Gotor: gli arresti degli ex terroristi un atto di giustizia per l’intero Paese

Politica e Primo piano

Intervista a Huffington post

di Federica Fantozzi

Miguel Gotor, storico e saggista, docente di Storia Moderna all’università di Torino, è stato senatore del Pd nel 2013 per poi contribuire alla fondazione di Articolo Uno.

“Non ci può essere riconciliazione senza verità” ha detto la ministra Cartabia. Significa che il presupposto per chiudere quella pagina è l’accertamento delle responsabilità degli ex terroristi – a cui ha finalmente acconsentito anche la Francia – e solo dopo si potrà valutare la concessione di benefici di legge e altre circostanze. Quindi: non vendetta ma giustizia. Condivide?

Senza dubbio si prova a rimarginare una ferita. È stato ristabilito un principio necessario al buon funzionamento di una società: chi ha ucciso, per qualsiasi motivo lo abbia fatto, non può e non deve sfuggire alla giustizia. Una giustizia che non deve presentarsi in termini di vendetta, ma di risarcimento e di riparazione. Questo lo si deve anzitutto alle vittime, ma anche a un’intera comunità nazionale, a quei milioni di cittadini che hanno vissuto quegli anni lontani e vedono oggi l’applicazione e il rispetto di sentenze emanate in nome del popolo italiano, quindi in loro nome. Poi certo, c’è l’evidente problema di filosofia morale e giuridica di quanto questa giustizia sia stata somministrata in ritardo. Un dato di fatto, che riguarda anche lo stragismo neofascista – penso all’attentato di Brescia del 1974 – che induce a chiedersi che tipo di giustizia sia tanto tardiva e in che misura sia anche la manifestazione di una patologia.

E lo è, una giustizia in qualche modo patologica? I legali degli ex terroristi parlano di “vendetta tardiva di Stato”. Adriano Sofri si chiede polemicamente “adesso cosa ve ne fate”.

Certamente gli uomini e le donne arrestati ieri sono diventati in questi 40 anni e oltre persone diverse da quelle che erano quando hanno commesso i reati per i quali oggi vengono puniti. L’ha detto bene Mario Calabresi, il figlio del commissario Luigi assassinato nel 1972, per il cui omicidio è stato condannato come mandante il dirigente di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani: «Non provo alcuna soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo». D’altra parte è pur vera un’altra cosa: questa giustizia arriva così tardi perché gli arrestati di oggi si sono volontariamente sottratti alla pena che era stata loro comminata. E lo hanno fatto coltivando la speranza di sfuggire per sempre alla giustizia oppure di doverla subire non a 30 o 40 anni di età, ma a 70 o a 80. Questa differenza conta, hanno cioè avuto il privilegio di esercitare una scelta – vivere una vita e potersela rifare – che alle loro vittime hanno tolto per sempre. Non dovremmo dimenticarlo.

A proposito del privilegio di scegliere, Gemma Capra Calabresi, intervistata dal figlio, si è detta “in pace” ma auspica che gli arrestati “trovino il coraggio per darci i tasselli mancanti del puzzle”. In questa ricerca di verità, possiamo aspettarci rivelazioni fondamentali o ciò che conta, appunto, sono le assunzioni di responsabilità?

Non ho il piacere di conoscere Gemma Calabresi, ma se penso a una donna di assoluto valore in questo Paese, per le cose che ho letto in questi anni che la riguardano e per le sue dichiarazioni pubbliche, il suo nome è tra i primi che mi vengono in mente. Sul piano giuridico contano le assunzioni di responsabilità. Ma la verità giudiziaria, la verità storica e quella memorialistica, proprio perché le distinguiamo, non da ora, ma da qualche millennio, hanno una loro autonomia e specificità.

Quale le interessa di più?

La verità storica, in ragione del mio mestiere. E’ sempre un’approssimazione che si pone sotto forma di problema che cambia con il mutare delle domande che le diverse generazioni si pongono davanti a un fatto. Dal punto di vista storico i contributi di conoscenza che i protagonisti degli eventi possono dare è certamente interessante, ma limitato: memorie, testimonianze, apologie, conversioni e quant’altro. Ma Primo Levi ci ha insegnato, come storici, a diffidare dell’indispensabile protagonismo del testimone e dell’ambiguità del ruolo della memoria, che è uno «strumento meraviglioso ma fallace», una cosa viva che quindi cambia con noi.

