The Square, monumento alle catastrofi della società disuguale

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Nel film precedente del 2014 – in italiano: Forza maggiore – Ruben Östlund ha raccontato una vacanza in montagna, nelle Alpi francesi, di una normalissima famiglia, padre, madre, due bambini, i quali, tra una discesa e l’altra, ritrovandosi sulla terrazza dell’albergo, per godersi un po’ di sole, condividono un boccone, quando d’improvviso, davanti ai loro occhi, prima increduli, poi terrorizzati, va gonfiandosi una valanga minacciosa che, in un istante, precipita a valle. Panico. Urla. Tutti rimangono impietriti, tranne il padre, che raccoglie guanti, occhiali, cellulare, e, senza curarsi della famiglia, scappa. In genere si è indotti a identificare l’effetto thriller col rosso sangue; in questo caso, invece, è un bianco algido. Il chiarore che lascia il passaggio della slavina. Schermo candido per alcuni interminabili minuti. Poi tutto torna come prima. Fuori nessuno si è fatto male. Dentro qualcosa è accaduto. La foto incorniciata nel cristallo della famiglia perfetta s’infrange, sulla coltre di neve, senza far rumore.

Nel suo nuovo film, The Square, onusto della gloria ricevuta come Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, selezionato per rappresentare la Svezia agli Oscar ormai prossimi venturi, nella categoria del miglior film in lingua straniera, in luogo della natura perturbante, abbiamo la descrizione della società diseguale. Dall’accattonaggio davanti ai negozi alla vita dei senzatetto per strada, di fronte ai lustrini del sistema dell’arte, ovvero all’arte come sistema. Protagonista, il direttore di un museo, copia conforme di alcuni direttori che vanno per la maggiore oggi, non solo in Italia. Lo schema è piuttosto semplice, sino a rasentare l’ovvietà. Sotto la superficie di una società, che si presume appagata, preme dell’altro. L’apparizione dell’incongruo, dell’abnorme, di qualcosa di urtante come un’unghia sulla lavagna.

C’è una scena in particolare: quella del protagonista alla ricerca di un foglietto con il numero di telefono di un ragazzino che si è sentito ingiustamente offeso dalle sue accuse, sotto la pioggia scrosciante, intento a rovesciare i cassonetti della spazzatura, aprendone, nervosamente, i sacchetti, metafora di una società degli scarti e dei rifiuti, che ha poco a che fare con l’immagine e la cosmesi prevalenti. Nel dialogo diretto tra l’adulto occidentale benestante e il ragazzino immigrato, il secondo determinato e fiero, il primo immaturo e pavido. L’adulto incapace di scusarsi, arriva ad urtarlo, facendogli del male, per poi, dopo averne perso le tracce, cercarlo al cellulare, inviardogli un messaggio vocale sproloquiante.

Un banale furto per strada crea un effetto-domino con conseguenze catastrofiche rispetto all’ordine apparente delle cose. Una scimmia disegna, comodamente seduta sul divano di casa di una giovane signora. Uno spettatore, in occasione di un’intervista pubblica ad un artista à la page, dal quale non esce una sola parola che assuma un significato degno di nota, si lascia andare a un’escalation di imbarazzanti interruzioni segnate dal turpiloquio e dal basso-corporeo. Sino alla performance di Oleg (Terry Notary), nel salone delle feste allestito per una cena di gala, abiti da sera e cravatta nera, genere energumeno palestrato, dapprima procurando il fastidio di piccole molestie, mentre i presenti fissano il piatto nella speranza di essere risparmiati, poi scatenando una vera e propria aggressione, sino alla violenza sessuale, al punto da provocare una reazione che degenera in un linciaggio. C’è qui l’idea dell’apatia dello spettatore, ovvero il fenomeno per cui le persone, poste di fronte a una vittima, in modo vile, nella società dell’indifferenza, tendono a non offrire il loro aiuto.

Torniamo al furto iniziale. Una disavventura della vita quotidiana, una donna che chiede aiuto, Christian (Claes Bang), il direttore di un museo d’arte moderna e contemporanea di Stoccolma, che la soccorre, subendo, però, un furto con destrezza, durante il quale gli vengono sottratti portafoglio, cellulare e gemelli della camicia, inizio di una vicenda, non priva di drammaticità, che mette a confronto due mondi. Quello del comando e quello della subordinazione. Quello del privilegio e quello dell’emarginazione sociale. Quello della visibilità e quello dell’invisibilità. Nei giorni scorsi Michele Serra ha dedicato una riflessione all’ormai stagionata espressione di Tom Wolfe sui radical chic (“la Repubblica”, 5 gennaio 2017), a proposito di un’intervista di Alexandre Devecchio (“la Repubblica”, 2 gennaio 2017). Ecco: Christian è un perfetto esemplare di radical chic. Con tutte le ipocrisie e gli autoinganni del caso. Stretto nei suoi abiti scuri di sartoria, è un tipico ideologo del nostro tempo, per quanto involontario, di quella che si potrebbe dire la società del bello, congiunta all’estetizzazione della società. L’arte come diversivo, succedaneo, intrattenimento. E vacuità.

Ad un certo punto Christian si propone di promuovere un’installazione, The Square, un piccolo spazio, ricavato grazie allo smantellamento di un vecchio monumento equestre, i cui confini sono tracciati, in forma quadrata e luminosa, tra le pietre del piazzale antistante l’ingresso del museo. Come viene spiegato, si tratta di “un santuario di fiducia e altruismo. Al suo interno tutti dividiamo gli stessi diritti e doveri”. Per puri fini di clamore mediatico, perché si parli dell’evento, l’agenzia coinvolta nel marketing decide di far esplodere, in una videoclip che diventa subito virale, una bambina, bionda e svedese, segnata da un’evidente condizione di disagio sociale. Establishment contro drop out. L’eccesso di gusto che si fa pessimo gusto. L’allargamento della forbice delle diseguaglianze, l’estrema ricchezza di fronte alla povertà crescente di un popolo dolente, senza casa, senza lavoro, senza diritti sostanziali. Evidentemente un’installazione non basta. The Square è un film su una duplice crisi: estetica e sociale; l’una specchio dell’altra; su un sistema che è giunto al punto di dover essere ripensato radicalmente. Ma qui il film, giustamente, si ferma. Indica la crisi. Non il modo per superarla. Per questo occorre altro.

 

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.