: quel primo fascismo nasce come risposta dovuta, quasi obbligata, alla paura del biennio rosso e di una imminente rivoluzione bolscevica in Italia… 

«Sicuramente la paura della borghesia è un altro ingrediente fondamentale di quegli anni: si pensò di usare lo squadrismo per arginare l’avanzata delle sinistre, ritenendo poi che si potesse normalizzare il fascismo e un domani incanalarlo nello statuto umbertino. In realtà il fascismo scappò di mano a chi si illudeva di gestirlo e andò dove voleva lui. Ma secondo me lo sgretolamento dello stato liberale nasce soprattutto dal fatto che quella democrazia non “consegnava la merce”, per dire che in quel dopoguerra non riusciva a distribuire benessere e diritti a sufficienza: si indebolì fino a essere travolta».

Il fascismo è “autobiografia della nazione”, cioè gli italiani sono ciclicamente inclini a innamorarsi dell’uomo forte, dice Piero Gobetti. No, dice Benedetto Croce: il fascismo è una malattia morale temporanea, da mettere tra parentesi, nel cammino della nostra società liberale. Lei con chi sta: Gobetti o Croce?

«Per me il fascismo è un’autobiografia non dell’Italia, ma dell’uomo. Al fondo dell’essere umano c’è sempre un impulso all’aggressività che la politica deve domare, rendendo l’uomo, se mi si passa il bisticcio lessicale, più umano. Se c’è una cosa pericolosa da fare è dire: “Mai più”. Dire che non ci sarà mai più Auschwitz, mai più il fascismo o che – a un altro livello – non ci saranno mai più i roghi dell’Inquisizione è illusorio. In realtà sta alla politica domare ogni giorno quell’animale, quell’aggressività che se viene lasciata libera ed elevata a potenza nel mondo e nella storia può assumere le forme più tremende: in Italia all’epoca prese quella del fascismo».

Secondo lei l’Italia ha fatto i conti con il ventennio fascista? E che cosa dice a chi vede nella destra al governo i pericolosi prodromi di un ritorno al fascismo?

«Non oserei dire che l’Italia quei conti li abbia fatti fino in fondo. Ma d’altro canto osservo che la difesa della Costituzione è il fatto politico più rilevante che si sia visto in questi decenni. Tutte le volte che la si maltratta, gli italiani la difendono. Ricordiamoci che l’antifascismo “risuona” negli articoli più importanti della Carta costituzionale, nei principi dell’uguaglianza e della libertà: prima che il popolo italiano volti le spalle a questi valori, ce ne vuole. Alla seconda domanda rispondo dicendo che a differenza di Francia e Inghilterra, da noi non c’è una destra che sia stata antifascista. E a differenza della Spagna non abbiamo una destra che abbia fatto un drammatico passaggio politico per trasformarsi in una destra europea. Il problema forse è in questa anomalia, che andrebbe rimossa per il bene del Paese: ci serve una destra che prenda atto che la nostra Costituzione è antifascista e che è dall’antifascismo che ha ricavato i suoi contenuti più alti. Ma tanti fanno ancora finta di non capire. E l’ambiguità sta proprio nel non riconoscere il fatto storico che la nostra repubblica ha plasmato i propri valori in contrapposizione al fascismo. Noi siamo nati così! L’antifascismo non è una fazione, è la base della nostra convivenza civile, dovrebbe essere condiviso da tutti. Insomma, in Francia anche gli aristocratici festeggiano il 14 Luglio e la presa della Bastiglia come festa di tutti…».

… Da noi invece in giro ci sarebbero ancora nostalgici di Luigi XVI. Il fascismo è passato che non passa?

«Diciamo che fare i conti col passato è un processo complicato: io non chiedo di scalpellare via la parola “Dux” dalle statue del Foro Italico, ma se nel nuovo stadio di Roma mi scrivono “Dux” allora mi arrabbio (usa un termine più colorito, ma il concetto è quello, ndr). Come mi arrabbio quando mi mettono in un luogo istituzionale come il ministero dell’Industria la foto di Benito Mussolini tra quelle dei passati ministri. A quel punto non posso che dire: “Allora togliete la mia”, perché se metti anche il Duce tra i ministri allora vuol dire che intendi sottolineare una continuità, che tra il 25 Aprile e il 2 Giugno non è successo niente».

La accuseranno di indulgere nella “cancel culture”, nella censura del passato… 

« Non si tratta di “cancel culture”, ma di necessità di trovare un nuovo punto di equilibrio: il ministero dello Sviluppo economico di via Veneto fu progettato da Marcello Piacentini (architetto principe del monumentalismo tipico dell’éra fascista, ndr), dentro ci sono opere di Mario Sironi, Fortunato Depero (artisti a vario titolo fiancheggiatori del fascismo, ndr). Ma sono capolavori che non è giusto cancellare, che vanno visti. Figurarsi, da ministro ex Pci aprii il ministero durante le “Notti bianche” di Roma e li mostrai a tutti. Al tempo stesso bisogna spiegare, magari contestualizzando, aprirsi alla discussione».

A proposito di discussione e nostalgie mai passate: come valuta quella storia della cena a Piacenza tra camerati che volevano celebrare al ristorante la marcia su Roma come si fa con la vittoria del Mondiale di calcio?

«Privatamente uno fa quello che vuole. Ci sono anche autorità delle istituzioni (ad esempio il neopresidente del Senato Ignazio La Russa, ndr) che a casa loro collezionano cimeli del Ventennio. Figuriamoci se vorrei andare a sequestrare loro i busti del Duce. Ma quella cena era ipocritamente presentata tra privato e pubblico, con volantini e annunci social: sono contento che si sia compreso che fosse meglio soprassedere. La battaglia in ogni caso non si fa tra le mura domestiche, ma in politica, nella cultura».

Magari quei commensali potrebbero venire al convegno e provare a verificare i propri convincimenti sul fascismo che “ha fatto anche cose buone”…

«Eh, ma questi non vengono mica! Ed è un peccato: questo sul fascismo che faremo da domani non è un dibattito accademico qualsiasi, come se ci fosse da decidere se Tucidide era presente durante le guerre del Peloponneso o se era esule in Tracia. Interessante, ma ormai molto lontano da noi. Qui la discussione riguarda invece un punto nevralgico: c’è da contrastare la falsificazione storiografica che dice “in fondo il fascismo ha fatto anche del bene all’Italia”. Quindi sul tavolo c’è molto di più: si parla delle basi stesse della convivenza nella nostra repubblica. Ci sono insomma in gioco quei famosi conti col passato che dobbiamo ancora finire di fare».