Renzo Renzi, il localismo cosmopolita di un intellettuale unico

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Renzo Renzi era nato a Rubiera il 13 dicembre del 1919. E’ mancato, a Bologna, nel pomeriggio di domenica 17 ottobre 2004. 15 anni dalla morte. 100 dalla nascita. Lo ricorda un’iniziativa promossa dalla Cineteca di Bologna, dal 13 dicembre fino al 31 gennaio 2020, con un programma di proiezioni e una mostra di oltre ottanta disegni dell’amico Federico Fellini.

Ho appreso la notizia da Lisetta, la figlia scrittrice (Il casale dei sogni perduti e, come Lisa Lorenzi, Sognavo di sposare il principe azzurro), che ringrazio dell’invito. Mi sono tornati in mente tanti ricordi, in particolare il primo incontro con Renzo Renzi, a seguito di una telefonata che gli feci, da cui poi scaturì una frequentazione e un’amicizia.

“Perché non viene a trovarmi?”. Fu così che mi dedicò un intero pomeriggio, senza calcoli, senza avarizie.

Mi accolse sulla porta. Mi accompagnò nella sala che aveva trasformato nello studio. Il divano e il tavolo colmi di carte. Pareti tappezzate di quadri. Colori pastello assortiti con gusto da Teresa, sua moglie, artista del collage, nell’intarsio di carte, compreso un leggiadro 25 aprile, l’Italia tra fiori, libri e Bella ciao. Teresa prima di conoscere Renzo aveva ricevuto una lettera lunga sette metri, scritta e dipinta da Luciano De Vita, pittore, incisore, scenografo, scelto da Giorgio Morandi come assistente, un rotolo, come quelli dell’antico Egitto, ma con carta da pacchi.

Parlammo tanto e, nel tempo, abbiamo continuato a farlo. Mi sembra di sentire il suo inconfondibile accento, quasi sottovoce, di rivedere il suo profilo, il gran naso, i baffetti sale-pepe, i capelli che accompagnava col palmo della mano ai lati, sopra le tempie.

Da quel pomeriggio presi a mandargli i pezzi, preannunciati da un colpo di telefono e depositati nella buca, in sasso, del condominio in via Nazario Sauro. Da allora, per anni, ci siamo visti ogni settimana, almeno una volta, o sentiti, telefonicamente, più volte. Tra menabò, bozze dei libri e delle riviste, prime, seconde e ciano, articoli in lettura, sommari, copertine.

A lungo ho continuato a rivolgermi a lui con il lei. Renzi mi convinse a passare al tu con questo argomento: “Non devi preoccuparti di darmi del tu. Tanto ci sono tu che valgono come lei e lei che valgono come tu”.

In tanti anni, mai un tono sopra le righe, un cenno fuori posto: anche in questo Renzi era speciale, di una rara qualità umana. Trasmetteva un senso di pariteticità, confidenza, rispetto.

Renzo Renzi era un’esemplificazione vissuta dell’intellettuale. Con le idiosincrasie, le fobie, le esitazioni, le esaltazioni e le amarezze di chi affronta e giudica la realtà su un piano divergente. Era refrattario a ogni atteggiamento utilitaristico. Riesaminando la sua opera non si può non vedere una grande capacità di lavoro, ma imperniata su un’attitudine non competitiva, mai grossier, concentrata, piuttosto, su ciò che maggiormente gli premeva: il cinema, quindi la critica, la scrittura.

Nel 1978 pubblica, da Cappelli, un libro con questo titolo: La sala buia. La più classica metafora del cinema. Come pochi altri, per tutta la vita, ha coltivato il culto della sala. Non c’era giorno che non ne visitasse una: un film al giorno, ogni giorno. Era la sua preghiera laica del pomeriggio.

Renzi ha saputo farsi strada, con i suoi ritmi, il suo stile, la sua fisionomia culturale, senza mai spingere, scavalcare, sgomitare, affidarsi a espedienti, cordate, conventicole, consorterie; defilato, ma tutt’altro che isolato.

Renzo Renzi, soprattutto, era. E questo suo essere si riproponeva in tutto ciò che faceva. Scriveva a mano, non ha mai avvicinato una macchina per scrivere, grazie ad una bic nera, con una chirografia chiara, pulita, larga, non troppo appesantita dalle correzioni. Il mezzo più povero per l’espressione più ricca.

Sapeva scrivere. Una sua pagina era una pagina ben scritta.

