Tozzo: cento di queste radici, Partito comunista italiano

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di David Tozzo

Il 25 aprile 1945, giorno dopo il primo anniversario della Liberazione, Umberto Terracini giunge a Roma ed entra nella stanza di Togliatti, in quel momento seduto alla scrivania. Palmiro, alzando lo sguardo, dice a Umberto «Ciao! Siediti, sono subito da te» rimettendo lo sguardo sulle carte che stava osservando.

Parrebbero passate poche ore dal loro precedente incontro, sono invece passati vent’anni, le incarcerazioni, i confini, i campi di lavoro, il nazismo, il fascismo, la Seconda Guerra Mondiale.

Il 21 gennaio 1921, ultimo giorno del XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, si consumò la scissione che vide nascere per volontà tra gli altri di Bordiga, Gramsci, Terracini e Togliatti il Partito Comunista d’Italia.
Era l’alba, più nera che dorata, del fascismo, altresì a suo (malo, mussoliniano) modo figliastro illegittimo delirante e deragliante del socialismo che pressato da pulsioni irresistibili tra Resistenza e rivalsa non poteva, probabilmente, reggere tali strappanti smottamenti nelle direzioni più diverse, nelle modalità più dolorose. Era epoca di passioni forti à la Bombacci, in luogo delle odierne tristi à la Benasayag. Era il tempo di partiti rivoluzionari e clandestini, di carceri e confini, non di compromessi né di compromissioni; il terzo dei dieci punti di principio del primo programma comunista recitava, senza titubanze, timidezze o tantomeno tenerezze: «Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese».

Da allora è cambiato il mondo in più d’un modo e momento, sono cambiate le ragioni sociali e i blocchi, sociali, di elezione e riferimento, di elaborazione e rivendicazione, e oltreché la pelle e il nome è cambiato anche un po’ il colore, il cuore e il campo ove insiste l’eredità di quel rettile un po’ giraffa, ircocervo un po’ umano o forse troppo, pertanto paradossalmente quanto inevitabilmente normalizzato, neutralizzato, anestetizzato come una bestia pericolosa quanto paradossalmente umanissima, e pertanto sì, potenzialmente letale per il disumano Capitale.

Questa strana bestia comunista ha comunque resistito a ogni eversivo tentativo di estinzione, nella sua evoluzione è mutata, muovendo dalla clandestinità alla svolta di Salerno, con un Togliatti ambiguo quanto abile nel suo sovietico sussiego, a un Berlinguer col suo posizionamento eurocomunista più avanzato del Continente, a consacrare laicamente il Partito Comunista Italiano come avanguardia e anomalia più grande e forte al di qua dello spazio della cortina di ferro, al di qua del tempo del crollo del muro.

Con esso a venir giù definitivamente è stata la possibilità della contemporaneità comunista, che se per un tempo lungo – un tempo tutto: dall’1 giugno del 1947, De Gasperi IV, alla propria dissoluzione il 3 febbraio del 1991 – s’era (ed era stata) confinata al non potere, adesso veniva condannata al non presente.

Successivamente, nel succedersi rapido e un po’ ramengo delle sigle e delle storie brevi e brevilinee, si passa dalla febbre della rivoluzione al virus del governismo, dell’orizzonte rivoluzionario all’ossessione istituzionale, dall’opposizione ad ogni costo al governo a tutti i costi, dal potere come aggettivo al potere come sostantivo.

Con coerente incoerenza, non potendo più rappresentare un blocco sociale ben preciso (e nutrito) come proletariato e sottoproletariato, essendosi spappolato tutto, sparpagliati tutti, l’erede più recente e rilevante in termini numerici del PCI, il Partito Democratico, prende a rappresentare da un lato le élite, da un altro sé stesso nelle espressioni più apical-cetuali. Null’altro. Autoconservazione del sé come strategia, conservazione dello status quo come tattica, liberal-riformismo più goffamente benevolente dell’originale (la destra liberale) come programma. Nulla.

No, non era il programma, tantomeno l’orizzonte, del PCI.

Il filo rosso che rotolandosi cent’anni arriva a noi dev’essersi in qualche modo perso, strada per strada, non potendolo ravvisare né in grandi e grossi ma in effetti rachitici riformismi raffermi né in incantesimi inconsistenti di formazioni extra-parlamentari lanciatissime verso l’inesistenza, anzi, già lì, già da sempre.

No, il sentiero non è né quello del riformismo né quello dell’estremismo, la strada è quella di un radicalismo di conio nuovo perché nuovo è il campo, il tempo, e non meno radicali sono le sfide del ‘qui’ e ‘ora’, a cui nel XXI secolo non possiamo che alzar sguardo e aggiungere: “ovunque”.

Irreprensibili comunisti, intellettuali liberi, magnifici mostri sacri come i compiantissimi compagni Gramsci, Terracini, Macaluso non avrebbero voluto vedere raccolto alcun testimone o eredità d’altra parte ormai dilapidata, sprecata, sbagliata, perché il tempo è altro e loro guardavano ancor più lontano di cent’anni, no: avrebbero desiderato, desideravano ardentemente, che il presente fosse radicalmente stravolto, e che per dirla con un altro eretico compagno, Sankara, si osasse inventare il futuro.

Che d’altra parte ha radici antiche. In cammino, saremo subito da te.