Intervista a Sette (Corriere della Sera)
di Vittorio Zincone
A un certo punto si piega in avanti verso di me e abbassa la voce. «Non vorrei che Daniela mi sentisse». Daniela è la moglie e sta chiacchierando nella stanza a fianco. Racconta: «Ermanno, il chirurgo che mi ha operato e che è diventato un amico, mi ha detto: “Guarda che ti vedo in tv, ti incazzi troppo, non puoi permettertelo”. E io: “Ma dai che faccio finta!”. I familiari tendono a dare la responsabilità di quel che mi è successo al mestiere del cavolo che faccio. Io, invece, credo che si debba essere un po’ “fatalisti”». Pier Luigi Bersani, 67 anni, ex segretario del Pd, ex ministro delle lenzuolate, ex premier incaricato e mai insediato a Palazzo Chigi, è deputato e fondatore di Articolo Uno, la formazione nata nel 2017 da una scissione a sinistra dei dem. Fa politica da sempre e non ha intenzione di fermarsi, malgrado l’emorragia cerebrale che lo ha colpito nel gennaio 2014 proprio nel salotto della sua casa piacentina, dove si svolge l’intervista: «Mentre l’ambulanza mi portava a Parma, ho pensato: «Se va male, faccio davvero la figura del coglione».
Perché?
«Perché sono stato io, da presidente della Regione Emilia Romagna, a disegnare il sistema per cui non c’è neurochirurgia a Piacenza. Mi sembrava più corretto puntare su poche eccellenze, raggiungibili facilmente. È andata bene».
Ha rischiato di morire.
«Ermanno prima di intervenire mi fece vedere dei fogli. Il consenso informato. Non c’era tempo per leggerli e quindi mi riassunse i tre rischi principali. “Primo: morire. Secondo…”. Lo fermai: “Il secondo per me è peggio del primo”. Mi guardò con uno sguardo alla Tex Willer e mi fece intendere che aveva capito».
Mentre il gatto rosso Ralph, che ha preso il nome da Ralph Malph del telefilm Happy Days, scivola tra le gambe di Bersani, srotoliamo ipotesi sul futuro del centrosinistra.
«Io sono politicamente un po’ presbite: inciampo sul passo breve. Ma sul medio lungo ci vedo bene: è il momento di costruire una sinistra larga e plurale».
Il modello zingarettiano da Calenda a Pisapia…
«Per rimettere tutti insieme servono tre condizioni».
La prima.
«Tirare una riga sugli ultimi anni. Lo dico in bersanese: con questa destra che avanza, continuare a litigare su chi deve chiedere scusa a chi, ha lo stesso gusto che succhiare un paracarro. Condizione due: dove mettiamo la barra? Andiamo verso la linea del socialista spagnolo Pedro Sànchez o verso quella del forzista Gianfranco Miccichè?».
La terza condizione?
«Mettersi d’accordo su quale sia il problema principale oggi in Italia. Per me è la destra regressiva. E non mi rompano i maroni sulla possibilità o meno di fare alleanze».
Bersani è l’unico nella storia del Pd ad aver aperto platealmente ai Cinque Stelle. Grillo nel 2013 gli sbatté la porta in faccia. Ragioniamo sull’imbarbarimento del linguaggio e dei rapporti politici: «Bisogna stare attenti perché il linguaggio ti cambia la testa».
Essendo Bersani un appassionato di storia gli propongo di accostare a ogni protagonista della politica italiana un personaggio o un carattere.
Partiamo da Salvini.
«Non scomoderei la storia. È uno che si veste da eroe… dei fumetti. Non è quasi mai a bottega. Lo si potrebbe chiamare il ministro degli esterni».
Di Maio?
«Un personaggio da melodramma accattivante. Mi fa pensare alla leggerezza settecentesca del compositore Vicente Martin y Soler».
Il premier Giuseppe Conte?
«Guida un pullman con due volanti. Non credo che durerà. Ma in pratica ha fatto un master che lo ha reso un perfetto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio».
Nicola Zingaretti…
«È un Filippo Turati de Roma. Un riformista. Concreto, dialogante. Prudente, in certi momenti anche troppo».
