Verso il 2018 cercando un buon partito: apriamo il cofano e guardiamo

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Mentre i giornali si concentrano sulle elezioni siciliane, su possibili apparizioni televisive e sulla questione di leader e alleanze, gli italiani con cui parlo guardano alle imminenti elezioni con ansia crescente. E’ chiaro a tutti: l’Italia e il mondo vivono una fase difficile e cruciale. Andremo a “sceglierci” (nei limiti in cui il Rosatellum ce lo permetterà) un Parlamento che – a scadenza naturale – ci chiederà di eleggerne uno nuovo nel 2023. Le scelte che verranno operate – o meno – nei prossimi cinque anni avranno un impatto decisivo sul futuro del nostro paese, sull’economia e sulla società, sul nostro ruolo in Europa e nel mondo. Di fronte a questa responsabilità molto grande, la domanda ricorrente è “Per chi voto stavolta?”. Questa è una domanda giusta, seria e responsabile, di chi capisce che la sovranità che grava su ciascun cittadino (e sul popolo italiano nel suo insieme) non è solo una facoltà di cui – come una promozione al supermercato – possiamo scegliere se servirci o meno. Sovranità è responsabilità, è chiamata a farsi carico del bene comune (per noi e per gli italiani di domani), individuando persone e programmi che davvero corrispondano ad una visione di Paese migliore. Al contempo però pensare a chi votare rischia di trasformarsi in un quesito che “mette il carro davanti ai buoi”, quasi frutto di un’abitudine alla velocità del consumo, della necessità di scegliere velocemente fra i prodotti ben allineati sullo scaffale elettorale: metterne uno nel carrello, e via a casa a riprendere la nostra vita di sempre. Prima del “chi”, di identificare una forza cui “dare” il nostro voto, forse dovremmo chiederci “cosa” ci aspettiamo che si realizzi, come intravediamo quel miglioramento in funzione del quale andiamo a votare con convinzione e con piacere. Serve cioè ruotare il barattolo e leggere gli ingredienti. 

Fatta questa operazione ci renderemo conto che la destra ci propone gli ingredienti già propinatici negli ultimi decenni: riduzione orizzontale delle tasse, limitazione fisica degli sbarchi di migranti (senza occuparsi veramente di risolverne le cause, o almeno di provarci, di concerto con altri stati, europei e non), maggiore autonomismo (anche fiscale) delle regioni, una compressione della sfera di azione e di regolazione dello stato sull’economia, maggiore protezione alla dignità animale (quasi che l’indigenza umana fosse secondaria rispetto alla sofferenza di altre specie). La sinistra (che – se dobbiamo dividere lo spettro dell’offerta politica in due – va oggi da Verdini ai comunisti) ha (o dovrebbe avere) invece ingredienti diversi: pluralismo, riduzione delle disuguaglianze, tassazione progressiva e redistributiva, maggiore ruolo dello stato nell’offerta di servizi pubblici di qualità (dalle scuole agli ospedali, passando per l’ambiente e la cultura).  

Chi ha avuto la fortuna (o la sfiga) di studiare economia e diritto trova oggi minori difficoltà di scelta. Le politiche neo-liberiste (per la serie: “meno stato, ci basta il mercato!”) hanno dimostrato che il mercato non porta di per sé a massimizzare il benessere sociale. Siamo, dopo dieci anni, ancora nel pieno di una crisi economica globale nata nel globalizzato mercato del denaro; sappiamo bene come i lavoratori siano sfruttati all’estero, mentre da noi la disoccupazione è a livello umanamente insostenibile. Questa è un’economia di mercato che trasforma la società stessa in società di mercato, dove i lavoratori, resi inutili dal progresso tecnologico, sono ridotti a incidenti di percorso, mentre a porsi il problema pubblicamente sembrano rimanere il Papa e Bill Gates (e molti altri con loro, tristemente però con assai minor visibilità mediatica).  Pur volendo tanto bene agli amici e parenti che votarono Berlusconi, a destra proprio non si può andare, almeno se si ritiene che tornare alla servitù della gleba non sia un’opzione degna di un Paese migliore.  