Era particolarmente portato – per quanto dotato di una proverbiale affabilità – a esprimersi nel genere della polemica, anche della stroncatura, oggi scomparsa, per rispetto del compito, lontano da ogni commistione con un uso furbo, scambievole o ruffiano della scrittura.

Il rapporto fraterno con Federico Fellini nasce a seguito di una recensione del 1952 su “Cinema Nuovo” (nuova denominazione per “Cinema”, la rivista diretta durante il fascismo da uno dei figli di Mussolini, Vittorio, mentre nella redazione cresceva una cellula del PCI), nella quale Renzo Renzi lucidamente coglie il genio felliniano ne Lo Sceicco bianco.

A Federico Fellini dedica poi una monografia nel 1956, cura i volumi La mia Rimini e I clowns (un librone magnifico che riempie gli occhi e le mani).

Nel 1966 Federico è testimone nelle nozze di Teresa e Renzo.

Fellini ha spiegato che l’idea di Amarcord gli venne “chiacchierando un giorno con Renzo Renzi”. C’è una bella foto, in bianco e nero, in cui Federico tiene sottobraccio Renzo, accanto a Giulietta Masina.

La cosa che mi colpì subito di lui fu il raggio delle sue relazioni riconducibile al genius loci emiliano-romagnolo. Nel cinema, appunto, Fellini. Nel giornalismo, Enzo Biagi. Nella televisione, Sergio Zavoli.

Al liceo lo aveva coinvolto la filosofia di Galvano Della Volpe insieme alle figure di Mario Borgatti e Alberto Mocchino. Del quale Renzi ha scritto: “Ci parlava pure, Mocchino, dell’arte nuova, il cinema, e dell’ultimo film. Giorgio Telmon mi fece notare infine – ma dovrà pure raccontarlo egli stesso – che, per il film Decameron, Pasolini scelse proprio le novelle che ci aveva proposto Mocchino a scuola, con un taglio analogo d’interpretazione” (cfr. Renzo Renzi, Pasolini, quasi un compagno di scuola, ne La bella stagione. Scontri e incontri negli anni d’oro del cinema italiano, Roma, Bulzoni Editore, 2001, p. 346).

Cominciò a pubblicare le sue prime cose presto, alla fine degli anni Trenta, nella palestrina dei giovani intellettuali bolognesi, il  mensile del Guf “Architrave”. All’Università diresse il Cineguf.

Seguì, come Pier Paolo Pasolini, le lezioni d’arte di Roberto Longhi. I suoi riferimenti culturali inscritti nell’orizzonte della modernità. I nuovi mezzi di espressione, tecnica e creativa, lo affascinavano.

Nel ’40 parte volontario per la Grecia. Quindi, anni di prigionia in un Lager tedesco maturando lì il suo antifascismo, non solo politico, antropologico e morale. Aveva una visione del fascismo non solo come totalitarismo, ma anche come espressione distorta di un carattere del Paese, una costante negativa mai superata del tutto. Spesso mi è capitato di sentirgli pronunciare giudizi su personaggi della vita pubblica italiana nei quali Renzi avvertiva il rischio di un fascismo – com’egli diceva – involontario. Allo stesso modo, l’antifascismo, per lui, era un elemento coessenziale allo stesso approdo del Paese alla democrazia e a un sistema sociale e politico più maturo.

Fa ritorno in Italia dopo aver visto le rovine fumanti di Berlino, in uno scenario rosselliniano da Germania anno zero.

Come critico cinematografico dal 1946 comincia a collaborare col “Progresso d’Italia” e con le riviste specializzate dell’epoca: “Cinema nuova serie”, oltre a “Cinema nuovo”, “Bianco e Nero”, “Positif”, “Premier Plan”.

Fonda con Enzo Biagi, Luigi Pizzi e Renato Zambonelli, la Columbus Film, casa di produzione, dirigendo alcuni cortometraggi-capolavoro, tra i quali Le fidanzate di carta (1951); Quando il Po è dolce (1952); Guida per camminare all’ombra (1954); Le notti del melodramma (1954); Sette metri d’asfalto (1954); Dove Dio cerca casa (1955).

