Può esserci anche un populismo di sinistra: una sfida da accettare

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Forse la categoria politica che meglio può rappresentare la contemporaneità, in Italia e in Europa, è il populismo. Uno spauracchio per alcuni, e certamente lo è per le forze politiche tradizionali di tutto il continente, un’energia liberatoria per molti altri. Senza dubbio, nel sentire comune, è qualcosa che contiene forti elementi di novità.

Non è semplice darne una definizione secca. La parola ‘populismo’ risale al XIX secolo e per la precisione nasce in Russia: era il nome di un movimento politico e culturale che si proponeva l’emancipazione delle masse contadine e la creazione di una società socialista. Il populismo dunque affonda le sue radici nel socialismo. Nel tempo è stato poi usato indifferentemente per contrassegnare, quasi sempre in accezione negativa, tutte le esperienze politiche che esaltano il popolo e che ritengono il popolo depositario di ogni virtù e di ogni verità. Fino a essere associato alle ideologie più disparate, persino quelle neofasciste. Oggi, per farla breve, il populismo è la denominazione utilizzata dagli establishment per demonizzare tutte le forme di protesta politica e sociale non contemplate e non controllate dall’élite dominante, impaurita da tutto ciò che non può inglobare. Non a caso populismo è diventato a torto sinonimo di demagogia, che non è esaltazione, intesa come capacità positiva di rendere centrali le necessità dei cittadini, bensì raggiro, truffa e inganno.

Il populista è portatore delle istanze politiche e socio-economiche del popolo, il demagogo invece sobilla il popolo.

E il verbo demonizzare non è usato a caso. I paradigmi e gli schemi del Novecento sono crollati da un bel pezzo, spazzati via da oltre trent’anni di neoliberismo sfrenato che hanno modificato profondamente gli assetti sociali, come è evidente nel caso italiano.

Tanto per decominciare non esistono più le classi, o perlomeno non esistono più così come eravamo abituati a conoscerle: quali differenze separano infatti un operaio, un dipendente pubblico, un piccolo professionista e una partita Iva? Nessuna. Tutti compongono un indistinto ceto medio tendente all’impoverimento, una classe di cittadini che ogni giorno perde capacità economica e possibilità di incidere sul piano politico. A questo ceto medio si aggiungono una classe elitaria, una minoranza assoluta della popolazione che detiene il potere e tende ad auto-conservarsi, e una classe di ultimi. Laddove per ultimi vanno intesi gli esclusi, i precari, gli inoccupati, gli emarginati, i senza-orizzonte: centinaia di migliaia di persone di tutte le età, destinate a lasciare la penisola per trovare fortuna altrove.

I punti di riferimento tradizionali sono spariti: lo Stato progressivamente è arretrato, cioè la sua presenza nei settori vitali della società e dell’economia è fortemente diminuita; nuove parole d’ordine come globalizzazione e libero mercato hanno praticamente soppiantato lo stato sociale, la socialità e la collettività; ampie porzioni di sovranità nazionale sono state cedute a entità sovranazionali non legittimate sul piano democratico. In questo quadro le forze politiche classiche, i partiti storici, che a partire dal secondo dopoguerra hanno forgiato le democrazie europee e sono state punto di collegamento tra popolo e istituzioni, hanno smarrito totalmente il proprio ruolo. Più in particolare la sinistra socialdemocratica, tradizionale interprete delle masse popolari e dei ceti medio-bassi, non è riuscita a cogliere le trasformazioni che hanno cambiato volto alla società, finendo per assimilarsi all’élite liberal-moderata che invece avrebbe dovuto politicamente combattere per consolidare e se necessario ri-conseguire i suoi obiettivi storici: l’allargamento dello spazio democratico e l’avanzamento socio-economico degli strati popolari ‘inferiori’. I partiti socialdemocratici europei sono diventati a tutti gli effetti parte del problema: con il richiamo supremo ai concetti di responsabilità ed equilibrio (o, in campo economico, di pareggio di bilancio!), perdendo il proprio ruolo critico, sono diventati a tutti gli effetti parte dell’élite, cioè parte di quel ceto dominante che tende ad auto-conservarsi e a escludere le masse dall’esercizio della democrazia.

Nel XXI secolo il populismo ha trovato e trova linfa vitale proprio qui: in questa forbice sempre più ampia tra ristrettissimi ceti dominanti e masse popolari e nell’immenso spazio politico vuoto non più occupato dalla sinistra tradizionale, incapacissima di comprendere e rappresentare le proteste e le richieste di natura sociale ed economica proveniente dal basso, dalla base, dalla tacita, fortissima e inconsapevole alleanza tra ceto medio e ultimi.

