Scegliere il campo, non cazzeggiare sulla federazione dei riformisti

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Il dibattito sulla Federazione dei riformisti sembra poco più che una forma di cazzeggio. Buona per riempire qualche pagina di giornale, per dare qualcosa da scrivere a commentatori in crisi di astinenza da retroscena, per assecondare il narcisismo di chi, a corto di idee, si diletta con le solite trite e ritrite formulette politologiche. La testa del paese sta altrove e come spesso accade la sinistra politica rischia di apparire in vacanza.

Ora la moda prevalente è: uniamo i riformisti. Da Leu a Forza Italia, propone Nardella. Qualcun altro si spinge persino a dire che occorre allargare alla parte più responsabile della Lega. Calenda dixit. Nella fiera dei riformismi, come ha detto Bersani ricordando il compianto Guglielmo Epifani, a latitare sembrano proprio i riformisti veri. E il riformismo separato dalla questione sociale diventa soltanto un puro esercizio di vanità tecnocratica.

Sono tutti buoni alla causa del riformismo dunque, basta che si allontani il fantasma di un rapporto organico con Conte e i Cinque stelle rifondati. I contenuti contano poco, basta dare in subappalto ad altri la battaglia delle idee. A contare infatti sembrano solo le suggestioni, come quella che tutti i giorni viene spacciata come la base di un inedito programma riformista, finalmente liberato dalle pastoie burocratiche del sindacalese e del sinistrese. La cosiddetta agenda Draghi.

Peccato che nessuno abbia capito bene cosa ci sia scritto dentro e in quale negozio sia possibile acquistarla.

Quello che invece appare chiaro è che, dopo una prima fase di tenue continuità con l’esperienza precedente giallorossa, l’impronta che sembra prevalere – mano a mano che si esce dall’emergenza sanitaria – è piuttosto quella della destra economica. In tutti i settori si innesta il pilota automatico. A partire dall’idea che siano le imprese l’unico motore della ripartenza e dunque tocca a loro pronunciare l’ultima parola sul Next Generation Eu.

Per questo parte l’attacco sul blocco dei licenziamenti. Persino con grande soddisfazione del coro monocorde dei giornali cosiddetti progressisti. Quelli che hanno sdoganato la frottola dell’Italia come paradiso dei sussidi. Il blocco sarebbe antieconomico, punitivo verso le imprese, persino negativo per gli stessi lavoratori che perderanno il posto.

La domanda a cui nessuno risponde è: ma quale ripresa può essere credibile se a pagare il prezzo più alto sono le persone che vivono del proprio lavoro, quelle che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo e mantengono in piedi lo stato sociale? Perché dare in testa sempre a loro? Allo stesso tempo, si parte lancia in resta alla carica contro il reddito di cittadinanza. Nessuno che si degna di ammettere che senza questa misura, le nostre città sarebbero state una vera e propria polveriera sociale durante la fase più acuta della pandemia. La parola d’ordine implicita è: il reddito paralizza il mercato del lavoro. Pensate, ci sono ragazzi che non accettano di andare a lavorare come camerieri a seicento euro al mese per otto ore al giorno, quando va bene. Preferiscono mettersi in fila per il reddito di cittadinanza – quando hanno la fortuna di esserne percettori – piuttosto che lo schiavismo.

Non vedere la qualità dell’offensiva ideologica che punta a scandire i tempi dell’agenda di governo e parlamentare sarebbe davvero miope. Basti pensare alla levata di scudi contro la proposta sulla dote ai giovani avanzata da Enrico Letta, liquidata come un capriccio identitario dell’estrema sinistra.

Il problema nostro sta qui, nella lettura comune del passaggio storico, prima ancora che nella formula con cui ci presenteremo alle prossime elezioni. Se perdiamo l’appuntamento della ricostruzione di un apparato produttivo innovativo e sostenibile e la sfida della tenuta sociale del paese, sarà la destra a fare all-in. Appare più attrezzata, più contemporanea, più corsara. E noi rischiamo di rimanere con le mani dentro la porta.

Questo è quello che dobbiamo dire con chiarezza ai nostri alleati: siamo lo schieramento che difende la giustizia sociale oppure siamo soltanto una variante dell’agenda della destra economica che vuole che tutto torni come prima?

Scegliere il campo, non galleggiare nella palude.

Meglio discutere, confrontarsi, persino litigare oggi piuttosto che rinviare tutto a domani. Per dare un senso. Perché la partita si sta giocando adesso.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.