Bersani: quando sono stato male ho avuto paura di fare la fine del pirla

Politica e Primo piano

Intervista a Sette

di Tommaso Labate

«In fondo, che cos’è il rock?». Qualche minuto dopo aver concluso l’intervista, Pier Luigi Bersani sente che qualcosa gli è sfuggito. Come se a quel piccolo grande racconto che aveva scandito i tempi di una conversazione durata più di un’ora gli esordi nel consiglio regionale dell’Emilia-Romagna all’inizio degli anni Ottanta, la prima volta che ha fatto il ministro negli anni Novanta, le lenzuolate riformiste fatte approvare a fari spenti dieci anni dopo, la «non vittoria» alle elezioni del 2013, il «coccolone» che lo stava strappando alla vita nel 2014 mancasse un dettaglio, una nota esplicativa, un bugiardino. Richiama. E dice: «Il destino ha voluto che ogni momento importante della mia vita nelle istituzioni fosse accompagnato da un concerto rock. Il rock, in fondo, è quella dissonanza che corregge il mainstream, quel tono di vivacità che interviene sulle cose convenzionali rendendole più comprensibili, e anche più belle». Nel corso della chiacchierata viene fuori che l’ispiratore di quello «stile Bersani» che amici e avversari gli riconoscono, e che l’ha portato a essere un personaggio quasi immune dall’attacco degli odiatori, non è un altro politico. Ma Keith Richards, il chitarrista dei Rolling Stones.

Bersani, iniziamo da una data. 27 giugno 1980.

«È il giorno in cui si insedia il consiglio regionale dell’Emilia Romagna in cui ero stato appena eletto, per la prima volta. Quando mi comunicano la data, non la prendo bene. Con tutti i giorni che c’erano, dico io, proprio quello?».

Perché?

«Avevo comprato da mesi i biglietti per il concerto di Bob Marley allo Stadio San Siro di Milano».

Un concerto leggendario.

«Non l’avrei perso per nulla al mondo. Inizia la seduta del consiglio regionale, stavo fremendo perché più passavano le ore, più il rischio di perdere il concerto si faceva concreto. Ce la faccio per un pelo: mi infilo con giacca e cravatta in un pullman di “smandrappati” che parte da Bologna ed è diretto allo stadio di Milano. Arrivo per tempo ma ovviamente ero vestito da consigliere regionale, non avevo fatto in tempo a cambiarmi. Sul prato di San Siro c’era un odore di hashish che si moriva; ovviamente, vestito in quel modo, tutti mi scambiavano per un questurino. E io stavo al gioco, vivevo quel sogno collettivo e intanto mi aggiravo tra la gente simulando uno sguardo inquisitorio, unico con la giacca tra ottantamila persone. Sarebbe successo altre volte».

Che cosa?

«Che un concerto rock si sovrapponesse ad appuntamenti istituzionali cruciali per la mia vita. Nel 1994 il consiglio dell’Emilia Romagna mi elegge presidente della Regione. Mi ero messo in testa di ridurre il numero degli assessori e di sceglierli di testa mia. Si immagini il delirio che c’era, tutti arrabbiati, un susseguirsi di riunioni di maggioranza, tensione alle stelle. A un certo punto, dico “vabbè io vi saluto, me ne vado al Palasport”. Gli altri pensavano che scherzassi invece era vero, avevo il biglietto dei Guns’n roses, che quella sera suonavano a Casalecchio di Reno. L’edizione locale di Repubblica il giorno dopo titolò in prima pagina “Rose e fucili per Bersani”. Il giorno dopo, però, erano solo rose… Due anni dopo, altro momento cruciale, altro concerto. Prodi mi chiama per fare il ministro dell’Industria nel suo primo governo. Visto che era stata approvata la nuova legge elettorale per le regioni, c’era un dilemma interpretativo: le mie dimissioni da presidente della Regione avrebbero comportato un ritorno alle urne oppure no? Dico a tutti: se non si deve tornare al voto, vengo a fare il ministro; se invece questo comporta le elezioni anticipate in Emilia-Romagna, rimango a Bologna. La sera che c’è una riunione decisiva tra i costituzionalisti del centrosinistra, mollo tutto e vado a vedere il concerto degli Ac/Dc e stacco anche il telefono».

Dieci anni dopo, col governo Prodi II, avrebbe ideato le famose «lenzuolate» che avrebbero cambiato la vita degli italiani. Riforme di cui ancora si parla, non accompagnate da alcun effettivo annuncio.

«Ha presente Keith Richards? Se ascolta bene i Rolling Stones, scoprirà che il chitarrista gioca sempre d’anticipo. È una frazione di secondo ma quell’anticipo c’è, cambia il senso del pezzo, del disco, del concerto. Io faccio così, ho sempre cercato quell’anticipo alla Keith Richards nella mia vita. Non è che lui dicesse “ah, zitti tutti, adesso parto con l’assolo di chitarra”. No, lo fa e basta. La riforme si fanno così, come gli assoli di Richards».

Se fosse diventato premier, nel 2013, si sarebbe mosso in questo modo?

«Avevo detto che la prima riforma sarebbe stata lo ius soli. Dove sarebbe stata la mossa d’anticipo, in questo caso? Avrei riunito il primo consiglio dei ministri, che solitamente si riunisce giusto per le presentazioni. E invece io, da quella prima riunione, sarei venuto fuori col provvedimento».

Da dove nasce il bersanese, quel linguaggio che ha portato all’ormai celeberrima «mucca in corridoio»?

«Vede, quando ero giovane parlavo da schifo. Laurea in filosofia, militanza politica, pensi che cosa poteva venire fuori. Non mi capiva nessuno. Poi ho capito che parlare chiaro non è una questione di linguaggio ma una vera e propria scelta morale. Le riforme dovevi spiegarle a quelli che fanno vite normali, perché l’establishment le conosceva già».

Cosa ricorda del 5 gennaio 2014, il giorno in cui ha rischiato di morire per un’emorragia cerebrale ?

«Che stavo in ambulanza, vigile ma ormai cosciente del pericolo di vita, visto l’agitarsi del personale medico e paramedico attorno a me».

È vero che in questi casi passa tutta la vita davanti?

«Nel mio caso pensavo solo a una cosa. “Se non mi salvo, muoio da pirla. Diranno tutti, quel Bersani è stato un pirla”».

E perché?

«Perché, convinto della necessità di qualificare le strutture sanitarie, ero stato io a non volere il reparto di neurochirurgia a Piacenza. L’eccellenza doveva essere a Parma, purché avesse in rete i dati di ciascuno in tempo reale dalle province vicine. Fossi morto nel viaggio disperato tra Piacenza a Parma, sarebbe stata la sconfessione di un modello. Sarei stato un pirla, appunto. Morto e pirla insieme. Invece arrivo all’ospedale di Parma ed erano già tutti pronti a operarmi, con tutti i miei dati e con l’assoluta eccellenza. Tantissimi altri si sono salvati così. Diciamo che la bontà di un modello di organizzazione l’ho testata in prima persona. E ha funzionato».

Tornerà mai nel Pd?

«Devono cambiare molte cose, il Pd dovrebbe correre rischi e investire sul proprio consenso arrivando a raggiungere anche quelli che stanno fuori. Altrimenti, il consenso di oggi finisce che lo perdi e vincono le destre. A queste condizioni, sì. In caso contrario, torno o non torno, non cambia nulla».