di Pier Antonio Panzeri
Si sta svolgendo in questi giorni, la VII edizione di MED – Mediterranean, la conferenza promossa da Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dall’ISPI. Un appuntamento che la pandemia tuttora in corso – e anzi in vistosa e diffusa ripresa – rende particolarmente importante per ragionare sul futuro di un’area in cui nei tempi recenti risultano approfondite alcune delle sue storiche contraddizioni e problematiche, a cominciare da quella che vede le due sponde separarsi ancora di più in termini sociali ed economici, oltre che politici e culturali, anziché capaci di strategici avvicinamenti e positive interazioni e integrazioni.
I ponti della cooperazione, del dialogo, dello scambio e della crescita comune sono spesso interrotti e vanificati da frontiere di filo spinato e da conflitti armati, distruttivi di risorse e di prospettive. Le missioni diplomatiche cedono sovente il passo e la parola alle missioni militari, come nel Sahel o, prima, in Libia, a breve chiamata nuovamente a incerte prove elettorali. Ricostruire un paese o una democrazia è sempre assai più difficile, lento e faticoso che non distruggerli.
Quando la politica lascia il primato alle armi, e succede troppo spesso, i primi a essere sacrificati sono i diritti umani. A cominciare da quelli dei tanti che a causa di guerre, persecuzioni e conflitti, il Mediterraneo provano a traversarlo in cerca di dignità e di futuro ma vi rimangono invece per sempre, adagiati senza nome e senza giustizia nel cimitero liquido, particolarmente nella sua parte centrale.
Dei 45.359 migranti scomparsi a livello globale dal 2014 a oggi, secondo i dati dell’International Organization for Migration, oltre la metà, 22.932, sono rimasti vittime nel Mediterraneo; altri 10.786 sono gli scomparsi all’interno dei confini africani. Solo nel 2021 i morti nel Mediterraneo sono stati 1.646, in aumento rispetto all’anno precedente. Ma la stessa organizzazione chiarisce che molti naufragi sono “invisibili”, perché barche in difficoltà scompaiono senza sopravvissuti, che quindi non vengono registrati. E, sempre di più, anche senza testimoni, stante l’ostracismo nei confronti delle navi umanitarie e delle ONG, che cercano di dare il loro piccolo ma prezioso contributo umanitario verso questa tragedia epocale.
Come invisibili rimangono i fuggitivi da guerre e carestie costretti nella terra di nessuno a ridosso delle frontiere balcaniche, respinti e maltrattati dalle polizie, e che talvolta perdono la vita nella morsa del gelo.
Un po’ più visibili, da ultimo, sono quelli bloccati dal cinismo politico dei rispettivi governi al confine tra Polonia e Bielorussia, ma l’attenzione internazionale che quelle migliaia di profughi hanno ricevuto nelle scorse settimane è probabilmente più dovuta a ragioni di calcolo e schieramento geopolitico che non a una sincera e fattiva attenzione ai diritti umani. Eppure, nella gran parte, questo fiume dolente di uomini, donne e bambini proviene da quell’Afghanistan verso la cui popolazione tornata sotto il gioco talebano i governi di mezzo mondo spendevano parole di vicinanza e sprecavano promesse non più tardi di due o tre mesi fa.
È davvero possibile pensare di mettere a fuoco una “agenda positiva” per il futuro dell’area mediterranea senza che questa problematica veda la dovuta centralità e le risposte umanitarie a questo dramma trovino il necessario concerto e urgenza? Che “prosperità condivisa” è possibile pensare e costruire che non muova dai diritti umani? E che tutela dei diritti umani è assicurabile ai popoli e ai cittadini di entrambe le sponde del Mediterraneo che non si fondi anche sul contrasto dell’impunità e sull’accountability?
Pur nella complessità dei problemi, i segnali non sembrano andare in questa direzione.
Gli “Affari” Esteri non possono andare a detrimento dei diritti umani e del diritto internazionale alla giustizia, come è avvenuto per l’uccisione di Giulio Regeni e come ci è stato ricordato dalla relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta, le cui conclusioni sulle responsabilità del governo del Cairo arrivano negli stessi giorni in cui l’Italia partecipa, con proprie aziende, all’Expo militare in corso in Egitto.
La sicurezza condivisa e il multilaterismo si fondano prima di tutto sulla legalità internazionale e sul rispetto integrale di quella legge suprema che sono i diritti umani. Gli interessi economici e le alleanze politiche non possono prescinderne. Pena riprodurre all’infinito non solo le ingiustizie ma anche quelli squilibri che, a loro volta, determinano poi “guerre infinite”, in un circuito vizioso e distruttivo non solo delle convivenze ma, alla fine, anche del tessuto economico e di ogni prosperità.
La prossima settimana, il 10 dicembre, ricorre la Giornata mondiale per i diritti umani. Il modo migliore, e non retorico, per celebrarla è che l’Europa, culla di civiltà, ma più in generale le Nazioni Unite, ritrovino un ruolo internazionale e trainante centrato sulla cooperazione, sul dialogo e sulla cultura della pace, proprio a partire dall’area mediterranea e dal martoriato Medio Oriente.