Oggi Articolo 1, domani LeU: il partito serve. Un’esperienza pilota tra Napoli e Berlino

| Articolo Uno

In un mio precedente articolo avevo sottolineato il bisogno di “guardare nel cofano” dei partiti politici, ovvero di saggiare la qualità della loro offerta politica partendo dall’analizzarne l’organigramma, i meccanismi organizzativi e decisori, i criteri di formazione e funzionamento degli organi interni, così verificando quanto siano – o meno – canali di vera democrazia e applicazione fedele del dettato costituzionale. Oggi che il cammino costituente di Liberi e Uguali si fa più accidentato, il problema di come disegnare e realizzare il “motore” del partito unitario della Sinistra in Italia si fa più complesso e non meno necessario.

La necessità di una ri-organizzazione dei tre soggetti di coalizione (Articolo 1, Possibile e Sinistra Italiana) è dettata dal fatto che – anche prese singolarmente – ciascuna di queste realtà deve fare i conti con un dato elettorale che impone di dover “fare di più con meno risorse”.

Per Articolo 1, poi, più che di una revisione si tratta fondamentalmente di dotarsi di una struttura organizzativa. Dalla sua creazione, Articolo 1 si comprende infatti come un Movimento, ovvero come un primo passo verso la costruzione di un partito che dovrà essere sforzo comune e condiviso con altre formazioni politiche e forze sociali. Per questa ragione, unitamente alle contingenze elettorali, Articolo 1 non si è fino ad ora dotato di una vera e propria forma organizzativa definita, avendo peraltro – con la creazione di LeU – preferito promuovere la creazione di Circoli LeU anziché sostenere una propria campagna di tesseramento.

I recenti sviluppi politici (con le decisioni di SI da un lato, e l’aprirsi della fase congressuale di Possibile dall’altro) portano a ritenere che i tempi per giungere a una fase costituente di LeU siano più lunghi del previsto, o comunque dell’auspicato. Per questa ragione il tema delle strutture si fa più complesso. Per garantire l’orizzonte unitario bisognerà infatti fare in modo che i tre soggetti di coalizione (insieme alla galassia dei Circoli LeU non direttamente riconducibili ad alcuno di essi) si (ri)organizzino in un modo tanto più coerente e condiviso possibile, così da garantire di non arrivare a una costituente unitaria con organigrammi e strutture organizzative diverse, ispirate a logiche differenti, e dunque assai difficilmente armonizzabili in un’unica compagine associativa e operativa.

Si è detto, e io condivido, che per rafforzare LeU si devono rafforzare i soggetti di coalizione. Il tema però è come questo debba avvenire, e in che cosa si traduca poi (da un punto di vista organizzativo) questo rafforzamento. In questi giorni ci vengono proposte ricette diverse. Marco Furfaro afferma – sulle colonne dell’Huffington Post – che oggi “servono nuove e tante ‘case matte’, in luoghi fisici e digitali”, serve “un’agorà dell’alternativa progressista, una ‘piazza’ permanente, dove siano sì rappresentate una pluralità di vedute, ma in cui le decisioni vengano prese dagli aderenti, sperimentando una vera e nuova partecipazione decidente. Un popolo – dai soggetti politici a quelli sociali, dalle associazioni ai singoli – e un contenitore in cui sfidarsi”. Altri più direttamente parlano di “casa propria”, il Pd, come di una costruzione “da rifondare”, come una “camicia vecchia e sporca” che è ora di “gettare per indossarne una nuova”. Altri ancora, questa volte sul fronte Possibile, individuano come l’unica speranza per la Sinistra italiana il “reinventare tutto”, “reinventare il novero del possibile e il campo di sinistra tutto”. Secondo questa visione, LeU andrebbe mantenuto come simbolo, auspicando però una “base che si rivolta, in ogni senso, per riscattarsi e riscattare la sinistra tutta”. Questa rivolta contro le “assemblee ristrette, asfittiche e autoreferenziali” dovrebbe tradursi in “qualcosa che sia finalmente, d’altra parte ineludibilmente e improcrastinabilmente nuovo nelle pratiche e, in effetti, persino nelle politiche”. Queste visioni peraltro non appaiono distanti dalle dichiarazioni di Fratoianni, secondo il quale merita dare un futuro a Leu «solo se il nuovo soggetto cambia nettamente il profilo che purtroppo ha avuto in questa campagna elettorale».

