di Arturo Scotto
Caro Alessandro De Angelis, con grande franchezza: non sono d’accordo con te e proverò a spiegare perché questa volta nutro un dissenso profondo rispetto a quanto scrivi. Vedo come te i limiti dell’azione di governo, le difficoltà di una coalizione frammentata, le coesistenza di progetti strategici ancora troppo diversi. Tutte cose vere, indiscutibili, che erano evidenti già nell’atto di nascita del Governo Conte II. Che questa esperienza non sarebbe stata una passeggiata era scritto dal giorno del giuramento dei ministri al Quirinale. Il suo contratto sostanziale si reggeva su un’impianto puramente emergenziale. Nasceva come un governo di resistenza, figlio della paura (sì, paura) che la Lega chiamasse il banco, portando l’Italia fuori dal consesso delle democrazie liberali. Era il patto tra le forze che provenivano dalla migliore tradizione repubblicana, gli eredi (non sempre all’altezza, ahimé) dei partiti costituenti e un populismo antiestablishment che improvvidamente era stato lasciato saldare con il sovranismo nazionalista.
Mi dirai, non si può governare per evitare che il nemico vada al potere, soltanto con l’obiettivo di rinviare un verdetto popolare già scritto. Io non la penso così. Quando la democrazia viene messa sotto attacco da un signore che chiede i pieni poteri, si può. Anzi, si deve. E si fa col compromesso, con la politica delle alleanze, con convergenze tra diversi e lontani, perché una vecchia scuola ci sussurra che nemmeno col 51 per cento si può governare un paese complesso come l’Italia. Con buona pace di una vocazione maggioritaria che mi è sempre apparsa poco più che una masturbazione politologica. Un paese che – come si vede anche in questo passaggio – nel corso degli ultimi anni ha visto progressivamente erodersi qualsiasi principio regolatore, perso tra i numerosi conflitti di potere irrisolti di una troppo lunga transizione della Repubblica: stato-regioni, magistratura-politica, sovranità nazionale-vincolo europeo. Il governo giallorosso arriva al suo compimento in un clima di logoramento delle istituzioni repubblicane, di indebolimento delle sue articolazioni periferiche, nell’Italia che si manifesta nel pieno della sua drammatica decadenza con un ponte che va giù, mietendo vittime innocenti e manifestando un cortocircuito impressionante tra interessi pubblici, sicurezza dei cittadini, capitalismo parassitario. Questa è l’Italia che stiamo governando. Questa è l’Italia dell’accordo tra centrosinistra e Cinque Stelle.
A questo governo è caduto addosso un macigno gigantesco nel momento in cui stava cominciando ad amalgamarsi, quando cominciava ad entrare all’ordine del giorno l’urgenza di una prospettiva politica e la cancellazione di politiche di destra che tu invochi. Non sto cercando alibi, ma il contesto conta. Eccome. Trovo inaccettabile lo scambio tra diritti e opportunità elettorale. Non me ne frega niente delle levate di scudi di Salvini e trovo vergognose e subalterne le reazioni di Crimi e soci. Penso che bisogna battagliare fino in fondo perché lo schiavismo non può trovare posto nella Repubblica. I seicentomila fantasmi che lavorano in questo paese vanno regolarizzati. Punto. E non da oggi, non soltanto perché c’è la pandemia e servono braccia per l’agricoltura che evitino di farci restare con il frigorifero vuoto. La regolarizzazione dei migranti valeva anche ieri e l’altro ieri, persino quando la Bellanova era viceministro di un altro governo che sottoscriveva gli accordi con la guardia costiera libica. La sanatoria serviva anche allora. E senza voucher, perché non serve regolarizzare i migranti se poi regolarizzi il caporalato. Questo governo sta in piedi dunque se passa dalla resistenza al progetto. Molti evidentemente non dormono la notte davanti alla possibilità che questo scenario si realizzi. In questo momento, vedo un’offensiva senza precedenti di un pezzo del mondo produttivo – dal piglio persino un po’ padronale – per far saltare l’attuale equilibrio politico, l’alleanza tra centrosinistra e Cinque stelle.
Non giriamoci attorno: sarà pure maldestra questa maggioranza, sarà certamente cacofonica sul piano culturale, sarà indubbiamente inusuale e approssimativa nella comunicazione pubblica. Ma evidentemente genera fastidio – e molto – se continua a dialogare col sindacato dei lavoratori, se ha una certa condotta autonoma in Europa, se ritorna a parlare di intervento pubblico nell’economia. Si chiede allo stato di pagare integralmente la cassa integrazione, di condonare tutte le tasse sulle imprese, di evitare un’imposta patrimoniale anche minima, di dare soldi a fondo perduto senza restituire però in cambio nulla. E se si ipotizza una presenza statale nei cda parte l’accusa – udite udite – di “sovietizzazione” dell’Italia. Ridicolo. Nessuna garanzia sull’occupazione, nessuna disponibilità a rivedere le leggi che hanno prodotto precariato, nessun assenso a reinvestire utili in ambiente e innovazione, nessun impegno a evitare di prendere baracche e burattini e trasferire tutto altrove.
Lo dico con amicizia, caro Alessandro, ma davvero ti sfugge cosa si sta muovendo? Quale partita si sta giocando? Non è complottismo, non mi anima alcuna sindrome di accerchiamento. Eppure sono convinto che siamo davanti al rischio – e perdonami l’enfasi – che si consumi un conflitto di classe di chi sta in alto contro chi sta in basso. C’è chi vince e chi perde nella crisi, come è sempre stato. E rischiano ancora una volta di vincere sempre gli stessi, quelli che hanno vinto sempre. C’è un capitalismo cieco – non sono parole mie, ma di Goffredo Bettini – che prova per l’ennesima volta a salvarsi e a restare a galla sulla tolda di comando senza redistribuire nulla, nell’attesa di apparecchiare di nuovo la tavola imbandita della finanza, nonostante il rischio di milioni di persone senza lavoro e senza reddito. E c’è chi dice – fior di intellettuali intervistati da giornali anche progressisti – che i soldi messi nelle politiche sociali – dal reddito di emergenza agli ammortizzatori sociali – invogliano il paese ad adagiarsi nel parassitismo. Ma in che mondo vivono? Sembra la rivolta di un’élite provinciale che soffia sul fuoco della rabbia e dell’angoscia popolare per regolare qualche conto in sospeso. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Anche se loro a dare qualcosa non ci pensano proprio.