D’Alema: la Germania è un muro di gomma, ma senza Ue siamo finiti

Politica e Primo piano

Intervista a la Repubblica

di Stefano Cappellini

Presidente Massimo D’Alema, da europeista convinto si sente di dire che l’Europa stia facendo abbastanza per l’Italia?

«La risposta può apparire fin qui deludente. Ma va chiarito un equivoco molto radicato in Italia: è in corso una dialettica tra le le istituzioni europee, che hanno preso una giusta direzione e ci stanno già aiutando, e alcuni governi nazionali, in particolare la Germania».

Le istituzioni comuni non sono indifferenti all’opinione tedesca.

«C’è un problema nel modo in cui la Germania esercita la sua leadership, che non è all’altezza delle responsabilità di questo grande Paese. Un intellettuale prestigioso come Ulrich Beck ha coniato qualche anno fa il termine merchiavellismo, cioè la crasi di Merkel e machiavellismo, spiegando che la cancelliera ha l’abitudine di utilizzare la tattica dell’esitazione come strumento per domare le controversie. Condivido il giudizio. C’è un muro di gomma tedesco ed è stato evidente nella condotta di Merkel all’ultimo Consiglio europeo».

La destra italiana sta cavalcando l’occasione per picconare ciò che resta del sentimento per l’Unione.

«Ogni riflessione sulla Ue deve essere dimensionata sulla certezza che non c’è alternativa, anzi, che ogni alternativa è peggio. Il rigurgito di un nazionalismo becero non serve a niente, forse a guadagnare qualche consenso, ma la prospettiva di una Italia senza Europa è catastrofica. Se la Bce, al di là delle gaffe di Lagarde, non comprasse 250 miliardi di debito pubblico italiano, come potremmo sostituire questo impegno?».

Ma alcuni dogmi sono parte integrante dell’architettura politica di Bruxelles.

«L’Europa del dopo Maastricht è figlia di una cultura che vedeva nella globalizzazione e nel mercato la garanzia della crescita e confinava il ruolo dei governi a tenere sotto controllo i bilanci e l’inflazione. La cultura dominante era quella della destra neoliberista».

In buona parte accolta anche dalla sinistra di cui lei era leader.

«Questo è parzialmente vero, anche se noi cercammo di bilanciare una visione puramente economica con la Costituzione europea, ma fummo sconfitti dai referendum di Francia e Olanda. Comunque si vogliano giudicare gli anni ’90 è chiaro ormai, a partire dalla crisi del 2007, che si deve cambiare rotta. Io sono tra quelli che lo avevano detto. Nulla sarà più come prima, si disse dopo quello choc. Invece il capitalismo globale ha riattivato tutti i meccanismi di prima».

Il problema è il capitalismo?

«Questo è un grande cambiamento d’epoca. L’effetto della crisi causata dalla pandemia toccherà ancora più profondamente la vita delle persone. Vedo già in azione molti difensori dello status quo, che invitano a non usare l’emergenza come occasione per ridiscutere i modelli di sviluppo. E invece è proprio ciò che va fatto. Una riforma del capitalismo è inevitabile perché è già cambiata ovunque la costituzione materiale dei rapporti tra Stato e mercato. Le responsabilità pubbliche diventano preminenti e non possono limitarsi all’erogazione di denaro».

Sarebbe già qualcosa, avere denaro da erogare.

«L’Italia non può solo chiedere soldi, deve dire a gran voce come intende usarli. Gli eurobond non servono a finanziare noi, ma ad aprire una nuova stagione dello sviluppo e della civilizzazione europea. Come in tutte le guerre ci saranno dei vincitori e dei vinti, mi preoccupo di quale posto avranno le democrazie liberali».

Conte dice no all’utilizzo del Mes, il fondo Salva-stati.

«Ha ragione, è un sistema pensato per altre situazioni, di choc asimmetrico. E c’è il tema delle condizionalità: sarebbe folle aprire ora una fase di austerità».

E i soldi chi li mette allora?

«Ci sono enormi riserve di ricchezza finanziaria accumulate nelle mani di pochi. I bond europei servono appunto a rimetterle in circolazione. Sta prendendo forza una certa consapevolezza della comunità che sente di avere bisogno di un destino di condivisione. Oggi si avverte anche l’insostenibilità di mali con cui siamo abituati a convivere, come il lavoro nero o precario. Un pezzo di società che ora non si sa come tutelare».

Grillo chiede il reddito universale perché il lavoro dice non tornerà.

«Non credo a una società senza lavoro. Cambierà il tempo di lavoro necessario, come lo definiva Marx, e sarà possibile ridurre l’orario di lavoro».

Lei cita Marx, molti citano Draghi.

«Parla dell’ipotesi governo tecnico?»

Di quello.

«Dopo l’esperienza di Monti credo siano chiari pregi e difetti di questa soluzione. A cose fatte, con tutto il rispetto per il senatore Monti, penso che sarebbe stato meglio dare sbocco politico a quella crisi andando al voto».

Ma crede o no all’ipotesi Draghi presidente di un governissimo?

«Ho una grande stima di Draghi. Da presidente del Consiglio consigliai al dottor Cuccia, uomo di altissimo livello con il quale avevo un buon rapporto, di prendere Draghi, allora direttore generale del Tesoro, come nuovo capo di Mediobanca. Cuccia, che aveva già scelto Maranghi, disse che vedeva Draghi come un civil servant. Dal mio punto di vista, il complimento più alto. Ma si fa un danno a Draghi se lo si evoca per operazioni di basso profilo o come uomo della provvidenza».

L’attuale maggioranza di governo è in grado di affrontare una fase così complessa?

«Complessivamente il governo ha gestito bene l’emergenza. Ma, spero si sia capito, l’indebolimento della classe dirigente è un lusso che il Paese non può permettersi».

Il pasticcio Stato-Regioni sulla sanità nasce dal federalismo targato centrosinistra.

«Da titolare dell’ultimo governo che, con la riforma Bindi, è intervenuto a sostegno della sanità pubblica e sostenitore di un ministro, Roberto Speranza, che dopo venti anni di tagli ha ottenuto una inversione di tendenza, spero ci si renda conto che tante campagne che hanno presentato il sistema sanitario come fonte di sprechi e disservizi erano sbagliate. Ma il problema del rapporto Stato-Regioni esiste. Non credo si possa statalizzare tutta la sanità, ma occorre rafforzare il ruolo dello Stato centrale nel definire gli obiettivi e garanzie. E deve esserci una norma che consenta una guida unica nei momenti di emergenza ».

Un’ultima domanda: sa che si fa il suo nome nel pacchetto di nomine delle aziende a controllo pubblico?

«Guardi, io presiedo la Fondazione Italianieuropei, faccio il professore e collaboro con una delle più grandi aziende di consulenza del mondo. Sto bene e non c’è bisogno che qualcuno faccia il mio nome per incarichi di alcun genere. Piuttosto, spero che chi si occupa delle nomine, oltre ai nomi, stia pensando alla mission delle grandi aziende a partecipazione pubblica in questa nuova realtà. Servirà, eccome».