Speranza: diamo un tetto al nostro popolo, l’Italia non è l’Emilia

Politica e Primo piano

Pubblicato su Huffington Post

di Roberto Speranza

Il “campanello” della nostra politica nazionale ha squillato nuovamente forte e chiaro in Emilia Romagna. Il 23 novembre del 2014, da quella stessa terra che domenica ci ha regalato una vittoria straordinaria, risuonò un clamoroso “grido di dolore”. Nell’epicentro della sinistra riformista italiana, infatti, andò a votare, per il rinnovo del consiglio regionale, solo il 37,67% degli elettori. Quell’avviso di burrasca, che si sommava a tanti altri, venne ignorato e il 4 marzo del 2018 fummo, tutti, travolti dalla tempesta di un doloroso disastro elettorale.

Quarantott’ore ore fa è avvenuto esattamente il contrario. Quattro numeri indicano chiaramente la svolta. Partecipano alle elezioni il 67,7 degli aventi diritto; i voti per il presidente passano dai 615.723 del 2014 a 1.195.610 e Bonaccini raggiunge la maggioranza assoluta con  il 51,4 %. Adesso, a freddo, a differenza del 2014 su questi dati occorre riflettere con serietà.

Ci sono, a mio avviso, almeno tre indicazioni molto chiare che vengono dal voto di domenica. La prima. La sinistra, i progressisti vincono quando nella loro azione di governo riescono a tenere saldamente insieme crescita economica con equità sociale e sostenibilità ambientale. Questa è la “lezione” emiliana e la strada maestra lungo la quale rilanciare la nostra azione di governo. Meno polemiche e più risposte ai problemi reali degli italiani a partire dal lavoro (sostenibile ambientalmente) e dal welfare da difendere e riformare.

La seconda. Il voto incoraggia e richiede coerenza alla svolta annunciata dal nuovo Pd di Zingaretti e del suo nuovo gruppo dirigente nella definizione di un nuovo profilo politico culturale, mettendo definitivamente da parte scelte politiche sbagliate e una irrealistica presa di autosufficienza.

La terza. Dopo tante ingenerose critiche, credo risulti oramai evidente, anche dall’analisi dei flussi elettorali, che la caduta del “muro di incomunicabilità” con il Movimento 5 Stelle , ha riaperto la “partita” politica in Italia.

Con la stessa franchezza voglio dire: attenzione a letture semplicistiche. Sarebbe autolesionistico non vedere la pesante sconfitta politica di Salvini e gli spazi politici che si riaprono, ma è indispensabile rimanere con i piedi saldamente per terra. L’Italia non è l’Emilia. I problemi che avevamo prima di questa grande vittoria non sono scomparsi o risolti del tutto. La destra ha subito una pesante battuta d’arresto ma era e resta molto forte e competitiva. La destra, nel nuovo bipolarismo che si va delineando nel nostro paese, ha una sua fisionomia, gerarchie di valori, una chiara identità, un forte radicamento sociale. Non è ancora così a sinistra, nel campo largo progressista.

Caro Nicola, l’intervista con la quale hai annunciato, nelle settimane scorse, di voler dar vita ad “un partito nuovo”, è certamente una buona notizia per chi, come me, ritiene da tempo indispensabile ricostruire una nuova grande casa comune della sinistra italiana. Io credo che dal voto emiliano venga una forte spinta ad andare avanti in questa direzione. Per ricucire la frattura tra le forze progressiste e una parte rilevante della società italiana non dobbiamo ridurre questa ambiziosa sfida politica a un’angusta operazione organizzativa.

Sono d’accordo: non è sufficiente rimettere insieme le forze attualmente esistenti. C’è, come dimostra da ultimo anche il fenomeno delle Sardine, una parte rilevante del nostro popolo che oggi è “senza tetto”, deluso e diffidente che, quando non è vinto dalla sfiducia, si organizza in forme autonome dai partiti rappresentati in Parlamento. Per dialogare con questi movimenti, rimettere radici profonde nei ceti popolari e nel mondo del lavoro è indispensabile, innanzitutto, un nuovo profilo politico-culturale, un nuovo linguaggio. Come scrive giustamente Goffredo Bettini: “Non bastano scampoli di un buon programma”, serve un’idea complessiva di cambiamento della società. In altre parole, serve una nuova identità, ancor prima di un nuovo nome, di un nuovo simbolo e di nuovi gruppi dirigenti.

Non è un’impresa facile, perché intorno a noi in questi anni è cambiato rapidamente tutto. Non ci sono vecchie strade da ripercorrere. È cambiato il capitalismo, con lo strapotere della finanza e dei grandi monopoli, con l’intelligenza artificiale e la potenza degli algoritmi. È cambiato il lavoro sempre più parcellizzato, polarizzato e precario. È esplosa con violenza la questione ambientale. Nel disordine mondiale sono cambiati i rapporti di forza internazionali, mentre l’Europa è rimasta paralizzata da una drammatica crisi di prospettiva e coesione.

Non credo che supereremo le nostre difficoltà, come si è tentato di fare in passato, con un “astratto nuovismo” che rischia di essere sempre l’altra faccia dell’anti-politica. Definire un nuovo profilo politico-culturale per me significa, innanzitutto, correggere con coraggio gli errori commessi nel passato. Liberarsi di un pensiero debole, subalterno al neoliberismo e mettere in soffitta un’idea sbagliata di “partito pigliatutto”, con la quale ci si è illusi di poter rappresentare interessi economici e sociali non compatibili tra di loro, nel vivo della crisi più grave e più lunga dal dopoguerra ad oggi.

