Difendere i beni pubblici, tutelare i cittadini: le nostre proposte

Politica e Primo piano

Il «disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021» richiede uno scrutinio attento e si presta, complessivamente, a una valutazione articolata. Il tema della concorrenza è importante e mal si concilia con giudizi (o interventi) affrettati e generici.

Sul piano generale notiamo due limiti. Da una parte, emerge un atteggiamento rinunciatario rispetto all’obiettivo di intervenire con la dovuta incisività su alcuni settori nei quali le rendite consolidate andrebbero aggredite con maggiore coraggio. Ci riferiamo, a solo titolo di esempio, ai settori della distribuzione dei farmaci, al rapporto tra società di servizi e consumatori, alle assicurazioni.

Dall’altra parte, invece, vi è in alcuni passaggi dello schema una enfatizzazione del ruolo del mercato rispetto ad ambiti nei quali dovrebbe rimanere preminente la funzione regolatoria del pubblico. Ci riferiamo, per esempio, a quegli articoli 23 e 24 che affrontano rispettivamente il tema delle autorizzazioni e dei controlli sulle attività economiche e dai quali traspare una volontà di privare lo Stato e le sue articolazioni territoriali delle loro funzioni e che assume la forma di una generica e onnicomprensiva delega in bianco al Governo, che non tutela il Parlamento delegante neppure rispetto ai caveat in materia di sicurezza, salute, tutela dell’ambiente e del territorio, rischi di infiltrazioni mafiose.

Tuttavia, ci soffermiamo in questa sede innanzitutto sulla parte del ddl che interviene, con una previsione di delega al Governo, in materia di riforma dei servizi pubblici locali. Sebbene il testo contenga anche indicazioni convincenti (per esempio laddove propone un’idea di razionalizzazione che incentivi la creazione di dimensionamenti adeguatamente larghi, tramite aggregazione di soggetti aziendali) e sebbene i principi generali evocati siano passibili di diverse interpretazioni e, soprattutto, di diverse concretizzazioni, la lettura del testo desta preoccupazioni. Non già perché non occorra – in un contesto segnato da una certa confusione normativa – un riordino efficace e complessivo della materia; e non già perché non occorra un intervento che ci consenta di corrispondere al quadro normativo europeo, tanto più nel contesto previsto dalle condizionalità richieste dalla Commissione Europea nella procedura di attuazione del Next Generation UE. Ciò che preoccupa, piuttosto, è che le prospettive prevalenti cui si allude appaiono in linea con una visione del rapporto tra Stato e mercato che affida al primo un compito di semplice regolazione e controllo sul secondo. Al contrario, non troviamo qui traccia di quell’approccio votato all’intervento, alla programmazione e alla gestione pubblica che invece ha contraddistinto i provvedimenti del Governo in materia di investimenti e, più complessivamente, la politica economica e sociale dell’ultimo biennio.