In attesa della relazione di Roberto Speranza sul significato del percorso politico ed elettorale di Articolo 1 e di LeU, Mdp sembra da molti indicata come la forza di coalizione con le maggiori responsabilità per la “sconfitta elettorale”, imputata da un lato di aver concorso a un’ “operazione di vertice per tutelare il ceto polito” (valutazione di Civati sul percorso di LeU), dall’altro d’aver comunque dato almeno l’impressione che “quelli che ci avevano messo tanto a uscire dal Pd fossero già pronti a rientrarci” (come ha dichiarato Fratoianni nel già citato articolo). Di fronte a questioni così grandi, anziché spaventarsi o farsi prendere dallo sconforto, Articolo 1 ha motivo di rallegrarsi.

Dal settembre 2017 un gruppo di militanti di Articolo 1 ha infatti lavorato proprio sul tema delle strutture, e questo lavoro si è tradotto anche in un esperimento pilota che – seppur nelle ristrettezze di risorse umane e finanziarie – ha dato promettenti risultati Oltralpe. Mettendo a sistema queste esperienze e tutte quelle simili spontaneamente createsi in campagna elettorale, Articolo 1 potrà, io credo, darsi un’organizzarsi, e organizzarsi facendo di questo sforzo un’occasione di scambio e di riflessione condivisa con tutte le forze che hanno dato vita a LeU e che hanno la responsabilità di mantenere la promessa dell’orizzonte unitario. Il “gruppo strutture” è nato il primo ottobre 2017 alla Festa del Lavoro nazionale di Napoli, nella sala Domus Ars (provvidenziale nome per chi guarda all’arte con cui costruire una “casa” della Sinistra italiana). Tutto ha inizio dall’intervento di Nina Calzone, appassionata militante partenopea che – sottolineata la necessità che la dirigenza fornisse direttive organizzative chiare al Movimento – propone a tutti di rivedersi nel pomeriggio, nello stesso posto, per creare un gruppo che lavori sulle strutture organizzative della nascente formazione (all’epoca ancora in trattativa di fidanzamento con Campo Progressista). Nina mette in luce come non si possa fare un semplice “copia incolla” dallo statuto di un qualche partito. Bisogna “aggiornare i modelli organizzativi del passato rispetto alla mutata realtà sociale e alle peculiarità dei territori”, dice Nina. Il carattere fondamentale della definizione dell’assetto organizzativo di un partito capace di metter insieme “cose antiche e cose nuove” è ribadito con forza, spontaneamente, da altri militanti che via via si prenotano per parlare, confermando che anche loro avvertono il bisogno di guardare con priorità alla questione organizzativa, alla riflessione sulle fondamenta operative della “casa comune”. Con convinzione si esprime la delegata di Bari, Elvira Castellaneta, che pone il tema dell’organizzazione dei rapporti fra partiti politici e formazioni della società civile. “Vi sono associazioni che lottano per battaglie fondamentali come la sicurezza sul lavoro, temi caratterizzanti la nostra identità politica”, dice Elvira. “Dobbiamo porci il tema di come coinvolgerli, rispettandone però l’autonomia, perché spesso le associazioni hanno sensibilità diverse al proprio interno. Possono e vogliono cooperare con tutti, nei propri campi di attività, ma non vogliono connotarsi come l’espressione di un partito piuttosto che un altro. A loro, noi cosa proponiamo?”.

