Perché è il tempo della sinistra. La relazione di Speranza al congresso

| Articolo Uno

Buongiorno a tutti, 

Gentili ospiti, cari delegati,

Compagne e compagni,

Un congresso è sempre un momento importante nella vita di una comunità democratica come la nostra. Lo è a maggior ragione in un’epoca così densa di cambiamenti e sfide, capace di rimettere in discussione certezze accumulate negli ultimi decenni. 

Ma fatemi partire dai fondamentali. È la prima cosa che voglio dire: dopodomani saremo a Milano alla grande manifestazione del 25 Aprile al fianco dell’Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani. Il valore supremo dell’antifascismo va coltivato ogni giorno. Non dobbiamo mai dimenticare il sacrificio di tanti che hanno dato la vita, negli anni della Resistenza, per la nostra libertà e la nostra democrazia. La Costituzione ha il suo fondamento morale in quella battaglia straordinaria che ha cambiato la storia dell’Italia. 

Per questo, tutti in piazza a Milano il 25 Aprile.

Le conquiste di democrazia e di libertà non possono mai considerarsi definitivamente acquisite. Questo ci insegna la storia. E questo ci dice, purtroppo, la drammatica realtà delle ultime settimane. La Pace, che abbiamo a lungo considerato un traguardo raggiunto nel nostro pezzo di mondo dopo il disastro di due guerre mondiali nella prima metà del Novecento, è negata nel cuore dell’Europa. Ed equilibri geopolitici che apparivano stabilizzati sono rimessi radicalmente in discussione. Addirittura, riemerge la minaccia nucleare come possibile arma finale del conflitto in uno scenario, questo sì, da “fine della storia”. 

Per anni abbiamo coltivato l’illusione che la storia fosse finita: che il nostro destino collettivo si fosse avviato sulla rotta della pace e del riconoscimento dei diritti umani. E l’Europa, epicentro dei due conflitti mondiali, appariva come un’avanguardia di questo percorso di emancipazione. 

Il 24 febbraio cambia tutto, e in una sola notte le certezze si dissolvono. I carri armati russi varcano i confini dell’Ucraina e i missili di Putin iniziano a piovere sulle principali città di uno stato sovrano europeo. Si tratta di un’aggressione ingiustificabile. Un atto scellerato commesso in violazione a tutte le norme del diritto internazionale. Su questo non possono esserci zone grigie o giudizi a metà. 

Non vi è alcun dubbio che ci sarà bisogno di riflettere in profondità sulle relazioni Est-Ovest, sulla grande occasione perduta della fase successiva alla caduta del muro di Berlino, momento di svolta che avrebbe potuto creare le condizioni per un rilancio in chiave nuova dei rapporti tra Russia ed Europa. Ma nulla può far passare in secondo piano la pesante responsabilità della leadership russa dinanzi ad un’aggressione militare che sta causando una vera e propria catastrofe umanitaria in Ucraina. Migliaia di vite umane perdute, la sofferenza di centinaia di migliaia di profughi, una crisi economica che peserà a lungo in Europa e oltre.

Ora l’emergenza è lavorare per la Pace. Serve un immediato “cessate il fuoco”. La diplomazia deve al più presto sostituire il fragore tremendo del conflitto armato. Tutti i Paesi europei si sono giustamente schierati al fianco dell’Ucraina, con l’obiettivo di sostenerla ed evitare che essa potesse soccombere sotto la pressione militare russa. Era ed è doveroso farlo. Non ci si poteva e non ci si può voltare dall’altra parte. Manca però ancora un pezzo. E probabilmente è il pezzo più importante. Non basta solo il sostegno sacrosanto agli aggrediti. Bisogna lavorare, ogni giorno, per rimettere al tavolo le parti e costruire una prospettiva di pace e sicurezza che convinca tutti. Su questo l’Europa, nella sua autonomia, può e deve fare di più. E il nostro Paese, che in altre occasioni ha dimostrato la capacità di costruire ponti e favorire il dialogo, può svolgere un ruolo importante. A due mesi dal 24 febbraio, è questo che ancora non si vede abbastanza. La spirale di violenza e di minacce si avvita senza sosta e non si vede una vera azione politica e diplomatica capace di bloccare l’escalation e favorire la descalation. Serve un’azione di intermediazione subito e a seguire una nuova Helsinki capace di determinare una prospettiva di pace e sicurezza per tutti. 

