di Simone Oggionni
Da sempre la storia, e ancora di più la sua lettura e interpretazione soggettiva, la memoria, è strumento di contesa politica. Del resto, da Polibio a Gramsci, non è mai sfuggita la relazione osmotica tra le due dimensioni, tra la politica e la storia. Occorrerebbe tuttavia non approfittare di questa evidenza e di questa prassi, mettendo al riparo, fin dove è possibile, la storia, e la storiografia, dal rischio della banalizzazione e della strumentalizzazione. Malgrado alle spalle della mozione parlamentare presentata dai deputati Raciti, Romano e Nardelli Piccoli ci siano studi e approfondimenti di assoluto valore, come dimostra il coinvolgimento nella stesura del testo del professor Andrea Graziosi, mi pare – lo affermo con il massimo del rispetto e della cautela – che questa operazione non sia esente né dal rischio della banalizzazione né da quello della strumentalizzazione.
Qual è l’obiettivo della mozione, presentata alla Camera mercoledì pomeriggio? Spingere il Parlamento italiano a riconoscere come genocidio il cosiddetto Holodomor, e cioè la morte per carestia tra il 1932 e il 1933 di un numero strabiliante (gli storici affermano superiore ai 3 milioni) di ucraini. Perché considero un errore suggerire che la più alta assemblea rappresentativa italiana debba giungere ad affermare, con l’assertività tipica delle mozioni, questa particolare tesi storiografica? Per due ordini di ragioni.
La prima, la più importante, e con diversi corollari che andranno spiegati: il genocidio è tecnicamente qualcosa di preciso. Non è un sinonimo di massacro o di tragedia. Indica espressamente la scelta deliberata e consapevole di programmare e praticare lo sterminio (o la distruzione, in tutto o in parte) di un gruppo etnico, religioso o nazionale. Così si esprime la «Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio», adottata dalle Nazioni Unite nel dicembre 1948. L’accento va posto non tanto sul primo corsivo, che integra nella definizione la volontà generale di sterminio con il massacro parziale; quanto sul secondo, che riconduce il genocidio precisamente alla dimensione etnica, religiosa o nazionale dell’evento. Si badi: non sociale o di altro tipo, ma precisamente etnica, religiosa o nazionale. La comunità scientifica di storici (ucraini, russi, occidentali) che si è meritoriamente occupata, a partire dalla metà degli anni Ottanta, dell’Holomodor non è concorde sul suo significato (o valore) genocidiario. Nessuno nega né sminuisce i fatti (sulle cifre si è piuttosto sviluppato negli anni un dibattito interessante, che gravita intorno a calcoli demografici non certo semplici), ma in diversi mettono in discussione l’argomento che dovrebbe sorreggere l’identificazione del fatto con il genocidio: e cioè la presunta volontà deliberata di Stalin di uccidere milioni di persone in quanto ucraini.
Del resto, che l’Holomodor sia collocato all’interno di quelle che la storiografia definisce come le «grandi carestie del 1931-1933» è un fatto incontestabile.
Che queste grandi carestie abbiano prodotto diverse centinaia di migliaia di vittime anche al di fuori dell’Ucraina, in altre aree geografiche, dal Kazakhistan al Caucaso settentrionale, alla regione del Volga, è un secondo fatto indiscutibile.
La domanda a cui dobbiamo tentare di rispondere è allora se queste grandi carestie, e anche specificamente quella ucraina del 1932-’33, siano state concepite da Stalin con lo scopo di distruggere il popolo ucraino oppure no. Se la risposta è sì, è genocidio. Alcuni dei sostenitori di questa tesi, affermano persino che esso sia stato pianificato prima dell’autunno 1932 per risolvere alla radice la «questione nazionale» ucraina. Le argomentazioni addotte appaiono francamente deboli e di carattere prevalentemente ideologico.
Se invece la risposta alla domanda è no, come penso, si deve escludere il genocidio e si deve indagare la complessità del fenomeno e delle cause che l’hanno determinato.