Alle 16 ci ritroviamo in una decina, delegati Mdp da Piemonte, Campania, Lazio, Puglia, e io, all’epoca “uomo solo a Berlino”. Iniziamo con la lettura di un documento preparatorio, coordinato dal partenopeo Ettore Giampaolo. Ettore non è presente e se ne scusa per il tramite di Nina: superata la soglia dei settanta manca alla riunione non per indisposizione fisica, bensì perché impegnato a “pittare” la sezione che – con altri “compagni” – ha appena riaperto nell’area flegrea di Napoli. Con una lungimiranza tipica di decenni di ardente passione politica, Ettore mette in guardia da due derive: “l’uomo solo al comando” e “il riformismo senza popolo”. “In entrambi i casi, ‘il popolo della sinistra’ è escluso dalla elaborazione delle scelte, che peraltro non derivano direttamente dalle contraddizioni materiali vissute dai ceti di riferimento. E non si rimedia a questo con sporadiche ‘campagne di ascolto’, ‘laboratori’, ‘officine’ che certamente coinvolgono un ‘ceto politico’ largo, ma non sono il radicamento dell’organizzazione nei luoghi della vita, dei lavori, dei saperi e del conoscere, dove, soprattutto i ceti deboli, soffrono i problemi e ne intravedono le soluzioni”.

Riemerge qui parte della meglio eredità del PCI: il primato dell’organizzazione, l’aspettativa per una strutturazione scientifica e capillare de “il Partito”. Non si tratta di fare le “case matte” che propone Furfaro, e neanche di sperare in un “rovesciamento della piramide” in cui intellighenzia e sottoproletariato si scambiano i panni in una farsa carnevalesca. La Costituzione prevede espressamente i “partiti” quali componente essenziale del funzionamento della Repubblica, quale tassello necessario delle fondamenta sulle quali si fonda la nostra architettura civile. E partiti non è sinonimo di “collettivi”. Sono strutture ordinate e organizzate, dove la differenza fra chi ha le capacità e le competenze per dirigere e chi (anche incolpevolmente) di queste capacità è sprovvisto non viene negata per buonismo egualizzatore. Semmai, i partiti si connotano nella misura in cui si pongono l’obiettivo della formazione politica e civile, della preparazione economica, giuridica, analitica e speculativa da offrire ai propri aderenti, così da garantire l’eliminazione degli ostacoli che di fatto limitano il pieno sviluppo della personalità politica di tutti i cittadini. Il punto non è quello di dirsi che siamo tutti uguali, una vale uno, e allora facciamo il collettivo fra il primario, i parenti e il personale infermieristico per decidere se mia nonna va operata o meno, se gli ospedali vanno pubblicizzati o se le cozze greche tenute a bagno qualche mese nei mari della Sardegna sono sarde oppure no. Il problema non è l’élite, bensì in quale contesto organizzativo essa viene selezionata, formata e si trova a operare. A chi risponde l’élite? Con quali meccanismi? Quali sono le caratteristiche ideali del partito che sono intangibili anche per l’élite (così come i principi fondamentali della Repubblica sono indisponibili al Parlamento)?

Già Costantino Mortati (padre costituente e mente fra le più brillanti nel firmamento repubblicano) ricordava che “i partiti devono esprimere le élites (come in fondo erano le aristocrazie e la nobiltà in generale, oltre agli altri corpi sociali) che innervano, articolano e governano la società e lo devono fare in un contesto democratico aperto e pluralistico”. Il problema non è l’élite, e la soluzione non è la sua decapitazione, magari mettendo la piramide a fare lo struzzo oppure saltellando beati in girotondi ebeti o sfogatoi inconcludenti. Il problema è che il vertice sia veramente al servizio della base, e che l’organizzazione permetta e garantisca che la gerarchia sia una gerarchia del servizio e non una gerarchia del potere. L’organizzazione, la buona organizzazione costituzionalmente animata, è quella che – come un perno posto al centro del triangolo – ne permette il dinamismo interiore, permette alla élite di guidare insieme alla base, alla base di indicare la via insieme alla élite, all’interno di un perimetro di senso, di un’utopia che si vuol tutti contribuire a realizzare intravedendo in essa il Bene comune (e non un proprio interesse, o ideologia settaria e autoreferenziale). Per tutti coloro che hanno aderito alla Relazione Muroni, quest’utopia è l’orizzonte di un mondo in cui tutti possano davvero sviluppare la propria personalità “liberi e uguali in dignità e diritti”.  

