Una distanza di anni e di chilometri: così si allontanano periferie e politica

| L_Antonio

La Chiesa deve «uscire da se stessa» e «andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali». Sono parole di Papa Bergoglio riferite all’istituzione di cui è Pontefice, ma che potrebbero riferirsi alla politica nella stessa misura. Uscire da se stessa, non per scomparire, non per perdersi nella ‘società’, ma per ritrovarsi. Ciò vale tanto più per la politica di sinistra, per il nesso strettissimo che c’è tra ‘periferie’ e ‘ultimi’, che per certi aspetti sono sinonimi. Si dice spesso che il difetto principale dei soggetti politici sia di teoria, e che risieda appunto nell’incapacità di comprendere il ‘nuovo’, qualunque cosa significhi questa locuzione. In realtà, il limite principale di chi fa politica e si candida a governare la cosa pubblica, è spesso un limite territoriale, o esistenziale, o relazionale, oppure di esperienza viva, e sfocia nella più totale incomprensione (o disgusto) dell’altro. Tanto più se è l’ultimo, il più distante, il diverso, il più povero o disagiato, oppure il meno istruito. Un limite che pesa sull’elaborazione politica, la rattrappisce, la rende inadeguata non all’ideologia della ‘novità’, ma al fatto in sé dell’alterità. E se è vero che la sinistra nasce per riscattare questa alterità (sociale, culturale), per democratizzare, per pensare il conflitto che c’è tra competenze e bisogni, tra opportunità e necessità, questo limite sempre più accentuato diventa strutturale e pesa come un macigno sul suo stesso status.

La politica, quindi, andrebbe ‘misurata’ sulla lunghezza e profondità che sa imprimere al proprio ‘sguardo’. E sulla prospettiva che sa indicare a masse sempre più imponenti di donne e uomini. Perché con l’altro spesso ci si imbatte incidentalmente, ma più spesso lo si deve incontrare e incrociare in lontananza, oltre molte barriere fisiche e mentali, in territori distanti, slabbrati, e vuoti oppure in certe esistenze ai margini. Non parliamo di qualche migliaia di disadattati, ma di milioni e milioni di cittadini ‘no chance’, che popolano periferie immense, che delle grandi città costituiscono ormai il 70% del territorio. A cui aggiungere il degrado urbano che spesso si incontra anche nei centri storici. Disagio sociale, bassa istruzione, bisogno diffuso, abbandono antropologico e ‘distanza’ non solo fisica: ecco i principale termini di confronto della sinistra, spesso dimenticati. Fa sorridere, invece, la tendenza attuale ad accompagnare a certi concetti-chiave un numeratore puntato: 2.0, 3.0 o di più. Pensiamo all’industria 4.0 di Calenda, per dire. È il tentativo di proiettare in avanti il linguaggio e i contenuti della politica, in una rincorsa ‘moderna’ e ‘innovativa’, che dà l’illusione di una locomotiva che corre in avanti, e che pretende di risolvere così, in questa corsa, problemi e incognite. Questo nuovismo, questo efficientismo debitore della tecnica, è l’esatto contrario di un rapporto positivo con l’alterità, come sarebbe invece richiesto alla politica di sinistra da un mondo sempre più diseguale e ingiusto.

Il capitalismo globale di questi decenni, le distanze le ha aumentate. Distanze sociali, economiche, politiche, culturali e persino esistenziali, se non antropologiche. È come se la locomotiva corresse perdendo progressivamente i propri vagoni. E così facendo si sentisse persino più ‘leggera’, senza zavorra, pronta ad andare più veloce, senza pensare che una locomotiva che giunge in stazione priva di treno sarebbe una catastrofe abissale, una cosa da pazzi incoscienti. Il treno, difatti, in questi anni è restato sempre più dietro, altro che 4.0. Si rifletta su questo dato eclatante e significativo: una ricerca del 2012 condotta dalla Facoltà di Economia di Roma Tre ci informa che l’aspettativa di vita a Piazza Bologna è salita a 81,27 anni, mentre a Tor Bella Monaca è di soli 75. Sei anni di differenza tra Roma e Non Roma, diciamo così, non sono pochi. Danno l’idea di un mutamento sempre più profondo, di un ‘negativo’ che cresce, di una distanza che si amplia, di antropologie che si allontanano, qualcosa di simile a espulsioni di massa, o a ferite che tagliano in due il corpo sociale o l’esistenza, e che nessuno è più capace di rimarginare. E soprattutto rappresenta per la politica di sinistra una sfida, proprio mentre l’«altro» accresce la propria alterità e, oramai, parla lingue incomprensibili all’inquilino di Palazzo, che risponde al malessere con tweet e regalie. Troppo impegnato, da parte sua, a parlare di ‘crescita’ (che non arriva mai, e ci sarà pure una ragione se le locomotive viaggiano senza più vagoni), di sviluppo, di innovazione, di terziario avanzato e di apericene, listini bloccati e smania di ‘vincere’, dimenticando che la politica democratica è un’impresa collettiva, che riguarda tutti quanti, ed è la più grande sfida mai posta dall’umanità al proprio destino di donne e uomini che abitano la polis.

 

Alfredo Morganti Giorgio Piccarreta

Alfredo Morganti è da sempre appassionato di politica e di sinistra. Ama scrivere. Suona la batteria. Da qualche tempo si è scoperto poeta. Giorgio Piccarreta è funzionario del Comune di Roma. Coltiva orti, letture, l’amore e, fin da piccolo, la passione per la politica. Di sinistra.