di Simone Oggionni
Se non abbassiamo le armi da entrambe le parti, quelle militari e quelle economiche, non solo continueremo ad avere una guerra raccapricciante nel cuore del nostro Continente. Ma da ottobre ci troveremo ovunque a fronteggiare, e in Italia più che in altri Paesi europei, anche problemi drammatici in termini di inflazione, ulteriori aumenti delle bollette per famiglie e imprese, disastri nelle catene di approvvigionamento e conseguenti pesanti contraccolpi sul terreno occupazionale.
Di fronte a questioni fondamentali per il nostro futuro occorre lucidità e onestà intellettuale.
Gazprom pochi giorni fa ha annunciato la sospensione a “tempo indefinito” (dunque, fino a decisione contraria, a tempo indeterminato) delle forniture di gas all’Unione europea tramite il gasdotto Nord Stream 1.
Al contempo l’Unione Europea ha battuto un colpo e, dopo mesi di imbarazzato silenzio, ha posto le basi affinché domani, venerdì 9 settembre, la riunione dei ministri dell’Energia discuta di una ipotesi di riforma del mercato che disaccoppi il valore dell’elettricità da quello del metano e soprattutto della possibilità di introdurre un tetto al prezzo di acquisto del gas.
Peccato che lo farà a rubinetti chiusi. Il fattore tempo, in politica, è tutto. In ogni caso, ammesso che le importazioni via Ucraina compensino almeno una parte di quelle bloccate a nord, molto dipenderà dal tipo di price cap che verrà concretamente varato. Non è un dettaglio che si tratti alla fine di un intervento sul prezzo all’ingrosso per il complesso dei mercati europei (interrompendo gli acquisti e attingendo agli stoccaggi interni nella misura in cui il tetto è superato) oppure di un tetto solo al prezzo del gas russo (proposta Draghi) oppure ancora – come sostiene la Germania – di un intervento degli Stati a copertura della differenza tra prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio.
I ricatti
Il ministro Cingolani e buona parte della stampa europea parla di un grande e inaccettabile “ricatto” russo. Ma cosa sono state molte delle nostre sanzioni (dal congelamento dei beni della Banca Centrale russa all’esclusione delle principali istituzioni finanziarie russe dal sistema di scambi internazionali Swift) se non un gigantesco e calcolato “ricatto”? Cosa ci aspettavamo? Che la spirale si interrompesse per gentile concessione del destino o direttamente di quel Putin che molti leader europei descrivono – nelle stesse relazioni istituzionali che oggi l’UE vorrebbe preservare sul terreno di quei rapporti commerciali che continuano a essere così essenziali – come un semplice criminale di guerra?
Si badi bene: nessuno pensa che Putin e la Russia non portino responsabilità atroci e ingiustificabili nell’aggressione di febbraio e dunque nessuno pensa che l’Unione Europea non abbia tutto il diritto di agire e reagire. Il punto vero è come lo fa e cioè riguarda il senso e l’orientamento strategico di queste azioni e di queste reazioni.
La mia impressione è che l’Europa cammini, un po’ per inerzia e un po’ per disciplina atlantista, sulla strada perigliosa di una guerra da armare, combattere e vincere sul campo (ricordiamo: contro una potenza nucleare) a ogni costo.
Non invece sul terreno di un lavoro di ricostruzione diplomatica delle condizioni della pace e della stabilità internazionale, che consiglierebbe di rimettere al centro il presupposto dell’integrità territoriale ucraina insieme ai protocolli di Minsk e a una nuova riflessione sulla sicurezza dell’area da compiersi di concerto con Mosca.
Dimenticandosi delle proprie origini (quella CECA nata vincolando reciprocamente gli interessi produttivi dei Paesi fondatori e costruendo su questo patto di solidarietà produttiva ed economica sia il progetto politico unitario sia la garanzia di una pace duratura), oggi l’Unione Europea rischia di perseguire un’ambizione diversa. Il discorso sull’Europa di Olaf Scholz all’Università Carolina di Praga dello scorso 29 agosto è, con la sua propensione strategicamente oppositiva a Russia e Cina, da leggere e da studiare con attenzione.
Abbassare le armi
Ma, appunto, senza abbassare le armi da entrambe le parti, quelle militari e quelle economiche, e senza rivendicare e praticare una vera autonomia strategica europea, non solo continueremo ad avere una guerra raccapricciante nel cuore del nostro Continente. Ma da ottobre ci troveremo ovunque a fronteggiare, e in Italia più che in altri Paesi europei, anche problemi drammatici in termini di inflazione, ulteriori aumenti delle bollette per famiglie e imprese, disastri nelle catene di approvvigionamento, come ci sta dicendo l’intero tessuto industriale italiano, e conseguenti pesanti contraccolpi sul terreno occupazionale.
Problemi ulteriori, non inediti: basti vedere gli incrementi già registrati dei tassi di interesse e gli indicatori congiunturali che già oggi accendono più di un allarme (dalla diminuzione in giugno del 2,1% rispetto a maggio della produzione industriale all’inflazione all’8.4%).
E poi c’è il secondo tema, che va oltre il gas e la Russia. Manca, non da oggi, un piano europeo – condiviso e costruito con tutti gli interlocutori economici, commerciali e industriali dei Paesi dell’Unione – che indichi chiaramente qual è la direzione della transizione energetica ed ecologica.
Che dica poi chi deve farsi carico, nel frattempo, della parte più rilevante dei suoi costi e dei costi del suo rallentamento.
Per esempio: le grandi compagnie energetiche (che stanno maturando immani extra-profitti) o i cittadini, gli utenti e i lavoratori tragicamente impoveriti?
E, infine, che metta in discussione il modello generale, che affida in buona misura ai mercati finanziari, e alla loro vocazione speculativa, la determinazione dei prezzi delle materie prime e dell’energia. È così indicibile pensare che questi prezzi siano oggetto appunto di una programmazione e di una pianificazione pubblica di tipo europeo?
Lo dico incidentalmente, ma i dati occorre leggerli a fondo. Il costo delle importazioni energetiche italiane tra il 2021 e il 2022 è salito – ci ha spiegato il ministro Franco – da 43 miliardi a circa 100. 60 miliardi di aumento equivale al 3% del PIL: quindi l’aumento del costo dell’energia trasferisce all’estero 3 punti di ricchezza, azzerando l’avanzo dei conti con l’estero e riducendo le risorse potenzialmente a disposizione.
Al contempo gli effetti delle sanzioni sulle materie prime russe sono oggi – per ammissione condivisa, compreso il FMI – non decisive e non solo perché le stesse sanzioni sono facilmente aggirabili, con effetti negativi per i Paesi europei che comprano da Paesi terzi diretti importatori dalla Russia a prezzi più alti. Diversi centri studi (da ultimo il Capital Economics di Londra) sostengono che quand’anche ci fosse una riduzione del 20% delle esportazioni di gas rispetto a quanto previsto dai contratti firmati con i Paesi dell’UE, la Russia potrebbe resistere tre anni. Perché ha già riorientato i flussi (verso Cina, Egitto, India, Afghanistan e altri Paesi) e perché appunto compensa le minori esportazioni con prezzi più alti (per l’Europa, 7 volte più alti della media 2016-2019).
Questa è la dimensione del problema ed è una dimensione che impone un cambio radicale di strategia.
Mi fermo. Anche in questa campagna elettorale occorrerebbe forse, oltre al rosso e al nero, almeno un pezzo di questa analisi.