Ciò peraltro è anche uno dei contenuti cruciali del Concilio Vaticano Secondo, così come spiegato da monsignor Luigi Bettazzi (l’ultimo padre conciliare ancora vivente) e dal fu cardinale Capovilla. La gerarchia, sia essa nella Chiesa o nel Partito, deve avere l’ultima parola; ma l’ultima parola non è l’unica, e può essere l’ultima solo se prima tutti hanno potuto contribuire a una discussione che non è fine a se stessa, ma è dibattito per assumere una posizione comune, volto all’adozione di pratiche, all’implementazione di azioni e programmi di lavoro. Discutere in un partito è discutere per fare, su scala internazionale e locale. Discutere in un collettivo è un’altra cosa. Questo è il motivo per cui la Costituzione parla dei partiti e non delle “case matte”. Un partito analizza la realtà, ascolta la base, insieme ad essa cerca gli strumenti di analisi e comprensione del reale, individua il cambiamento che vuole apportare al mondo, definisce strategie di azione di breve e medio termine, forgia i mezzi e gli uomini per implementare queste strategie, e poi opera tendendo dritta la barra e periodicamente verificando la rispondenza fra risultati attesi ed effetto pratico delle proprie politiche. Tutto questo non si realizza senza un’organizzazione scientifica, senza riconoscere e valorizzare chi ha l’esperienza, la sapienza, il carisma di servire la comunità, e senza una comunità che richiami la gerarchia alla propria vocazione di servizio non con le parole, ma mettendosi essa stessa al servizio del bene del Partito.

Questo è avvenuto a Napoli. Comprendendo l’importanza di studiare il “come”, di preparare lo studio sui diversi strumenti con cui forgiare l’orizzonte fondativo unitario, un piccolo gruppo di militanti di base ha lavorato, incessantemente e senza cercare riconoscimenti, sostenuto dalla certezza che è il lavoro a capovolgere la piramide. Siamo partiti dalla struttura del Pci, il modello organizzativo più familiare ai nostri compagni di viaggio con una più forte e duratura esperienza di militanza. Ne abbiamo ritenuto l’ispirazione “cellulare”: l’organizzazione deve essere come un organismo vivente che – senza soluzione di continuità – si fonda sulla “cellula”. Grazie al contributo di Rossella Ercolano, abbiamo poi analizzato gli statuti delle “varie reincarnazioni” del Pci, andando a verificare se nel succedersi degli statuti erano riscontrabili soluzioni tecniche capaci di rispondere alle domande che ci provenivano dalle condivise esperienze dei territori. Come fare, ad esempio, per aprirsi alle associazioni che – a differenza di quelle del Pci (dove tutta la componente para-politica era organizzata attorno a formazioni nate dal partito, si pensi all’Udi) – nascono e vogliono rimanere autonome e indipendenti?

Abbiamo trovato una risposta nello statuto dei Ds, nelle cosiddette “intese con le altre organizzazioni”. Analizzato però sotto le lenti dell’economia del diritto, questo strumento di apertura è stato ritenuto (come poi confermato dall’esperienza di chi quegli anni li visse attivamente e ne porta vivi ricordi) scarsamente efficace, trattandosi di un sistema di carattere residuale, con notevoli ambiguità applicative ed elevati costi di negoziazione. La comparazione ha compreso anche il modello organizzativo di Possibile, che rappresenta un tentativo interessante di dare risposte organizzative al passo coi tempi, risposte il cui valore è indipendente dal numero di aderenti e la cui implementazione è un merito che va riconosciuto. L’individuazione di un comitato scientifico volto a tradurre le istanze della base in proposte e strategie tecnicamente avvedute e coerentemente studiate è un tentativo importante di rispondere al quesito generale su come creare un’alleanza fra domanda e offerta di soluzioni ai problemi delle persone; perché se tutti già sapessimo come risolvere i problemi probabilmente l’Italia non sarebbe nella condizione in cui è. La piattaforma deliberativa online, che non si sostituisce alla presenza e alla struttura territoriale, ma che consente di creare un supporto per la discussione e un patrimonio di analisi e discussione da offrire a nuovi aderenti è, di nuovo, un’esperienza dalla quale il “Partito che viene” non può permettersi di prescindere.

Così come non si può mancare di studiare i Cinque Stelle, fenomeno che, se su internet si basa su di una gestione della comunicazione organizzata in modo centralizzato (con uno spazio aperto sì a tutti, ma strutturato e disegnato da pochi), sui territori beneficia di una grande libertà di adozione di modelli organizzativi eterogenei e scarsamente standardizzati.