È l’esplosione di una gigantesca questione sociale il problema principale da affrontare, se vogliamo evitare di consegnare le paure e le insicurezze degli italiani soltanto alla risposta regressiva della destra. Senza ripartire dalla questione sociale, dai bisogni e dalle diseguaglianze, non nasce un “partito nuovo”. È evidente, oramai, che la globalizzazione e le innovazioni tecnologiche non hanno cancellato il conflitto sociale tra capitale e lavoro. Ecco perché servono oggi una nuova critica e un progetto di riforma radicale del capitalismo. Una necessità dettata non da un pregiudizio ideologico, ma dalla constatazione che il capitalismo, nella sua forma attuale, non è più in grado di assicurare uno sviluppo stabile, duraturo e sicuro.

Affrontare temi e cambiamenti di tale rilevanza richiede uno sforzo straordinario per coinvolgere le migliori forze intellettuali del paese, il modo delle competenze in un lavoro non facile di rielaborazione del nostro “programma fondamentale”. Non si tratta di raccogliere “adesioni” a una linea decisa da un congresso ma di mettere in campo nuovi protagonisti in comune sforzo di cofondazione. La crisi di prospettiva della società nella quale viviamo è emblematicamente evidenziata dalla rottura dell’equilibrio tra uomo e natura. Sull’ambiente, dalle giuste enunciazioni di principio dobbiamo rapidamente passare a scelte e comportamenti coerenti, superando incertezze e ambiguità non più tollerabili.

Cambiamenti climatici e risorse limitate richiedono una rivoluzione culturale a 360 gradi, a monte e a valle dei processi produttivi. Anche per affrontare la sfida gigantesca della conversione ecologica del nostro sistema produttivo, è urgente pensare a nuove forme d’intervento pubblico nell’economia e a un diverso rapporto fra Stato e mercato.

È indispensabile una forte autonomia della politica, per riaffermare l’interesse pubblico nella gestione di servizi essenziali e di monopoli naturali e per correggere un assetto del mercato che, nella sua forma attuale, ha indebolito non solo il lavoro dipendente, ma anche la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese, a favore della finanza, delle grandi multinazionali e dei giganti del web.

Serve un nuovo piano per il lavoro, in cui lo Stato abbia una parte attiva e non solo regolativa, a partire dalle funzioni decisive della formazione, della ricerca e del consolidamento e del ringiovanimento della PA. Un nuovo ruolo dello Stato è essenziale anche per ridurre i divari territoriali e rilanciare il nostro Sud. Dobbiamo mettere in campo politiche nuove per le aree interne e le zone montane che rappresentano circa il 60% del nostro territorio e dove si sta palesando una nuova drammatica frattura sociale tra inclusi ed esclusi.

A proposito di questioni fondamentali, non credo che il “partito nuovo” possa avere incertezze sul tema del lavoro. Ho riproposto di recente la questione di un riesame critico del Jobs act. Sul punto insisto: l’evidenza empirica dei dati, non l’ideologia, ci dice che non si crea più sviluppo e non si aumenta la produttività riducendo i diritti dei lavoratori e aumentando la precarietà. La strada intrapresa in questi anni ha segnato una profonda rottura con parti rilevanti del mondo del lavoro.

Caro Nicola, è intollerabile, è la diseguaglianza più terribile, che il futuro di un ragazzo nel nostro paese, dipenda, sempre di più, dalla condizioni economiche della famiglia e dal territorio in cui nasce. Io continuo, testardamente, a credere che la questione giovanile, come quella ambientale, non possa essere ridotta a un capitolo del nostro programma fondamentale. Ripensare il futuro dell’Italia a partire dal futuro dei nostri giovani (formazione, lavoro, diritti, condizioni di vita) deve divenire uno dei tratti distintivi della forza di cui l’Italia ha bisogno.

Da ultimo, vorrei soffermarmi sulla matrice culturale che io penso debba avere il “partito nuovo”. Sul punto, non ho cambiato idea. Resto convinto che un nuovo riformismo radicale abbia bisogno dell’incontro e dell’apporto di più filoni culturali. Noi socialisti, da soli, non siamo autosufficienti. Basta guardarsi attorno per capire quanto sia fondamentale l’apporto dei cattolici democratici, delle forze ambientaliste, dei movimenti delle donne. A proposito di un lavoro comune, di una contaminazione culturale con il cattolicesimo democratico, voglio aggiungere che dobbiamo definitivamente lasciarci alle spalle vecchi schematismi, in ragione dei quali per dialogare con questa parte essenziale della società italiana sarebbe necessario spostarci al centro. Nell’ultimo decennio, in particolare, la forza e la vivacità di tante associazioni e movimenti cattolici, oltre allo straordinario coraggio di Papa Francesco, hanno molto spesso rappresentato le uniche voci fuori dal coro dei “cantori acritici” della globalizzazione neo-liberal, mettendo al centro della loro azione la difesa intransigente della dignità della persona e del lavoro.

È con queste idee, con determinazione e senza presunzione, animati da un “intento ricostruttivo”, che vogliamo essere parte attiva del processo rifondativo di cui ha bisogno la sinistra italiana. Con questo spirito abbiamo promosso una serie di appuntamenti seminariali di discussione e di approfondimento (il prossimo sarà il 13 febbraio), per confrontarci sui nodi fondamentali che sono innanzi a noi.

Il lavoro da fare è tanto e solo il coraggio di mettersi realmente in discussione da parte di tutti renderà questo processo capace di determinare la svolta che serve al Paese. Il mio auspicio è che ciascuno partecipi con passione e generosità. Io lo farò con il mio carattere, senza protagonismi o polemiche inutili, e con la testimonianza positiva che spero possa venire dall’impegno totale che da ministro della Salute sto mettendo per difendere, rilanciare e riformare quel bene prezioso che è il nostro Servizio Sanitario Nazionale.