D’Attorre: campo largo non è somma di sigle, serve un partito della nazione

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Alfredo D’Attorre

L’unico vero dato politico dell’ultimo turno elettorale è l’astensione, ma, date le caratteristiche del dibattito politico italiano, da lunedì siamo tutti impegnati a cercare significati epocali in elezioni amministrative che non solo hanno visto la partecipazione di circa un elettore su due, ma in larga parte hanno riguardato Comuni medi e piccoli. Il turno amministrativo ha peraltro confermato quello che si sapeva già, ossia la crisi di Lega e M5S, oltre al fatto che nel centrodestra Fratelli d’Italia sia ormai ampiamente avviato a diventare il partito maggiore. Se proprio un altro significato politico generale può essere tratto dalle votazioni di domenica, è che il sistema maggioritario e bipolare, che in Italia negli anni Novanta era nato e si era consolidato proprio a partire dai Comuni, ormai mostra evidenti segni di usura anche nelle elezioni amministrative. Non tanto per i presunti successi del “terzo polo centrista”, che – come le analisi più serie dei dati elettorali hanno mostrato – sono vissuti più in qualche redazione giornalistica che nelle urne elettorali, ma per l’immagine di scarsa coesione e credibilità che ormai le alleanze di centrodestra e centrosinistra mostrano spesso anche a livello comunale.

Probabilmente la soluzione razionale di una riforma elettorale proporzionale resterà a questo punto un pio desiderio, anche per il serio errore politico compiuto ai tempi del Governo Conte II, quando si è dato il via al taglio dei parlamentari senza legarlo a una nuova legge elettorale. Il problema si pone ora soprattutto per il centrosinistra, visto che il centrodestra alla fine tradizionalmente trova sempre un modo per ammucchiarsi prima delle elezioni a dispetto delle divisioni politiche e programmatiche.

Parliamoci chiaro: in queste condizioni, stante l’attuale legge elettorale, il campo largo proposto da Letta, più che una scelta, è una necessità. Il punto è che la proposta rischia di risultare comunque problematica, dato che due degli interlocutori a cui si rivolge, i “centristi” e il M5S, offrono al momento “più veti che voti”, come ha efficacemente sintetizzato il vice-segretario del Pd Provenzano. Mostra ormai la corda l’idea che basti l’alleanza con il M5S per rendere competitivo il centrosinistra tradizionale, ma è ancora più surreale – sia sul piano politico sia su quello numerico – l’idea che basti rompere con Conte e fare pace con Calenda e Renzi per sconfiggere la destra.

In una situazione del genere, partire dalla geometria delle alleanze elettorali difficilmente offre una soluzione. Occorre invece una mossa politica, che rivolgendosi al Paese cambi il terreno di discussione e metta tutti, anche gli interlocutori recalcitranti, di fronte a un fatto nuovo. Questa mossa non può che farla il Pd, assieme alle forze politiche, come Articolo Uno e Demos, e alle realtà civiche e associative che da mesi stanno lavorando assieme nelle Agorà e che si propongono di costruire una lista assieme alle Politiche nel solco del Partito del socialismo europeo. Questa proposta deve avere l’ambizione di parlare a un elettorato molto più vasto delle forze che danno vita a essa. È un’ambizione, ma è ormai anche una necessità, date le dimensioni elettorali e il posizionamento politico dei potenziali alleati su cui il Pd può contare. Se anche i veti reciproci cadessero, è difficile che una coalizione con centristi e M5S, senza un architrave centrale in grado di svolgere una funzione trainante sul piano politico, programmatico ed elettorale, abbia la forza per vincere le elezioni. C’è un assoluto bisogno, in altre parole, di un soggetto centrale che abbia la forza di definire l’impronta del “campo largo”, non che venga definito solo dall’impegno di promuovere il “campo largo”. È una questione di forza elettorale, ma prima ancora di postura – per utilizzare un termine oggi in voga – nei confronti del Paese. Bisogna trasmettere agli italiani che c’è una forza che utilizza i prossimi mesi non per mettere d’accordo Conte e Calenda, ma per fare due cose fondamentali.

La prima è fare da scudo al Governo Draghi, senza sovraccaricarlo di compiti che non può svolgere, ma sostenendolo e sollecitandolo a svolgere fino in fondo la sua missione fondamentale, che – com’era chiaro fin dall’inizio e come ormai dovrebbe essere evidente a tutti – non è quella di promuovere riforme epocali in Italia, cosa impossibile data la natura della sua maggioranza, ma quella di incidere su un consolidamento della svolta europea post-Covid. Il deterioramento della situazione economica, assieme al ritorno del problema del costo del finanziamento del debito e dello spread, rende evidente quanto questa questione sia assolutamente vitale per un Paese nella situazione dell’Italia, quasi una vera e propria pre-condizione per affrontare nella prossima legislatura tutti gli altri problemi. E dovrebbe aver reso ormai evidente anche come il destino economico dell’Italia dipenda dal ruolo della Bce e dalla riforma del Patto di Stabilità europeo, non meno che dall’attuazione del Pnrr.

La seconda è costruire una proposta all’Italia per la prossima legislatura che vada oltre ciò che può fare il Governo Draghi in questi mesi. E questa proposta non può che avere al centro il lavoro e la questione sociale, superando definitivamente l’idea che il recupero di un rapporto con i ceti popolari possa essere delegato al M5S. Così come non è affatto detto che la rappresentanza di un pezzo delle forze produttive debba essere affidato ai “centristi”, se c’è una forza in grado di spiegare che l’Italia della produzione e dell’impresa può ripartire, in una globalizzazione che sarà diversa da quella del passato, solo se torna a investire sulla formazione e sulla qualificazione del lavoro, e non sulla sua svalutazione e precarizzazione.

Una forza che svolgesse queste due funzioni sarebbe molto vicina all’idea del “partito della nazione” che anni fa Alfredo Reichlin teorizzò. Vi era in lui la convinzione che un partito del genere dovesse aver ben chiaro chi si proponeva di rappresentare, la sua base sociale, i suoi interessi, i suoi valori, ma che sapesse farlo tenendo mettendo sempre al centro l’interesse nazionale. Sono noti i fraintendimenti e le strumentalizzazioni a cui questa idea di Reichlin andò incontro, al punto da indurlo a chiarire qualche tempo dopo che “questa linea è esattamente il contrario della linea trasformista di un partito senza storia e senza ideologia, che prende i voti dove li trova”, quel catch all party all’italiana che qualcuno pensava di realizzare nella stagione dell’anti-politica e della rottamazione. Con al centro una forza che svolgesse la funzione del “partito della nazione” come inteso da Reichlin, il campo alternativo alla destra diventerebbe non solo più largo, ma anche più credibile di fronte alla sfida del governo, perfino a prescindere da ciò che decideranno i suoi potenziali alleati.