Oggionni: riprogrammare e riprogettare la nostra democrazia

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington post

di Simone Oggionni

Recensire Progettare l’uguaglianza. Momenti e percorsi della democrazia sociale (Mimesis, 2020) non è semplice. Il libro, curato da Mattia Gambilonghi e Alessandro Tedde, due giovani studiosi e militanti della mia generazione, è una raccolta molto organica, molto ben congegnata, di saggi di diversi autori che si interrogano — dentro una prospettiva comune — sul senso e sul significato dello Stato sociale, sulla sua storia, sulle sue caratteristiche e le sue trasformazioni.

Mario Barcellona ha scritto nella prefazione che si tratta di un libro sul Novecento. È vero, è in larga parte così. Il cuore del volume è infatti un ragionamento sulle premesse, ma anche sulle aporie e le diverse letture che nella prima metà del secolo scorso anticiparono la struttura di quella che gli autori definiscono la «democrazia sociale» caratterizzante l’Europa dei trent’anni gloriosi.

Ma la forza di questo testo è anche l’inquadramento di quel cuore dentro processi di lunga durata, che hanno riguardato sia l’ordine sociale (i meccanismi di relazione tra politica, industria, ciclo economico) sia l’ordine costituzionale, con una radicale evoluzione dello Stato liberale di diritto, della concezione liberale della libertà e della democrazia nella direzione di un coinvolgimento — costituzionalmente definito e sollecitato — delle classi popolari, superando un’impostazione sacrale del diritto alla proprietà privata a favore di un concetto di Stato come promotore, organizzatore, leva dello sviluppo della persona e del principio di eguaglianza, finanche sostanziale.
Lo scrive bene Gambilonghi nel suo lungo saggio, richiamando Herrera e il suo «costituzionalismo del sociale». In questo senso il costituzionalismo democratico si evolve, acquistando un atteggiamento più avanzato rispetto al potere economico e «indirizzando  — scrive Gambilonghi — la propria ambizione normativa anche nei suoi confronti». Al punto che il rapporto tra Stato e società civile si capovolge dentro una dinamica espansiva che apre lo spazio al pensiero socialista e alla sua capacità di collocare — in Occidente — il nodo teorico dell’eguaglianza sostanziale e del governo operaio. Di farlo in termini nuovi, traducendo in chiave costituzionale e democratica il concetto di «rivoluzione».

In questa direzione ho trovato puntuali e molto acute le analisi sull’insieme della Costituzioni dell’immediato dopoguerra, dalla Costituzione della Quarta Repubblica francese a quella italiana (Alessandro Tedde), in relazione alla quale viene giustamente richiamato Mortati e la sua attenzione, ancora una volta, per quella tensione alla dimensione sostanziale dell’eguaglianza che è (nel connubio tra il primo articolo e il secondo comma del terzo) l’essenza più profonda della nostra Legge fondamentale.

Ma questa concezione dei diritti, della libertà, della persona — in chiave positiva, costruttivistica — è soltanto la premessa, appunto, la base costituzionale, per la trasformazione economica, sociale e istituzionale di cui l’Europa è stata protagonista nei trent’anni gloriosi.

Una trasformazione talmente profonda e organica che fa dire che l’intera esperienza delle democrazie sociali è da considerarsi come una vera e propria forma politica e di Stato «dotata di una propria logica complessiva e di una propria specifica razionalità».

Per questo la riflessione sulla fine di quei trent’anni e sul nuovo modello nel quale siamo immersi è ancora più cogente. E fa bene Giovanni Messina nel suo saggio a interrogarsi sul neoliberalismo e sulla governance come paradigma dello Stato postmoderno. Sul declino dello Stato sociale con i suoi corollari: dalla sostituzione negli studi e nelle ambizioni progressiste del progetto dell’eguaglianza con l’attenzione alla povertà allo spostamento del focus politico dalla sovranità alla microfisica del potere (Gusmai).

Questo è il punto che meriterebbe non solo un saggio ma un nuovo volume. Dopo i trent’anni nei quali costituzionalismo democratico, programmazione economica, intervento statale e — appunto — democrazia sociale hanno convissuto nella forma avanzata di un compromesso organico, cosa è accaduto? O meglio: cosa è rimasto in piedi e quali fondamenta sono da considerarsi irrimediabilmente corrose?

Penso che la serietà del lavoro fatto da Gambilonghi e Tedde, il loro porre l’attenzione sulle caratteristiche peculiari, sui pilastri della democrazia sociale, ci offra strumenti adeguati anche per rispondere agli interrogativi aperti. O quantomeno per aprirne altri.

Se la democrazia sociale è stata il compiersi di un sistema di governo dell’economia fondato su forme di pianificazione, programmazione e controllo, in che misura e in che modo questo principio può sopravvivere alla crisi del neo-liberalismo?

E se la democrazia sociale è stata — con diverse sfumature (dal sistema tedesco a quello svedese, per intenderci) — un sistema di relazioni industriali fondato sul dialogo tra Stato e parti sociali, in che misura ciò è replicabile al tempo della crisi della rappresentanza sociale? Un interrogativo, questo, che vale a maggior ragione sul terzo pilastro individuato nella descrizione dello Stato sociale del trentennio glorioso, e cioè il rapporto fecondo tra Stato e partiti di massa, che è oggi in clamorosa crisi verticale.

Ecco il punto, forse: per innervare una nuova stagione di democrazia industriale e sociale (sempre tesa — come scrive Gambilonghi — all’ambizione dell’auto-governo e dall’allargamento degli istituti di democrazia) occorre dare vita a una profonda riforma del sistema dei partiti e dei corpi intermedi. Non basta difenderne la centralità e la insostituibilità. Occorre rivitalizzarli con forme, pensieri, protagonisti di questo tempo e non di quello passato.

Robotizzazione, informatizzazione, un certo tipo di globalizzazione hanno disarmato — tanto a livello materiale quanto a livello sovra-strutturale, di immaginario — il lavoro e la forma sociale e collettiva dell’iniziativa politica. Non si tratta, come nota Barcellona, di cambiamenti contingenti o ancillari. Si tratta del tramonto di «un grande orizzonte dell’Occidente», l’idea che possa esistere un ordine e un progetto di «razionalità sociale generale». Per questo occorre ritematizzare l’eguaglianza. In altre parole: occorre riprogrammare, riprogettare la nostra democrazia.