Matteo Renzi…
«Catilina. Forza ed energia che prevalgono sulla riflessione. E anche tradimenti…».
Berlusconi…
«Mi tocca parafrasare il poeta: il buon Dio ha stampato un’impronta particolare su quest’uomo».
Cita II cinque maggio, dove Alessandro Manzoni parla di Napoleone Bonaparte?
«Non sto accostando i due, eh. Ma quando vedo Berlusconi, in tv, che ancora lotta…».
… a ottantadue anni…
«… mi domando: perché lo fa? È una sorta di doverismo nei confronti di un partito che non ha altro che lui. Sono sempre stato un suo avversario, però ci vedo un tratto drammatico che lascia ai posteri l’ardua sentenza».
Massimo D’Alema?
«Padre Giuseppe restava nell’ombra ma suggeriva la linea al cardinale Richelieu e il cardinale Richelieu guidava re Luigi XIII. D’Alema sa rivestire e ha rivestito tutti i ruoli di questa catena di comando».
Walter Veltroni?
«Voglio esagerare: Lev Tolstòj. Una narrazione valoriale di sinistra. Quasi tutti quelli di cui lei mi ha chiesto ne hanno combinata una contro di me. Ma a me interessa poco. Li chiamo scherzi. Le racconto un aneddoto che le spiega un po’ come sono io».
Prego.
«Quando ero ministro del primo governo Prodi andai a vedere un concerto di Fabrizio De André al Teatro Municipale di Piacenza. Ci presentarono. De André mi squadrò e sentenziò: “Mi piaci. Sembra quasi che non te ne importi molto di fare il ministro”. Gli confessai che quel tanto di anarchismo che mi appartiene lo dovevo a lui. A lui erano bastati pochi secondi per inquadrarmi. Ora, non è che non me ne freghi niente, ma non esiste solo la politica e so che in politica certi scherzi si fanno».
Le faccio un ultimo nome: Emma Bonino.
«Eleonora Pimentel Fonseca».
La patriota di fine Settecento della Repubblica napoletana.
«Un’illuminista, che agì in luoghi a lei estranei».
Lei è cresciuto con qualche mito politico?
«Enrico Berlinguer».
Lo ha conosciuto?
«Ricordo un incontro in particolare, nel 1980. Io ero responsabile per l’Emilia Romagna degli aiuti ai terremotati dell’Irpinia. Berlinguer organizzò un incontro di coordinamento in un hotel di Salerno. Da lì, in quei giorni, fece partire la cosiddetta “seconda Svolta di Salerno”, cioè la fine del compromesso storico e il lancio dell’alternativa democratica. Era teso. Non dimenticherò mai i suoi occhi. Berlinguer aveva uno sguardo di un’intensità quasi insostenibile. E, soprattutto, dava l’idea che sulla panchina della politica si devono sedere anche il rigore, la serietà e l’etica».
Bersani sta con sua moglie Daniela da quando aveva diciotto anni e ha due figlie, Elisa, 34enne, e Margherita, 26enne. «Elisa lavora in un’impresa piacentina ed è sposata con Fadel, un ragazzo siriano d’oro. Margherita è ricercatrice in Biotecnologie, precaria». Gli domando se le donne della sua vita gli concedono il loro voto. Sorride: «Penso di sì». Aggiunge che la moglie ha provato più volte a farlo smettere con le campagne elettorali e con i comizi, per risparmiargli stress e affaticamenti. «Ma non è che io non riesca. È che non si può proprio. Incontrare i cittadini è importante. Qualche giorno fa dei ragazzi di Livorno hanno organizzato “Una birra con Bersani”. Parlandoci ho capito che c’è qualcosa che si sta muovendo». Continua: «Come locandina avevano messo la celebre foto in cui bevo una birra da solo. Gli ho spiegato che al di là degli sfottò sulla malinconia di quell’immagine, io mi concentro meglio se sto da solo in un luogo affollato. Gli ho detto anche che se non avessi fatto politica, sarei voluto essere un cantante di piano bar: solo, ma con tanta gente intorno».