L’elettore a quel punto cerca di rileggere gli ingredienti delle diverse formazioni politiche diciamo “di sinistra”; e scopre però che gli ingredienti son poi sempre gli stessi. Lo Statuto del Pds (datato 2005), un po’ impolverato quasi fosse un fondo di magazzino, già conteneva meravigliosi valori e ampie visioni di un futuro bello da immaginare, e giusto da concepire. Non solo la generica lotta alla disuguaglianza, ma l’idea che “la libertà nell’uguaglianza si afferma pienamente nella fraternità”, l’assunzione dei “diritti umani, i diritti di tutte le donne e di tutti gli uomini come criterio costitutivo della (propria) politica”, l’impegno a garantire il diritto di ognuno “a progettare e realizzare il proprio sviluppo umano”, in un quadro di “federalismo solidale”, con un “rinnovato patto di solidarietà fra le generazioni” che includesse “il superamento della divisione dei ruoli tra donne e uomini nella società e nella politica”. Pur avendo tutti questi buoni ingredienti, l’esperienza del Pds è poi arrivata – senza soluzione di continuità – agli ultimi anni, fatti di bonus, di vendita dei grandi patrimoni immobiliari pubblici, precarizzazione del lavoro, sterili contrapposizioni col sindacato, gregarietà culturale alla destra.  

Ma se valori e programmi non sono poi – nei fatti – garanzia di qualità, come possiamo allora distinguere quel prodotto politico nuovo, di cui c’è bisogno oggi per le grandi e inedite sfide del nostro futuro prossimo, da quello tarocco? La risposta ce la offre una nota ditta italiana produttrice di piani cottura e cucine: “il segreto non sta solo negli ingredienti ma anche negli strumenti che utilizzi”. Come non ci affideremmo mai a un tassista che ci propone di portarci al Polo Sud con una Cinquecento storica, così dobbiamo imparare ad aprire il cofano e vedere che motore hanno i partiti politici che vorremmo votare: con quale strumento pensano di realizzare quei programmi politici molto belli e molto nobili a cui idealmente noi già sentiamo di aderire? “Bisogna ritornare alla Costituzione, e applicarne tutti i principi”, questa era la soluzione che nel 1960 Palmiro Togliatti proponeva rispetto a problemi che (dalla disparità fra la crescita dei profitti dei monopoli economici e quella di salari e stipendi alla persistenza della miseria del Mezzogiorno, fino alla crisi dell’agricoltura) appaiono oggi di disarmante e tragica attualità.  

Ritornare alla Costituzione non può però limitarsi a un’enunciazione di principi, serve un rinnovamento delle strutture, degli strumenti con i quali si intende (coerentemente con il nostro assetto di istituzioni democratiche) compiere questo ritorno. Servono partiti nuovi più che nuovi partiti, serve cioè che i partiti politici inizino ad attuare integralmente la Costituzione proprio a partire dal proprio motore, dagli ingranaggi coi quali si propongono di funzionare quali strumenti la cui utilità è misurabile nella misura in cui davvero permettano a tutti i cittadini di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Lo Statuto dei Democratici di Sinistra era scritto in modo eccellente, ed è ancora attuale nei valori che enuncia e nel riconoscere una convergenza storica e ideale fra “valori democratici e antifascisti”, “pensiero socialista”, “pensiero laico e repubblicano”, “pensiero cristiano sociale”, “pensiero ecologista”, “personalismo comunitario” eccetera. Quell’esperienza però è caduta sulla struttura; questa convergenza di tradizioni non si è tradotta in strumenti di dialogo e di convergenza della discussione capaci di resistere a spinte centraliste o a forme di (anche naturale) ego ipertrofico. L’ “Albo dei Non Iscritti” (articolo 5), e le “Intese con altre organizzazioni” (articolo 10 lettera C) ne sono un esempio chiarissimo. Norme poco chiare, che lasciano ampi poteri discrezionali in sede applicativa, e che dunque non garantiscono la funzione per la quale erano state pensate. Nel cercare un buon partito, necessariamente a sinistra, dovremo allora cercare e domandare le maggiori garanzie che le strutture di funzionamento siano all’altezza dei valori che si prefiggono.  