Rispetto all’articolo 6, solleviamo in particolare due preoccupazioni:
1. La prima riguarda la riduzione ancora più stretta dei margini di ricorso per gli Enti Locali all’autoproduzione nella gestione dei servizi pubblici locali, rendendola di fatto residuale rispetto all’affidamento con gara. La possibilità di gestione in house, già contingentata dall’art. 192 del d.lgs 50/2016 (Codice dei Contratti) attraverso una previsione dell’obbligo di adempimenti particolari e complessi, ora si tradurrebbe per gli Enti Locali nella necessità di produrre «una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato» (art. 6 par. f); di trasmetterla tempestivamente all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (par.g, con un ridimensionamento dell’ANAC e un irrigidimento dell’obbligo di trasmissione); di prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (par. i); di procedere alla revisione periodica delle ragioni che hanno motivato la conferma o la scelta dell’autoproduzione. Si afferma per questa via – cioè attraverso la previsione dell’obbligo di dimostrare, da parte degli enti medesimi, le ragioni del mancato ricorso al mercato – una scelta tendenziale di affidamento ai privati della gestione dell’insieme dei servizi tradizionalmente forniti dal settore pubblico, che a nostro avviso poggia su due pregiudizi. Il primo è quello secondo cui il privato è sempre più efficiente del pubblico. Il secondo – ci riferiamo qui allo spirito dell’intero schema di disegno di legge, non solo all’art. 6 e all’intera sezione III – è che questo primato possa valere anche in quei contesti in cui la concorrenza non solo è sconsigliabile ma è di fatto impossibile, come per i monopoli naturali (risorse idriche, trasporto pubblico locale, ciclo dei rifiuti, grandi infrastrutture di rete), per i quali l’obbligo della concorrenza si esplicita nella messa a gara della gestione. Questi due pregiudizi vanno disarticolati, non soltanto perché i risultati raggiunti nella gestione privatistica dei servizi attraverso il sistema degli appalti (con il corollario, spesso, della frammentazione e precarietà nella gestione; dell’aumento dei costi; di una direzione non sempre trasparente) dovrebbero indurre a maggiore cautela, come diversi rapporti della Corte dei Conti indicano; ma anche perché pensiamo occorra mantenere – senza atteggiamenti pregiudiziali di carattere ideologico – un equilibrio sostanziale tra le diverse possibilità di affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica. La scelta dovrebbe articolarsi sulla base della verifica di criteri effettivi di convenienza (per lo Stato e gli Enti Locali, calcolando costi e benefici immediati ma anche in prospettiva – manutenzione, interventi di miglioramento tecnologico; per i gestori privati, cui andrebbero garantite remunerazioni del capitale non smisurate; per i cittadini, nella misura della qualità dei servizi e del loro costo). Al contempo, ogni processo di esternalizzazione dovrebbe ottemperare il rispetto di una serie di parametri che garantiscano ai dipendenti livelli salariali e condizioni contrattuali non inferiori a quelle garantite dalla gestione pubblica dei servizi stessi.
2. La seconda riguarda un aspetto potenzialmente ancora più pernicioso. La delega contenuta nell’articolo 6 sembra riferirsi a tutti i servizi pubblici locali, senza distinzione tra quelli a rilevanza economica e quelli sociali, privi di rilevanza economica. Ciò si evince sia dall’unico passaggio – paragrafo d – in cui sono menzionati i servizi pubblici locali a rilevanza economica in merito alla necessità di una loro ottimale organizzazione territoriale, inducendo a pensare che il resto del provvedimento concerna la globalità dei servizi pubblici (anche quelli non a rilevanza economica) sia dal paragrafo o, che fa cenno ad aspetti di raccordo con la disciplina sul Terzo settore. Qualora questa lettura fosse veritiera, saremmo di fronte a una più che discutibile invasione di campo. Innanzitutto per considerazioni relative al riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni dopo la riforma costituzionale del 2001, fissata dalla Corte costituzionale con la sentenza 204/2004, in base a cui allo Stato spetta in materia solo la disciplina relativa ai profili di tutela della concorrenza. In particolare, il richiamo all’articolo 117 secondo comma lettera p) della Costituzione ci pare forzato e capzioso e rischia di mortificare il ruolo fondamentale dei Comuni e delle Autonomie Locale nell’architettura complessiva del Paese. Ad oggi, la disciplina relativa ai servizi pubblici locali di carattere sociale consente al Comune di scegliere tra erogazione diretta (aziende pubbliche di servizi alla persona e simili), erogazione indiretta tramite soggetti privati (con il sistema dell’accreditamento o con l’affidamento di servizio pubblico previa gara) ed erogazione tramite apporto autonomo e volontario dei privati in regime sussidiario. Il paragrafo b, che prevede come criterio orientativo la «separazione, a livello locale, tra le funzioni regolatorie e le funzioni di diretta gestione dei servizi», sembrerebbe far venire meno la possibilità di una erogazione diretta.

Suggeriamo una maggiore attenzione rispetto a questi due punti proprio perché non ci sfugge la necessità, all’interno della razionalizzazione normativa prevista, di un chiarimento a) del suo ambito di applicazione; b) relativo alle definizioni delle due fattispecie ricomprese (servizi pubblici locali a rilevanza economica e servizi pubblici locali privi di rilevanza economica o di carattere sociale). Anche da questo punto di vista, con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 113 bis del TUEL (testo introdotto dal comma 15 dell’art. 35 della legge n. 448 del 2001) operata dalla Corte costituzionale (sentenza 13-27 luglio 2004, n. 272), è venuta a mancare una definizione puntuale dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica che non facilita il riordino del quadro.

Ciò che ci auguriamo e che ci impegniamo a chiedere è:
– che il tema del riordino dei servizi pubblici locali non sia terreno di offensive ideologiche privatistiche e mercatistiche;
– che si salvaguardi in maniera rigorosa la possibilità per i Comuni di gestire in house i servizi pubblici, in primo luogo quelli sociali;
– e che si rafforzino complessivamente le possibilità e gli spazi di iniziativa e di gestione pubblica dei servizi da parte dello Stato e delle sue articolazioni territoriali, anche nel rispetto dell’esito del referendum del 2011.

Quanto invece al trasporto pubblico locale e regionale, disciplinato dall’art. 7, ravvisiamo una esplicita discriminazione tra gli Enti che optano per la messa a gara dell’affidamento dei servizi e quelli che li offrono in house. I secondi sono oggetto di una previsione di decurtazione della quota parte spettante del Fondo nazionale dei trasporti. Non si afferma dunque un criterio relativo alla misurazione e al monitoraggio della qualità del servizio di TPL fornito (del tutto assente nel testo), ma un criterio fondato su di una predilezione per la messa a gara privo di inoppugnabili riscontri empirici. Un criterio che è, tra l’altro, rafforzato da una serie di impegni e previsioni di tipo persino disciplinare nei confronti dei dirigenti direttamente responsabili dell’omessa pubblicazione dei bandi di gara, sui quali il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti potrebbe esercitare il potere sostitutivo.

In relazione a questo, ci impegniamo a chiedere che si elimini questa forma surrettizia di obbligo alla messa a gara del TPL senza valutazione sulla qualità del servizio offerta attualmente nelle diverse Regioni e nei diversi Enti locali.