Poi l’incredibile vicenda dell’Armata s’agapò, insieme a Guido Aristarco. S’Agapò, in greco, significa Ti amo. Andò così. Nel febbraio 1953, nel quarto numero di “Cinema Nuovo”, Renzo Renzi propone un soggetto, L’Armata s’Agapò, dedicato all’occupazione italiana della Grecia. Sette mesi più tardi Renzi e Aristarco, direttore della rivista, vengono arrestati e rinchiusi nel carcere militare di Peschiera per 40 giorni. Il 5 ottobre sono sottoposti ad un processo a Milano, non da parte della magistratura ordinaria, bensì del Tribunale militare: Renzi come tenente, Aristarco come sergente maggiore. L’accusa: “Vilipendio alle forze armate”. Sentenza di condanna a otto mesi per Renzi, che viene anche degradato; 4 mesi e mezzo per Aristarco.

Un Affaire Dreyfus nell’Italietta autoritaria e ottusa dei più cupi anni Cinquanta. Nel 1990 Gabriele Salvatores ha diretto una storia simile, in Mediterraneo, vincendo, meritatamente, l’Oscar per il miglior film straniero.

Renzo Renzi è stato anche tra i fondatori della Commissione Cinema del Comune, nata il 18 maggio 1962, voluta da Renato Zangheri come assessore alla Cultura, poi della Cineteca.

Per la casa editrice Cappelli ha curato, per vent’anni, la collana Dal soggetto al film, 78 volumi sul cinema europeo, buona parte dei quali tradotti in molte lingue.

Sempre per Cappelli ha scritto d’altro: Il Reno italiano. Storia di un fiume e della sua valle, fino al mare, Bologna, Cappelli editore, 1989; La città di Morandi. 1890-1990. Cent’anni di storia bolognese attraverso la vicenda di un grande pittore, Bologna, Cappelli editore, 1989; Il sogno della casa. Modi dell’abitare a Bologna dal Medioevo ad oggi, Bologna, Nuova Casa Editrice Cappelli, 1990.

Poi, grazie ad una felice intuizione di Renato Zangheri, questa volta come sindaco, dal 1977 viene chiamato a occuparsi di un settore nel quale Bologna ha saputo esprimere un certa vivacità culturale, quello delle riviste che un tempo si chiamavano degli Enti locali, dapprima con “Bologna Incontri”, poi con “2000 Incontri”, dando vita ad un comitato di garanti, per evitare ogni ingerenza, formato da Luciano Anceschi, Attilio Bertolucci, Enzo Biagi, Giuseppe Campos Venuti, Federico Fellini; la grafica affidata a Pier Achille Cuniberti, con una particolare cura per gli aspetti iconografici e per la stessa impaginazione, a cui si applicavano insieme, Cuniberti e Renzi, in una giornata di amichevole lavoro a casa del primo.

Nell’editoriale di apertura di “2000 Incontri”, sotto il titolo La nostra linea, Renzi, su una rivista promossa dalla Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con il Comune di Bologna, non senza una punta di soddisfazione, scriveva:

“Generalmente le pubblicazioni edite dagli enti locali italiani sono prodotte col proposito di illustrare in maniera apologetica le decisioni prese dalle amministrazioni promotrici. Nella nostra regione s’è incominciato a prendere viva coscienza della palese inefficacia di un simile procedimento, attraverso una serie di dibattiti e di indagini, che hanno prodotto i loro primi risultati…” (“2000 Incontri”, 1/2, gennaio-febbraio 1987).

Riviste programmaticamente aperte ai giovani di allora, da poco inseriti o in procinto di inserirsi nel sistema culturale, nell’insegnamento, nella ricerca universitaria, nelle case editrici, negli enti locali, nel giornalismo.

Ugo Berti Arnoaldi Veli nel suo scritto su Bologna palestra d’intellettuali (in Luoghi e tradizioni d’Italia. Emilia Romagna centrale e nordadriatica, Editalia 1999) a un certo punto parla di “Bologna Incontri” come di “una rivista di opinioni letta e discussa, oltreché di un’ospitale palestra per penne in erba”.

Poi Renzo Renzi viene incaricato di un Piano di comunicazione multimediale, una dozzina di opuscoli, impostati per la Provincia e tradotti in quattro lingue, come in un cofanetto d’autore, piccoli best-seller, anzi dei long-seller, come Bologna tre giorni, oppure Storia per luoghi della città di Bologna, ristampati in centinaia di migliaia di copie. Il marchio scelto allora nei portici, compreso Il pianeta porticato, 24 minuti, 620 inquadrature, regia di Cesare Bastelli, supervisione di Pupi Avati, un film che un giorno o l’altro meriterebbe di essere rimesso in circolazione.