Dire “Democratico” non basta a garantire che davvero – ad ogni livello – si incoraggi la partecipazione costruttiva e il dialogo libero e ricco di contenuti. Dire “competenze” richiede poi capire bene come gli esperti vengono selezionati, e quale peso hanno le loro osservazioni e proposte quando non comprese o osteggiate da alcuni segmenti degli iscritti. Aprirsi a civismo/volontariato/associazionismo è certamente necessario; ma per verificare in cosa si traduca questa apertura bisogna poi capire come vengono selezionate e quali facoltà di intervento interno vengono attribuite alle associazioni che – esterne ad un partito e da queste indipendenti – desiderano contribuire al dibattito (tematico o generale) che i partiti sono chiamati a veicolare e tradurre poi in determinazioni della politica nazionale. 

E ancora: richiamarsi alla Costituzione impone che si faccia proprio (anche nei meccanismi di funzionamento di ogni singolo partito) il valore fondante del lavoro. Come potranno dirsi costituzionalmente orientati quei partiti in cui il diritto di voto all’interno del partito viene riconosciuto in dipendenza del pagamento di una (minima) quota associativa, senza tener conto della differenza qualitativa di partecipazione fra chi si limita a pagare la quota e votare (magari per sostenere capicorrente, quando non foraggiato direttamente dai “signori delle tessere”), mentre invece c’è chi ha speso tempo per riaprire la sezione, o per discutere un tema in cui ha una acclarata professionalità, o ancora si è occupato di tutti quei lavori “dietro le quinte” senza i quali i partiti non possono adempiere alla vocazione partecipativa che è loro assegnata dalla Costituzione? 

A tutti questi temi la scienza (da quelle umane all’ingegneria gestionale, dalle tecniche di gestione dei conflitti a quelle di facilitazione del dialogo) già offre dozzine di soluzioni. Non serve inventare, basta la volontà di applicare. 

L’Italia ha bisogno di buona politica, e la politica ha bisogno di buoni partiti, che si dimostrino nuovi nel loro essere capaci di apprendere dalla storia passata e di trasformare questa lezione in modo tale da prevenire (strutturalmente, poiché solo nelle strutture sta la garanzia di funzionamento di una realtà in cui soggetti diversi sono chiamati ad operare verso un fine comune e coordinato) la perdita del proprio carattere democratico. La cifra della novità dell’offerta politica (a sinistra) si vedrà dalle strutture con le quali i partiti andranno a garantire la propria capacità di svolgere la funzione costituzionale di concorso alla determinazione della politica nazionale. Le buone intenzioni degli iscritti (siano essi leaders o semplici simpatizzanti) non sono sufficienti a dare questa garanzia.  

Senza di essa, senza partiti che abbiano appreso l’importanza di garantire la realizzazione del proprio programma attraverso un proprio funzionamento interno coerente con la funzione loro affidata all’interno della nostra architettura istituzionale democratica, sapremo che – quale che sia l’offerta politica futura e i marchi esposti sullo “scaffale” della scheda elettorale – andremo a votare senza poter scegliere quel “partito nuovo” che solo sarebbe in grado di darci la gioia di votare per una “ragionevole speranza”: la speranza di un Paese in cui i partiti non si limitino ad essere mandatari degli elettori (il rapporto fra elettori ed eletti non può essere un “contratto”, perché la realtà cambia in cinque anni, le priorità pure), ma veicolo che garantisce che la sovranità rimanga in capo al popolo sovrano anche fra un’elezione e l’altra, e possa tradursi nella possibilità concreta e significativa di esercitarla attraverso i partiti politici. Tale possibilità è garantita unicamente dalle strutture di funzionamento. Per cui, se cerchiamo partiti veramente nuovi, e capaci di essere all’altezza dei valori cui si ispirano, non dovremmo guardare solo agli ingredienti o all’etichetta, ma agli strumenti di cui si dotano per raggiungere gli obiettivi che si prefiggono. Così sapremo orientarci, con ragione e con fiducia, nell’offerta elettorale che – in prossimità delle elezioni – è pronta a bombardarci di slogan facili e accattivanti, ma non può mentire all’analisi delle proprie strutture di funzionamento.  

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.