Il populismo, come il riformismo, non è un’ideologia, è un contenitore di ideologie. È un metodo, una strategia, non un insieme di valori ma un insieme di criteri e procedimenti, e può dunque acquistare a seconda dei casi diversa impronta politica. Una delle bugie più vecchie cui siamo abituati è che il riformismo sia necessariamente progressista: niente di più falso. Può esistere anche un riformismo di segno conservatore o, perché no, un riformismo fascista, come il nostro paese ha sperimentato negli anni venti dello scorso secolo. Allo stesso modo possono esistere, e in effetti esistono, un populismo reazionario e ultra-conservatore e un populismo democratico.

Distinguerli è cosa assai semplice.

Il populismo reazionario, ben interpretato dal modello grillo-salviniano, mobilita i cittadini intorno a pochi concetti chiave, tra i quali spicca di gran lunga il ‘nemico’: quello interno, rappresentato dalle incrostazioni pubbliche, dalla corruzione e dalle vecchie classi dirigenti; quello esterno, rappresentato dal diverso, dallo straniero, dall’immigrato, dal non-italiano, per restare sulle vicende nostrane. In poche parole si può dire che il populismo reazionario pone l’accento su aspetti etici e culturali.

Il populismo democratico invece si concentra sui conflitti di natura economica: ad esempio rilancio del ‘pubblico’, equità fiscale, difesa del reddito, rivendicazione di maggiori tutele, potenziamento dello stato sociale, regolamentazione del mercato, creazione o ritorno a sistemi sanitari e d’istruzione universali, tutela dell’ambiente e così via. Politica che guidi l’economia e non viceversa. Presenza dello Stato forte e non minima. Trasformazione e non conservazione dell’esistente.

Per questo motivo alla base del populismo democratico c’è la richiesta di un necessario e non rimandabile recupero di sovranità. Non un anacronistico richiamo autarchico, non un ripiegamento nazionalistico destroide: riprendere sovranità, oggi come oggi, vuol dire poter incidere sull’economia e sulla società del proprio paese. Una capacità che è stata delegata a quegli enti sovranazionali privi di ogni possibile legittimità democratica e che giustamente appaiono agli occhi dei cittadini non come un’opportunità di crescita, ma come un enorme problema, un muro di gomma che rispedisce al mittente ogni richiesta di miglioramento e di avanzamento, o comunque di modifica in senso positivo dello status quo. L’Unione Europea, da questo punto di vista, è il vero ‘nemico’ del populismo democratico, che è pura lotta all’oligarchia e appunto estensione della democrazia. Tutt’altro dunque che una torsione nei propri confini: recuperare sovranità nazionale significa puntare a realizzare una vera Europa dei popoli, fondata sui valori di uguaglianza e solidarietà internazionale e su una piena legittimità democratica.

A ben vedere, oggi gli enormi disagi di diversa natura provati dalla maggioranza delle persone sono lontanissimi dalla sinistra, qualunque aggettivo a questa parola si voglia affiancare: tradizionale, radicale, riformista, progressista e così via. Come accennato in precedenza, tutte le organizzazioni politiche che a essa si sono richiamate negli ultimi tre decenni non hanno più alcuna rilevanza sociale e non riescono più a suscitare alcun entusiasmo. Per essere pratici, equivalgono a dei ferrivecchi e così sono percepite. E per questo motivo la battaglia politica del presente e del futuro non si giocherà più nel vecchio campo cui la sinistra si richiama, ma proprio nel campo del populismo: e a contendersi il campo sociale, e a cercare di controllarlo, saranno i populisti reazionari, già ben presenti sullo scenario politico italiano, come i recenti avvenimenti hanno dimostrato, e i populisti democratici, che sono invece ancora ‘sotterranei’, sebbene ci sia già chi sta provando a costruire la casa più adatta a farli emergere e a raccoglierli.

Da questo punto di vista sembrano davvero inutili gli appelli e i richiami alle armi di questo o quel pezzo di ceto politico, minoranze ormai inadatte e inabili a rappresentare alcunché. L’unico modo per costruire un movimento e/o un insieme di forze imperniati sul populismo democratico che abbiano reale consistenza, e che riescano a conciliare la volontà popolare con un’idea del futuro come quella sopradescritta, è rivolgersi direttamente alla maggioranza: gli ultimi, chi non ha lavoro, i giovanissimi senza punti di riferimento, tutti quelli, e purtroppo sono tantissimi, che pensano di non avere alcuna chance di realizzazione personale restando in Italia. Senza dimenticare, perché no, quelle poche anime inquiete che pure abitano i partiti tradizionali e che senza dubbio attendono nuove e più attraenti prospettive.

Il populismo democratico in breve rappresenta la costruzione di un popolo, di una comunità fondata su reali valori democratici. E questa è l’unica scommessa politica, mi sento di aggiungere, che oggi abbia davvero senso.

Alessandro Zampella

Docente di Letteratura Italiana e Storia. Segretario dell’associazione politico-culturale *e-Laborazione*, socialista, agnostico. Appassionato di mitologie, fumetti, tennis e umorismo fine. Membro della segreteria metropolitana di Napoli di Articolo Uno, con delega alla Scuola