Guerra: contro la disuguaglianza di genere i bonus non bastano

Politica e Primo piano

Intervista a L’Espresso

di Gloria Riva

Maria Cecilia Guerra, economista, sottosegretaria al ministero dell’Economia e delle Finanze, esponente di Leu, in un’audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato ha lanciato l’allarme di un aumento della disuguaglianza di genere nel mondo del lavoro durante il 2020. È tutta colpa del Covid? «La pandemia ha avuto un’influenza negativa sul lavoro femminile. Un danno che, anche a livello internazionale, gli economisti hanno definito Shecession, fusione di She e Recession, evidenziando come la recessione provocata dal Covid colpisce più le donne che gli uomini. Questo accade perché le donne sono maggiormente impiegate nel terziario (alberghiero, ristorazione, vendita al dettaglio) e in forme occupazionali precarie (part time spesso involontario e a termine). Risultato: il tasso di occupazione delle donne è sceso al 48,5 per cento nel terzo trimestre del 2020, al di sotto della soglia del 50 per cento, che era stata faticosamente raggiunta nel corso degli anni. Ancora più drammatica la situazione delle giovani: tra i 15-34 anni il tasso di occupazione è del 33,2 per cento, meno tre punti sul 2019. Dall’altro lato le donne, ampiamente occupate nella scuola e in sanità, sono state direttamente esposte nella gestione del Covid e coinvolte nelle peripezie della didattica a distanza».

Due le misure messe in campo dal governo nel 2020: il bonus babysitter e il congedo parentale straordinario. Sono serviti?

«Sono state un’arma a doppio taglio. Il congedo parentale Covid-19, che prevedeva che il lavoratore restasse a casa per 15 giorni (cui ne sono stati aggiunti 15 ulteriori) con uno stipendio dimezzato, è stato richiesto nel 79 per cento dei casi da donne, per lo più tra i 35 e i 44 anni. Se da un lato ha permesso alle famiglie di far fronte alla chiusura delle scuole, dall’altro le donne sono state svantaggiate sul fronte occupazionale».

La paternità obbligatoria nella legge di bilancio 2021 è stata estesa da 7 a 10 giorni, in linea con le direttive europee. È sufficiente al fine della parità di genere?

«L’Italia è intrappolata da anni nel binomio bassa fecondità-bassa partecipazione femminile nel mercato del lavoro: le due dinamiche sono profondamente legate l’una all’altra. Già lo scorso anno si era tentato di estendere il congedo di paternità, ma le scarse risorse in finanziaria l’avevano impedito, dal momento che ogni giorno in più di congedo costa circa 50 milioni di euro. Quest’anno, per via dell’emergenza Covid e senza i vincoli del pareggio di bilancio è stato possibile estendere il congedo a 10 giorni. La direzione è quella giusta, anche se ci si muove ancora troppo lentamente. L’obiettivo è educare alla responsabilità famigliare dei padri e renderla possibile, riducendo ad esempio lo stigma che colpisce un papà quando chiede un permesso per badare al figlio. La reazione dei superiori e dei colleghi spesso è quella di chiedersi se questo bambino non abbia una madre! Per bloccare gli stereotipi di genere è necessario rafforzare il congedo obbligatorio per i padri, magari non arrivando ad equipararlo a quello materno, ma almeno portandolo a un mese».

È possibile entrare nello specifico delle proposte contro la disuguaglianza di genere che verranno presentate a Bruxelles all’interno del piano Recovery Fund?

«Abbiamo ragionato molto sul fatto che la difficoltà delle donne di accesso al mondo del lavoro è strettamente legata allo squilibrio fra lavoro di cura e professione. Quindi, all’interno di Next Generation Eu, molto spazio è dato alle infrastrutture sociali rivolte a bambini, disabili e anziani non autosufficienti, su cui si investono 4 miliardi, e soprattutto alla costruzione e ricostruzione di asili nido, che oggi sono solo un quarto di quelli che servirebbero e a cui sono dedicati altri 3,6 miliardi. La nostra idea è che, costruendo nuovi asili e riqualificando quelli esistenti, raggiungiamo tre obiettivi: liberiamo tempo per le donne, da dedicare al lavoro; creiamo posti di lavoro di qualità; e riduciamo i divari di opportunità di cura ed educazione, che sono alla base dei processi di riproduzione e ampliamento delle disuguaglianze. Questo investimento è accompagnato, in legge di bilancio, dalla creazione di un fondo permanente che quest’anno verrà finanziato con 100 milioni, ma andrà aumentando nei prossimi anni, per diventare di 300 milioni a regime, da destinare ai comuni più in difficoltà sul fronte della prima infanzia, per l’assunzione di educatori ed educatrici e per le spese correnti relative agli asili nido».

Fra le misure introdotte in tempi di Covid c’è stato anche il bonus babysitter, ribattezzato bonus nonni, perché in Italia la cura dei bambini viene spesso affidata proprio a loro. Si stima che questo porti a un risparmio per le famiglie di circa 13-14 miliardi. Detto altrimenti, sono un sacco di soldi sottratti all’economia. Che ne pensa?

«I nonni sono diventati l’unica garanzia per le mamme di poter continuare a lavorare, ma questo, quando va oltre la libera scelta di passare tempo con i nipoti, significa privare gli anziani di spazi propri e di godersi questa fase della vita. Favorire la creazione di posti di lavoro di cura consente di liberare i nonni dall’obbligo di badare ai nipoti, favorendo per altro l’economia complessiva».