Senza pretese di esaustività, alcuni aspetti possono essere ricordati.
Alla base delle grandi carestie vi fu una pluralità di fattori. Cause naturali (come la diffusione del tifo, la siccità, che falcidiarono contestualmente anche le regioni non sovietiche della Galizia, della Rutenia carpatica, della Bucovina polacca), sulla cui esistenza nessuno obietta. E gli effetti di una scelta politica, segnatamente di politica economica: la svolta compiuta da Stalin già nel 1927 nella direzione della collettivizzazione forzata delle campagne, funzionale a drenare risorse e investirle nel mastodontico sforzo di industrializzazione e modernizzazione immaginato per l’intera Unione Sovietica (uno sforzo che sul lungo termine riuscirà, portando nel decennio l’Unione Sovietica a incrementare il proprio Pil pro capite del 61%, in un periodo nel quale la crescita nell’Europa occidentale raggiungeva circa l’8%).
Le carestie del 1931 e del 1932 sono, anche in Ucraina, il frutto – che va considerato imprevisto e indesiderato – della iniziale applicazione concreta di queste scelte. Se è così, a meno di ritenere che l’obiettivo di Stalin fosse l’auto-sabotaggio delle stesse prospettive economiche sovietiche, risulta difficile pensare a una carestia auto-indotta.
A partire dal settembre 1932 si innesta, dentro questa tragedia, una seconda tragedia. Coloro i quali si oppongono, dentro un contesto che rende ancora più necessario dal punto di vista di Stalin accelerare l’industrializzazione, sono fatti oggetto di misure che radicalizzano in maniera parossistica la condizione già diffusa di inedia e di privazione dei beni alimentari. Parliamo dei kulaki, dei contadini possidenti, e in particolare di coloro i quali si oppongono al processo di collettivizzazione e al prelievo forzoso delle derrate, l’aggressione sociale ai quali diventa l’obiettivo (potremmo dire: secondario rispetto a quello della industrializzazione e modernizzazione) di una politica che non esita a utilizzare anche la recrudescenza della carestia.
Giova ricordare, tra l’altro, che il dibattito sui kulaki e più in generale sulla questione contadina non nasce nel 1931 ma attraversa il gruppo dirigente bolscevico già all’indomani della Rivoluzione d’ottobre, nel pieno della guerra civile, con i cosiddetti Eserciti verdi di contadini armati nel 1918 contro le requisizioni dei raccolti imposti dai bolscevichi per sostentare l’esercito e le città; e poi più avanti – abbandonata la NEP – nella definizione delle prospettive possibili della pianificazione e del mercato, con una contrapposizione che vede in un primo momento Stalin e Bucharin da una parte (a favore della prosecuzione della NEP e dunque della libertà economica e di profitto individuale dei contadini) e Trotsky dall’altra (deciso ad affrontare con inflessibile rigore la questione contadina).
È solo a partire dal 1927 che Stalin si convince della necessità di una pianificazione integrale dell’economia il cui cuore è l’unificazione forzata delle terre in cooperative agricole e in aziende di Stato, nelle quali i kulaki sono prima chiamati e poi costretti a lavorare – in un’ottica generale, di sistema – rinunciando al commercio privato. Moltissimi, soprattutto in Ucraina (ma non solo: anche nelle terre dei cosacchi del Don, in alcune aree del Caucaso settentrionale) si oppongono.
Qui matura la repressione futura. Le regole rigorose e le condanne esemplari (pena di morte o lavori forzati per i responsabili di furti di proprietà collettive), le deportazioni nei gulag e anche la fame, che Stalin favorisce, a partire dall’agosto-settembre del 1932 (dopo avere tra la primavera e i primi mesi dell’estate ordinato persino una riduzione dei piani di ammasso), per fiaccare la resistenza alla collettivizzazione.
