L’Italia in questi giorni è presa tra il ribollire parlamentare e due crisi, inflattiva e climatica, che colpiscono duramente tutta la popolazione. Non sono questioni da sottovalutare, e il fatto che si presentino in contemporanea – seppur senza che in questo sia individuabile un fattore causale – rende necessario provare a fare un’analisi che interroghi in modo ampio lo stato delle cose nel nostro Paese.
Partiamo dalle due crisi: quando i megafoni dell’establishment puntano il dito contro le poche scelte popolari fatte in Italia per quanto riguarda il rapporto con l’ambiente, il che comprende anche le scelte in materia di energia (acqua come bene comune, no al nucleare), ciò che vogliono ritardare è la presa di coscienza che la siccità è soltanto l’ultimo avviso prima di una crisi climatica di proporzioni incalcolabili. Il rischio sempre più concreto è quello di realizzare l’incubo del Novecento, la fine della razza umana, non grazie alla guerra atomica ma a causa dell’incapacità di cambiare il modello produttivo contemporaneo. È quest’ultimo ciò che bisogna mettere in discussione, e rapidamente.
Se dunque da un lato è evidente che la prospettiva di una crisi ambientale generalizzata non è responsabilità solo del nostro Paese, dall’altro esso è tra quelli che si distinguono per la strenua difesa di un modello socio-economico che sta causando sempre maggiori disastri. L’incapacità della classe dirigente italiana di immaginare strade diverse dalla preservazione dello status quo – e il ritardo nella transizione ecologica ne è solo un aspetto – non è peraltro uno scherzo del destino cinico e baro, bensì il frutto avvelenato della crisi ormai trentennale dei nostri processi democratici, tra i quali uno dei più critici è proprio quello di selezione e costruzione della classe dirigente.
La scissione del Movimento 5 Stelle guidata da Di Maio si colloca pienamente all’interno di questo contesto disgregato e disgregante: individuando per la propria nuova collocazione politica quell’area magmatica che suole definirsi “grande centro”, il nuovo soggetto lancia il chiaro messaggio di schierarsi a tutela degli equilibri socio-economici consolidati. Nonostante l’abuso del termine “riformismo”, infatti, il centro nella Seconda Repubblica non ha mostrato alcuna istanza riformatrice, dedicandosi bensì unicamente alla difesa della stratificazione sociale esistente, in maniera ben più feroce di quel centro della prima repubblica che provava a incorporare perlomeno qualche pur piccola istanza di trasformazione sociale.
Stante questo scenario, non è detto che questa scissione sia un fatto negativo per il quadro politico: se non altro, ha il pregio di far chiarezza all’interno di un soggetto che ha incorporato culture politiche diverse, mostrandone plasticamente l’incompatibilità. Come la letteratura politologica mostra, quella di tendere alla creazione di partiti pigliatutti, all’interno dei quali le differenze di visione sembravano attenuarsi (salvo riesplodere alla prima curva) è stata una tendenza generalizzata delle democrazie occidentali, e secondo alcuni, tra cui chi scrive, anche una delle concause della loro perdurante incapacità di rispondere adeguatamente alle tante e diverse crisi che da anni ormai si susseguono.
In quest’epoca di grandi contraddizioni e grandi contrapposizioni, in cui visioni geopolitiche, sociali, di sviluppo, e dunque, in una parola, ideologiche, hanno ripreso a scontrarsi, per ritrovare autorevolezza tra la cittadinanza, la politica ha bisogno di dare una rappresentazione chiara dei propri valori e dei propri intendimenti: pertanto, se l’uscita di Di Maio dal Movimento 5 Stelle dovesse rivelarsi la scintilla che innesca una scomposizione e ricomposizione del quadro politico italiano verso una conformazione più adeguata all’espressione di culture politiche fondate e realmente radicate, e dunque verso una più piena trasparenza dei processi democratici e rappresentanza di tutti i pezzi della società, ben venga.
Ben venga perché il tempo delle scelte difficili è adesso, non si può più rimandare: nella situazione che abbiamo davanti, serve una politica – non solo in Italia – che abbia la forza di iniziare una rapida transizione ecologica, facendone ricadere i costi su chi può permettersi di sostenerli e, soprattutto, su chi inquina di più. Non dobbiamo avere timore di dire ad alta voce che la transizione ecologica ha un costo elevato e quest’ultimo non può e non deve scaricarsi sulle fasce più deboli della popolazione che, per inciso, il cambiamento climatico lo subiscono più che causarlo. Davanti alla reale minaccia di estinzione dell’umanità, il moderatismo e il ben sperare servono a molto poco: c’è un nuovo modello di sviluppo da individuare e costruire. Solo una politica autorevole e davvero rappresentativa può farlo.