Sullo sfondo di questa vicenda c’è la cosiddetta dottrina Mitterrand. E’ l’unica causa del clamoroso ritardo con cui la giustizia ha agito?

Intanto, il fenomeno relativo all’ospitalità di quanti hanno praticato la lotta armata in Italia non è iniziato sotto Mitterrand, che in realtà ha gestito con una buona dose di ambiguità – in parte concertata con le autorità di governo italiane di allora – una situazione ereditata dal suo predecessore Giscard d’Estaing dal 1974 in poi. Mitterrand ha precisato più volte che i cosiddetti «rifugiati politici», salvo che non fossero colpevoli o complici di crimini di sangue e a condizione di cessare la lotta armata, avrebbero avuto la garanzia dalla Francia di non venire estradati per essere giudicati dalla magistratura italiana. In realtà le cose sono andate diversamente. Inviterei gli amici francesi a una semplice considerazione: avrebbero mai tollerato che un loro concittadino, un appartenente ad “Action directe” o ai movimenti armati corsi, che avesse ucciso un gendarme francese e fosse stato condannato a 20 anni di carcere dalla giustizia transalpina potesse vivere a Milano o a Torino in nome del rispetto di non so quale tradizione civile e politica italiana? No, gli sarebbe parso inconcepibile.

E’ proprio questo il punto: quale percorso etico e politico ha potuto trasformare lo scarno principio enunciato da Mitterrand in un “ombrello” per condannati in via definitiva per rapine, sequestri, omicidi?

Non vedo etica, vedo interessi – reciproci – e opportunità che sono state colte. Non credo che si sia trattato di un equivoco ma di un gioco di convenienze sul filo della ragion di Stato tra due Paesi amici, ma concorrenti nell’area del Mediterraneo. E un problema che riguarda anche le autorità italiane che, nel corso degli anni, non hanno chiesto con sufficiente fermezza, per i più diversi motivi politici, il rispetto sacrosanto delle loro sovranità. In questo atteggiamento vedo la conferma di un carattere originario del nostro Paese: un’ipertrofia di politicità e un deficit di statualità. Il fatto che molti degli arrestati fossero arrivati a un passo dal vedere prescritti i loro reati ha finalmente motivato all’azione il governo italiano e quello francese: ha prevalso la volontà di mettere fine a una situazione imbarazzante e incresciosa.

La scelta originaria della Francia era basata su un pregiudizio – non accettare la legislazione sui pentiti né i processi in contumacia – oppure nella risposta dello Stato alle violenze degli Anni di Piombo c’è stato davvero un vulnus democratico?

L’Italia tra il 1969 e il 1982 è stata presa in un turbine senza respiro, subendo una gragnuola di colpi metodici, feroci e devastanti che hanno certamente condizionato la qualità della nostra democrazia e il tempo presente che viviamo. Penso che si debba sottolineare soprattutto la capacità di resistenza e la tenuta democratica di un Paese. Non so quante altre democrazie sarebbero state in grado di sopportare il processo di destabilizzazione vissuto dall’Italia rimanendo se stesse. Come vede, sono inguaribilmente “degregoriano”: «Viva l’Italia che resiste, L’Italia con gli occhi aperti nella notte triste»…

Secondo alcuni commentatori, con l’operazione Ombre Rosse si è arrivati infine a una lettura europea condivisa del fenomeno del terrorismo degli anni 70. Una rielaborazione forse incentivata dalla nuova minaccia comune del terrorismo islamico. Lei che ne pensa?

Non penso. Nel senso che prima di pensare avverto il bisogno di capire e serve un po’ di tempo. Certo, vedendo i volti invecchiati degli arrestati e mettendoli al confronto con le foto segnaletiche della loro gioventù si capisce davvero che è passato tanto tempo: ci guardano da un altro secolo e sono dentro la storia di un Novecento perduto come mentalità, ideologia e modo di essere. Se si vuole per davvero suturare quelle ferite non bastano giustizie lontanissime troppo differite e neppure sono sufficienti le pur necessarie memorie delle vittime. Serve la storia, con il suo fragile ma tenace approssimarsi alla verità, che richiede distanza e lucidità di sguardo.