Atti atroci, che rappresentano una delle pagine più cupe dello stalinismo. Ma il genocidio – per amore di verità e onestà intellettuale – è un’altra cosa. Uno studio promosso dal prof. Giovanni Andrea Cornia e pubblicato a New York in un volume del 2020 (When Life Expectancy Is Falling: Mortality Crises in Post-Communist Countries in a Global Context, Nova science publishers) dimostra come tra il 1989 e il 2014 la fine del socialismo reale e la transizione all’economia di mercato e al capitalismo abbia causato una crisi di mortalità valutabile nell’ordine di circa 18 milioni di decessi nei paesi dell’Est Europa, di cui 12 milioni in Russia. Nessuno si sognerebbe di parlare di un genocidio contro i russi, o contro i polacchi, o gli ucraini, o i rumeni, o i cecoslovacchi. Parleremmo semmai, dovremmo parlare, degli effetti devastanti di una politica economica diretta contro alcune categorie sociali (giacché parallelamente, come ben sappiamo, altre, le cosiddette oligarchie, cioè una esigua minoranza di ricchi e super-ricchi, sono nate precisamente in quella transizione). Non intendo istituire analogie provocatorie, soltanto registrare che ogni fenomeno impone la necessità di definizioni appropriate, non estensive e non alteranti.
Non intendo neppure negare che la questione contadina fosse in Ucraina al tempo anche una questione nazionale. Ne erano consapevoli tutti, anche nel gruppo dirigente sovietico. Ma non per questo si deve definire l’approccio sovietico alla questione contadina come un approccio anti-ucraino od ontologicamente persecutorio. Né basta, per sostenerlo, il fatto che le forze della destra nazionalista ucraina dagli anni Venti del secolo scorso fino a oggi lo abbiano affermato e lo affermino.
Lo dimostrano due elementi. Il primo è legato strettamente alla politica staliniana. I dati demografici che gli storici utilizzano per quantificare il fenomeno dimostrano che, anche in Ucraina (come altrove), la mortalità (anche in quegli anni) è strettamente connessa alla residenza e non alla nazionalità delle vittime. Si muore in campagna molto più che in città, indipendentemente dall’origine etnica o dalla lingua parlata.
Il secondo elemento è legato al ventennio post-rivoluzionario. È difficile pensare a una politica univoca di sterminio genocida da parte di uno Stato e di un partito che, contraddicendo con straordinaria capacità innovativa la storia della Russia zarista, già nel 1919 con Lenin impongono ovunque – e in particolare in Ucraina – la politica di indigenizzazione (korenizacija), e cioè una politica di sviluppo, tutela e garanzia speciale (dalla istruzione a esperienze di vero decentramento amministrativo) che si accompagnerà nel 1922 all’integrazione dell’Ucraina nell’URSS con una propria peculiare autonomia. Ma è questo un tema che ci porterebbe lontano e che ci costringerebbe a parlare di molto altro, nel rapporto tra identità nazionale ucraina e Unione Sovietica, dal collaborazionismo dei banderisti con Hitler fino al seggio alle Nazioni Unite voluto da Stalin per l’Ucraina nell’immediato dopoguerra.
Ritorno al punto: esiste una seconda ragione che mi porta a esprimere molte perplessità sull’obiettivo della mozione parlamentare. È una ragione elementare, per la quale non rileva il merito storiografico, ma il significato politico.
Un significato che non sfugge a nessuno. A cosa serve tagliare un tema così delicato e complesso, di carattere storico, con l’accetta di un dispositivo parlamentare? Alcuni dei presentatori lo hanno affermato candidamente, esplicitando la strumentalità dell’operazione: serve a «sostenere il patriottismo ucraino» durante una guerra nella quale «il regime di Putin sta facendo lo stesso anche oggi» perché «allora, come oggi, si stanno compiendo atti di genocidio che devono essere riconosciuti come tali».
Ma serve – chiedo sommessamente – con una guerra in corso, fomentare il conflitto culturale, sfoderando e squadernando nuovi (e antichi) elementi di polemica e di conflitto? Non è questo piuttosto, per la politica, il tempo della diplomazia, del dialogo, dello studio?