Abbiamo poi comparato (con tutte le difficoltà date dalla distanza, dal lavoro, dalla possibilità di sentirci chi per telefono, chi via Skype) questi modelli con l’ingegneria organizzativa che animava il lavoro di Adriano Olivetti per la riforma dello stato e l’organizzazione del Movimento Comunità e dei Centri comunitari. L’organizzazione non è mai un esercizio di pura tecnica ingegneristica. Essa è lo strumento per garantire il corretto fluire dell’informazione che, come la linfa nell’albero, garantisce il collegamento fra centro e periferia, per fare in modo che tutti – nessuno escluso – possano prodigarsi – attraverso i partiti – per il bene del Paese, in modo tale che – per riprendere Olivetti – “ciascuno nel proprio ambito e nella propria funzione (possa) lavora(re) a un fine comune e coordinato”.

Con Rossella, abbiamo valutato quando di onorevole e meritorio sentivamo di poter e dover imparare da passate esperienze organizzative, vuoi le idee della cosiddetta “proposta Barca, vuoi l’esperienza organizzativa e l’ispirazione ideale delle Fabbriche di Nichi prima e delle Officine delle Idee poi. Non sono pochi i militanti che, dopo la “parentesi Pisapia”, non hanno potuto cogliere la differenza fra Campo Progressista come formazione politica e le Officine delle Idee come risposta al bisogno di promuovere azioni locali coordinate su scala nazionale e organizzate per temi, valorizzando saperi e competenze tecniche, mettendo in contatto i partiti coi bisogni e le realtà associazionistiche e di volontariato già operanti in settori o macro-temi specifici. L’esperienza delle Officine non va né idolatrata né vilipesa: da essa c’è qualcosa che dobbiamo imparare e saper riprodurre in una visione organizzativa organica.

Grazie a Giuseppe Vallario da Firenze abbiamo poi approfondito il tema (collegato a quello delle strutture organizzative) degli strumenti organizzativi e di lavoro, individuando nella gestione ciclica di progetto (il Project Cycle Management) una serie di strumenti operativi (modulari e facilmente apprendibili da chiunque) di enorme e comprovata efficacia. Questi strumenti, che un piccolo gruppo di militanti può fare propri con alcune ore di insegnamento (anche online) sono essenziali per l’accesso al finanziamento europeo, e portano ottimi risultati nella definizione e implementazione di progetti di sviluppo locale (quello che serve perché un nuovo partito possa efficacemente radicarsi sui territori), organizzati – fra gli altri – anche dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro. Giuseppe ha sottolineato che così come fare un “partito” è una responsabilità verso la Costituzione, allo stesso modo fare un “buon partito” è una responsabilità, “un dovere tanto verso l’interno” (verso gli iscritti e i militanti), “quanto verso l’esterno” (le istituzioni del Paese e la società civile). Sulla base di questa visione, Vallario ha richiamato tutti alla necessità “che sia lo stesso statuto del futuro partito unitario a definire con chiarezza le responsabilità dell’organizzazione verso tutti” i “portatori d’interesse”: responsabilità di garanzia di un flusso chiaro e trasparente di informazioni dal partito verso l’esterno (elettori e cittadini tutti), responsabilità dei dirigenti (a ogni livello) di promuovere una partecipazione reale, efficace e supportata da possibilità decisionali e di discussione anche via internet (per tutelare chi non può o non riesce ad essere fisicamente presente a tutte le riunioni), responsabilità del partito di stabilire criteri condivisi sull’utilizzo delle risorse finanziarie e rigorosi meccanismi di trasparenza e di rendicontazione di tutte le spese. Oltre a una più esplicita e stringente responsabilità degli eletti in tema di obiettivi e risultati, periodico ritorno sui (e rendicontazione ai) territori dai quali si sarebbe (all’epoca, in fase pre-elettorale) stati eletti, e del partito in generale per la serietà della formazione e della selezione della classe dirigente.

