Scotto: fiducia alla lista unitaria, la Ricostruzione ha senso se è plurale

Politica e Primo piano

Intervento su Huffington Post

di Arturo Scotto

Io sono contro il voto utile. Sempre. L’ho subito per anni, non ho alcuna intenzione di esercitarlo oggi. Credo nella democrazia rappresentativa e non ho cambiato idea. La mia scelta, quella della mia comunità politica che si chiama Articolo Uno, non è stata dunque animata da questo timore. Il nostro è stato un atto unilaterale, senza paletti né condizioni. Non è frutto di trattative millimetriche né è propedeutico a confluenze nel Pd.

Il nostro progetto continua: la sua identità si chiama sinistra popolare e di governo. Quello che manca come il pane adesso in Italia, a differenza della Spagna, della Grecia, della Gran Bretagna. Qui sta il senso della nostra scommessa, quella più difficile: puntare alla ricostruzione di un campo di forze, di ispirazione socialista, in grado di rappresentare un primo tassello dell’alternativa alla destra.

Questa mi sembra oggi l’urgenza più grande. La lista unitaria promossa da Nicola Zingaretti ha senso se è questo, non se è un appiccicaticcio patchwork di sigle e siglette. E dentro quella lista bisogna spingere le figure più rappresentative di un punto di vista autonomo di sinistra, da Massimo Paolucci a Cecilia Guerra, passando per Pietro Bartolo. Non per boria di partito, ma perché la ricostruzione ha senso se è plurale, se non è un assemblaggio, se rappresenta un punto di svolta.

Perché lo scenario che abbiamo davanti ci impone alcune riflessioni stringenti, che ci costringono a fare i conti con realismo con la situazione storicamente determinata che vive il nostro paese.

1) La destra leghista potrebbe decidere di passare all’incasso dopo il voto di domenica prossima. Chiamare il banco e portarci alle elezioni anticipate. Uno scenario da Armageddon, che fa a meno di qualsiasi ragionamento sullo stato economico e sociale del paese. Può la sinistra continuare a dividersi davanti a un passaggio così drammatico? Possiamo ripetere lo stesso schema di gioco del 4 marzo dello scorso anno? O sarebbe giusto provare a costruire un’alleanza sui punti qualificanti che animano una qualsiasi opzione progressista nel mondo? Lavoro, redistribuzione fiscale, diritti civili e ambientali. Noi vogliamo lavorare a questo obiettivo. Da subito. Ed è una domanda rivolta a tutti, compresi quelli che oggi equiparano il Pd ai Cinque Stelle se non addirittura alla destra.

2) Il 27 maggio non conteranno gli zerovirgola in più di ciascuna forza politica presente in Italia. Salvini racconta frottole. In Europa si capirà se c’è la svolta, quando sapremo se i socialisti hanno preso un seggio in più dei popolari. La partita vera è quella: se finalmente si rompe il muro dell’austerità di questi anni oppure se l’Europa rimane una foresta pietrificata dal Patto di Stabilità. Dove la destra economica finisce per allearsi con la destra sovranista. Ovvero la distruzione definitiva dell’Unione Politica. Lo scenario peggiore. Quello contro cui combattere con le unghie e con i denti.

3) Il Pse ha tante contraddizioni, diviso tra chi è impigliato in grandi coalizioni e chi ha scelto la strada di governi di sinistra plurale. Ma resta la casa più grande dei progressisti europei. Non suona più da tempo la sinfonia stonata della terza via e del liberismo temperato, ma parla finalmente il linguaggio del salario minimo europeo, della tassa sulle grandi multinazionali del web, della riduzione dell’orario di lavoro, del Green New deal. Lo abitano Sanchez e Corbyn, non più Renzi e Hollande. Scusate se è poco.

4) Renzi torna a dire che si vince al centro. Batte ancora la testa sul cosiddetto fuoco amico che lo avrebbe aiutato a perdere. Una litania che sa tanto di autocommiserazione. Continuo a pensare invece che, nel suo caso, si tratti di un singolare e inedito caso di autocombustione. Insomma, si è bruciato le mani da solo. Perché non aver capito che la società aveva bisogno di protezione, lo ha portato a puntare tutte le fiches su quelli che già ce l’avevano fatta. Sui vincenti della globalizzazione. E ha perso. Non penso si parli all’Italia di oggi, facendo politica con il torcicollo.

5) Diamo un po’ di fiducia al nuovo corso di Zingaretti. Non siamo indubbiamente davanti a una rivoluzione rispetto agli ultimi anni. Solo qualche timido segnale di discontinuità. Eppure qualche messaggio nuovo viene finalmente sussurrato: è seppellita la vocazione maggioritaria, si decide di rimettere gli scarponi laddove il disagio è aumentato, si torna a parlare di politiche pubbliche per rilanciare economia e lavoro. Non è il sole dell’avvenire, certo. Ma è un passo in avanti. Il Pd è troppo grande per non farci i conti, ma è troppo piccolo per rappresentare da solo l’alternativa. Aggiungere un altro frammento alla frantumazione della sinistra avrebbe aumentato forse il nostro tasso di autostima, ma non avrebbe contribuito a riaprire la partita. E noi vogliamo riaprire la partita.