Com’è noto, il turismo funziona secondo la logica degli effetti a distanza, dopo una certa seminagione; se Bologna ha potuto proporsi come meta uteriore rispetto ai più tradizionali circuiti, si deve, non solo ma anche, al lavoro di Renzo Renzi.

Della sua militanza di saggista merita una menzione La bella stagione, uscito nel 2001 da Bulzoni editore.

Con un instant-book si è occupato del settimo, e tuttora ultimo, scudetto del Bologna F.C., non senza un sottotitolo presago: Bologna carogna. Cronache della lotta contro la Lega Lombarda (Bologna, Alfa, 1964).

Sino a Io sono la Gàbi di Bologna, romanzo epistolare conservato presso la Cineteca, catalogato dalla Soprintendenza per i Beni librari e documentari.

Nella roulette delle cose della vita, Renzi si è trovato spesso nella condizione di fare la puntata decisiva, o, si potrebbe dire, vincente. La verità è che non non ha mai voluto farla. Qualcosa in lui lo tratteneva. Una certa inclinazione riflessiva, distaccata, malinconica.

E’ rimasto irrisolto tra Roma (il cinema) e Milano (il giornalismo). Non ha voluto emigrare, come avevano fatto, con una certa fortuna, altri della sua generazione. L’esigenza d’una scelta, che temeva irreversibile, in qualche modo lo turbava. Sicché è rimasto. Senza rinunciare all’insieme composito dei suoi interessi e dei suoi talenti: il cinema, la critica, la scrittura e un impegno civile accompagnato sempre da un certo distacco.

L’aria svagata poteva dare l’idea d’una pigrizia, come d’una debolezza. Niente di più falso. Era una personalità dolce, ma non remissiva: basta rileggere certi suoi “interventi”: magistrali, per nitore, vis, eleganza.

Coerente è stato, nel tempo, il suo atteggiamento verso le istituzioni, anche se non sempre facile. All’insegna della lealtà e dell’indipendenza. Nessuna visione organica. Sino a mettere a repentaglio la serenità economica degli ultimi anni: lui, senza pensione, dopo una vita di lavoro generoso e onesto. Al punto che alcuni amici non hanno mancato di esortare le istituzioni statali a riconoscergli, esclusivamente per i suoi meriti, i benefici della legge Bacchelli.

A proposito di compleanni, vorrei ricordare, in deroga alla proverbiale riservatezza di Renzi, quello che accettò di festeggiare l’11 dicembre 2002 nell’allora Provincia di Bologna.

Ne è rimasta un’immagine, tratta dall’archivio di Paolo Ferrari, che lo ritrae attorniato dagli amici: Romano Zanarini, Gino Agostini (partigiano e inventore del cinema Odeon), Giuseppe Campos Venuti, Renato Zangheri, Aldo D’Alfonso, Ezio Raimondi, Andrea Emiliani, Walter Tega. Accovacciati, come in una squadra: Vittorio Boarini, Gianluca Farinelli, Eugenio Riccomini.

Ma ricordo anche il premio alla carriera che il DAMS, nel giugno 2003, ha voluto conferirgli, nell’Aula Absidale di Santa Lucia, per iniziativa dell’allora Rettore Pier Ugo Calzolari, con un intervento di Sergio Zavoli.

Ripensando a quella prima chiacchierata con Renzi, mi rendo conto del tempo trascorso al suo fianco. Un legame dal quale ho imparato moltissimo. Anche dal punto di vista politico, se l’espressione può avere un senso, a proposito di una personalità apparentemente impolitica come quella di Renzo Renzi.

E’ difficile per me distinguere, ora, il percorso culturale di Renzi dai suoi tratti umani e personali. Di una cosa, però, sono certo: la sua è stata una parabola intellettuale con un timbro inconfondibile. Autentica perché unica nel suo genere. Ben prima dell’insistenza sul federalismo, amava l’idea di trarre dal locale una metafora utile per interpretare, più in generale, il tempo che siamo chiamati a vivere. Proponeva, con una punta di sorniona provocazione, un paradosso: un localismo cosmopolita. Entro il quale credo possa collocarsi l’attualità del lavoro di Renzi, anche per noi, oggi: la cura per i legami con le radici, la cura dell’identità, insieme ad uno sguardo rivolto a coglierne il senso in un gioco di relazioni più ampio e aperto. Un paradosso non privo di qualche indicazione per il futuro. Come si addice a un maestro, ma sempre sottovoce, nascosto nelle pieghe del discorso, tanto più vero in quanto involontario.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.