Alla luce di tutte queste sollecitazioni e dopo aver dato conto di questa lunga storia, il 12 gennaio scorso ho proposto al Comitato LEU-Berlin di dotarsi di una struttura organizzativa che – nella ristrettezza numerica degli aderenti e con le difficoltà aggiuntive date dal “fattore estero” – potesse fungere da progetto pilota con cui portare un valore di realtà concreta a quanto fatto dal gruppo formatosi a Napoli. La struttura adottata (e volutamente non del tutto formalizzata in documenti statutari e di regolamentazione interna) è bipartita: da un lato un Coordinamento politico, dall’altra un Coordinamento operativo; in ciò seguendo la ripartizione (tipica delle ONG complesse di rilevanza internazionale) fra ufficio di presidenza e segretariato generale. Il Coordinamento politico è stato eletto direttamente da tutti gli iscritti (con l’indicazione di tre persone, e fra queste di un referente principale), ed è stato responsabile per ogni decisione importante una valutazione di opportunità politica. Esso ha tenuto i rapporti con gli altri Coordinamenti nazionali di LeU in Europa (in modo non dissimile dai coordinamenti regionali/metropolitani per l’Italia) e con i responsabili nazionali per gli Italiani all’Estero. Ha supervisionato l’attività del Coordinamento operativo e da questo è stato tenuto costantemente informato dei programmi di azione elaborati, e della fase di avanzamento della loro implementazione.

Il Coordinamento operativo si è occupato unicamente delle questioni organizzative e gestionali, ed è stato composto da tre figure (operanti autonomamente nei rispettivi ambiti di competenza, seppur tenendosi sempre aggiornati e agendo all’unisono). Queste tre funzioni sono state individuate in termini di: un Responsabile comunicazione e collegamento; un Responsabile programma (che, nella previsione post-elettorale, avrebbe potuto occuparsi di “Studi ed Esperienze”, sulla scorta dell’esperienza olivettiana) e un Responsabile raccolta fondi e organizzazione eventi. La scelta dei responsabili è stata effettuata per cooptazione fra gli iscritti, in base alle disponibilità, competenze e inclinazioni di ciascuno. Dividere le funzioni politiche da quelle tenico-gestionali si è rivelato molto efficace, così come l’individuazione di specifici campi d’intervento e dei responsabili dei servizi di supporto (dalla redazione dell’elenco dei luoghi di ritrovo gratuitamente accessibili, alla mappatura sociale dei territori).

A tutti gli interessati ad aderire formalmente, il Comitato LeU Berlin non ha richiesto il pagamento di una quota associativa. Se da un lato tutti sono incentivati a contribuire (anche finanziariamente) alla missione comune rivolgendosi direttamente alla Responsabile (che si occupa di sollecitare le donazioni e predisporre campagne di fundrasing), è però anche vero che in una “Repubblica fondata sul lavoro” servono anzitutto “partiti fondati sul lavoro”. Se agli iscritti (presenti e futuri) si dà la possibilità di esprimersi, se ci si responsabilizza gli uni gli altri nell’impegno e nella dedizione alla causa comune, e se si fa di questo impegno (ciascuno secondo le proprie disponibilità di tempo e le proprie capacità e interessi) la quota associativa, i membri (come dimostrato dall’economia della cultura e dallo studio sull’economia del dono e le organizzazioni a movente ideale) sono naturalmente portati a contribuire di più, sia in beni e servizi, sia poi anche con dazioni di denaro. Banalmente: se un associato è un cuoco eccellente, porterà più soldi (con maggior gratificazione) organizzando cene di autofinanziamento che non pagando una magra quota annuale d’iscrizione. Ciò per non menzionare il tema – sempre in agguato – degli abusi cui si presta un’affiliazione fondata sul mero pagamento di una somma standard (che consente al “signore delle tessere” di turno di farsi in fretta le proprie clientele elettorali).

Nel modello implementato a Berlino come caso pilota quella che era la “cellula” nel PCI è diventata il Gruppo di Lavoro (GdL). In base alle preferenze del singolo, e tenendo anche conto delle esigenze dell’organizzazione, si formano dei GdL aventi missioni specifiche (raggruppate per macrotemi, sul modello delle Officine, così da garantire la coerenza politica delle azioni dei Gruppi), con un orizzonte temporale di operatività limitato e un “prodotto finale” definito (sia esso l’analisi e riassunto di documenti, il volantinaggio in una certa area geografica, eccetera). Raggiunto l’obiettivo il gruppo si scioglie, e i suoi membri possono formarne di nuovi, così da facilitare anche la costruzione di un forte capitale associativo (molte relazioni fra molte persone).

