Salvini addio? Spoon river di un ex invincibile Capitano

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Mi facevo chiamare il Capitano.
In ogni piazza d’Italia, dalla più piccola alla più grande, era un tripudio di selfie.
Le mie parole sembravano proclami.
Semplici.
Diretti.
Perentori.
Le zaffate di calore di un popolo disarmato mi illudevano che la marcia sarebbe stata breve. E trionfale.
La crisi aveva eletto solo nemici.
E io a fabbricare nemici ero di gran lunga il più bravo.
La gente mi toccava per capire se ero vero, se respiravo, se sudavo, se ruttavo.
Pensavano fossi come loro.
Se quello che dicevo era davvero poco, il come lo dicevo finiva per essere tutto.
Mi credevano a prescindere.
I comunisti la chiamano connessione sentimentale, io la chiamavo populismo.
Annusavo l’aria, avevo l’istinto di un cane da caccia che capiva i movimenti della preda.
E la preda, nove volte su dieci, la beccavo.
Attaccavo i rossi, ma le vittime predestinate erano quelli che mi sedevano vicino.
I gialli.
I miei compagni di contratto.
Stupidi neofiti del potere.
Segaioli del web.
Sembravano ipnotizzati dal Governo.
Appesi a un sacro blog, intortati nelle loro grisaglie ministeriali e insidiati dai viaggi esotici di un Che Guevara di terza categoria.
Accarezzandoli capivo che li avrei annichiliti.
Bastava poco zucchero perché tutte le pillole andassero giù.
Decreti sicurezza 1 e 2, condoni fiscali, secessioni mascherate.
Digerivano tutto, mentre io ingrassavo a dismisura.
Regionali, comunali, europee.
Il popolo seguiva, perché un barcone in meno poteva fare addirittura un milione di voti in più.
Avevo intuito che la pietas umana non era di questo tempo.
Non era del tempo in cui mi era toccato vivere.
E non me ne fregava nulla.
Si chiamava spread di civiltà che faceva molti più consensi dello spread della borsa.
Persino la carità cristiana era un diversivo della domenica, limitato a qualche omelia di prelati scomunicati dalla realtà.
Funzionavo alla grande.
Non schiumavo rabbia, la bava non mi usciva dalla bocca, e salutavo con i bacini e i bacioni gli avversari che insultavo.
Li fregavo tutti con il sorriso.
E con un rosario avidamente sventolato.
Passavo per nazionalpopolare, in realtà ero solo un fighetto del centro di Milano.
Frequentavo Milano Marittima, soltanto perché dopo le elezioni in Sardegna i pastori sardi non mi avrebbero fatto approdare nemmeno per sbaglio in Costa Smeralda.
Ma alla jam-session del sovranismo volevano comunque partecipare tutti.
Era trendy e soprattutto sembrava inarrestabile.
Saluti e baci a tutti, soprattutto alle ONG.
Ora sono qui, su un palco, da solo, a osservare i contorni scarni di una piazza vuota.
Deserta come la traversata iniziata nel 2013.
Giorgetti, il più sveglio di tutti, mi dice di scendere con i piedi sulla terra.
Che le illusioni ottiche durano poco
E come in una sciarada, anziché far penzolare lo scalpo dei miei nemici, sta passando il cadavere della Lega.
Gli steroidi che le avevo iniettato salpando dal nord e navigando verso le acque calde di quel mezzogiorno terrone e puzzolente, si sono via via sgonfiati.
Qualcuno ha “schiattato” il palloncino.
E non me ne sono nemmeno accorto.
La palude che avevo creato abbracciando i portavoce del popolo è diventata la mia palude.
Volevo temporaneamente lasciare il comando senza mollare il ministero, costruire una guerra lampo nelle urne ed assaggiare definitivamente il brivido del potere assoluto.
Pieno.
Indivisibile.
Insindacabile.
E invece no.
Mi sono perso in un’estate troppo falsa per ragionare a mente fredda.
Spiaggiato sulle spiagge che erano destinate a raccontare il senso di un’apoteosi, non a certificare l’origine di un naufragio.
Guai a chi si ubriaca dietro troppi followers, trasformandoli in opinione pubblica.
Un errore da pirla.
Il colpo di sole di un professionista della serie C.
Faccendieri, millantatori, affaristi di Mosca come di Washington.
Sono scomparsi tutti.
Dileguati nel giro di poche settimane.
Hanno girato i tacchi e sono andati a spendere altrove.
Passando dallo scherno verso il Conte dimezzato alla reverenza per il Bis-Conte raddoppiato.
E io che guardando le sue pochette, mi domandavo perché non le usasse come kleenex.
Trump, Orban, Putin.
Al mattino americano, il pomeriggio ungherese, la notte russo.
Le mie alleanze internazionali avevano lo stesso ritmo delle felpe che indossavo.
D’altra parte, perché scontentarli?
Mi era sfuggito che l’establishement travestito da plebe può essere più vendicativo del profilo instangram della Isoardi.
Pensavo di averli fregati tutti.
Tre settimane sono state sufficienti per svelare l’arcano e ribaltare ciò che sembrava scritto.
E l’acciaio si è trasformato in sabbia.
E tutti hanno capito finalmente di che pasta è fatto il Capitano.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.