Per garantire la sinergia con il mondo dell’associazionismo e con enti meritori (distinti dall’organizzazione, e interessati a cooperare allo studio, definizione e realizzazione di programmi o progetti mirati e spesso definiti per macro-temi), si è pensato (come sviluppo futuro) di permettere ai Gruppi (previo parere del Coordinamento politico) di creare Tavoli di Lavoro (TdL), cui invitare entità esterne all’organizzazione (e dunque anche altri partiti, aspetto fondamentale visto il “passo a tre” col quale ci si deve oggi incamminare verso la costituente di LeU). Attraverso lo strumento dei Tavoli di Lavoro si può dunque permettere la formalizzazione di una cooperazione con organizzazioni esterne, senza “compromissioni politiche” ulteriori o più durature rispetto allo scopo specifico del TdL (che potrà variare dalla congiunta organizzazione di un evento alla redazione di un documento o implementazione di un progetto, eccetera).

Adottando questa (in fieri) organizzazione interna, e pur non avendo ancora potuto attivare Tavoli di Lavoro (per evidenti ragioni di tempo e di massimo impegno sulla campagna elettorale), è stato però possibile definire una efficace strategia di partecipazione del programma. La Coordinatrice preposta al programma ha organizzato un’azione ampia di analisi, discussione (anche critica) e proposta, che potesse coinvolgere tutti i nostri iscritti e simpatizzanti. Con ciò abbiamo anche inteso rispondere nei fatti all’appello alla partecipazione democratica pervenuto da più voci all’ultima assemblea di Roma.

Dovendo cercare efficaci modalità di gestione della “risorsa tempo”, il GdL che lavorava sul Programma ha fatto circolare il testo de Una Nuova Proposta e i lavori per macro-temi prodotti dai Forum tematici di Liberi e Uguali. Dopo aver condiviso riflessioni e proposte, i documenti sono stati prima schematizzati per punti, e poi tradotti (dal GdL-Comunicazione) in un questionario, con cui chiunque ha potuto esprimere osservazioni (per ciascun punto) e dare una valutazione (da 1 a 5) della priorità che il singolo intervistato assegna a ciascun elemento del programma. In questo modo si è potuta verificare la rispondenza fra la domanda politica della base e l’offerta programmatica, distinguendo i temi più “caldi” da quelli sui quali le sensibilità non erano pronte ad accogliere le proposte politiche della dirigenza. Il questionario è già stato distribuito a tutti i nostri associati e ai simpatizzanti iscritti alla nostra mailing list, messo a disposizione degli altri Coordinamenti nazionali di Liberi e Uguali Europa, ed è stato accessibile a tutti (anche dall’Italia!) via Facebook.

Si tratta certamente di un piccolo esempio. Sono convinto siano moltissime le realtà che (già di Articolo 1 e poi di LeU) hanno approfondito il tema delle strutture e degli strumenti organizzativi. Nell’attesa dell’assemblea del 12 maggio, credo che queste modeste ma generose esperienze possano rinfrancare tutti gli aderenti di Articolo 1. Esse dimostrano che l’organizzazione è il perno su cui far sempre e nuovamente ruotare la piramide. Napoli e Berlino sono stati solo due fra innumerevoli e sconosciuti sforzi, con cui la base ha (informata la dirigenza e con il suo incoraggiamento) lavorato nella direzione di dare alla sinistra italiana una casa che – fondata sul perimetro dei nostri documenti politici fondativi – abbia regole organizzative chiare. Per far trionfare la luce del “nostro faro” (il pieno e libero sviluppo di ogni persona), per realizzare nell’Italia di oggi l’utopia di un’umanità di “liberi e uguali”, abbiamo bisogno dello strumento del partito politico, e che questo sia dotato della struttura organizzativa e delle metodologie di lavoro le più efficaci e coerenti coi nostri valori. Fare questo in Articolo 1 oggi vuol dire portare questa esperienza e questi saperi alla fase costituente di LeU, che rimane l’impegno di tutti noi per domani.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.