Questo conflitto offre molte occasioni di riflessione sul mondo di oggi e su quello di domani. In primo luogo, sull’urgenza di rafforzare le istituzioni multilaterali e ripensare le relazioni internazionali. Di questo ci parlerà sicuramente il ministro Di Maio che ringrazio per essere qui.   Penso in primis alle Nazioni Unite, lascito principale del secondo dopoguerra in termini di global governance e grande assente di questa crisi. Oggi è emersa nelle circostanze più tragiche la fragilità delle Nazioni Unite, bloccate dal potere di veto nel Consiglio di Sicurezza.

Occorre esaminare con lucidità e determinazione le stesse prospettive dell’Europa. Il conflitto in corso pone problemi nuovi di Pace e di sicurezza che meritano una risposta coordinata e coraggiosa. In questa ottica va affrontato anche il tema degli armamenti. Lo dico subito con chiarezza: una corsa nazionalista al riarmo sarebbe un errore molto grave e darebbe una risposta sbagliata alla domanda legittima di sicurezza e di pace che oggi purtroppo si ripropone. L’ingresso dei carri armati in Ucraina ha indubbiamente cambiato lo scenario e posto nuovamente il tema di un’Europa come player globale dotato anche di un sistema di difesa autonoma. 

Nei primi giorni del Covid, a febbraio-marzo del 2020, ci siamo trovati dinanzi a un bivio simile. Ricordo perfettamente quelle ore drammatiche che ho vissuto in prima persona. L’immediata reazione al diffondersi del virus tra i principali paesi europei non fu all’altezza della situazione. Pochi lo ricordano oggi, ma Francia e Germania disposero immediatamente un blocco alle esportazioni di presidi sanitari fondamentali. Ci fu una prima risposta d’istinto sostanzialmente nazionalista e di chiusura, con l’illusione che ogni singolo Paese potesse salvarsi da solo. Lavorai molto in quelle ore per convincere i miei colleghi che su quel terreno non avremmo fatto alcun passo avanti, che presto la sfida sarebbe stata davvero di tutti e che solo affrontandola assieme avremmo potuto vincerla. Arrivò la svolta e l’acquisto congiunto dei vaccini, figlio dell’iniziativa di Italia, Germania, Francia e Olanda, avrebbe poi indicato la strada per l’Unione europea della salute a cui stiamo ancora lavorando, che rappresenta la prospettiva vera di rafforzamento e coordinamento della nostra capacità di risposta alle future emergenze sanitarie. 

Su di un terreno ovviamente diverso, oggi, serve lo stesso coraggio. Nessuno può far finta di non vedere i missili e i carri armati in Ucraina. È evidente che c’è una nuova questione di Pace e sicurezza che riguarda tutti i Paesi europei. Ma che risposta proponiamo? Possiamo pensare di alimentare una rincorsa nazionalista tra i Paesi europei, per difendere singolarmente i confini di ognuno? Lo riaffermo con forza: sarebbe una risposta inadeguata e persino pericolosa.  Non credo che il riarmo della Germania sia una questione secondaria negli equilibri geopolitici europei. Serve una risposta radicalmente diversa, che parta dalla necessità per l’Unione europea di rafforzare il suo ruolo geopolitico. È solo in questa prospettiva che va collocato il tema della difesa comune europea, della razionalizzazione e innovazione delle nostre forze di sicurezza. Senza mai dimenticare che il nostro obiettivo è la Pace e che la stessa Unione Europea è stata prima di tutto la più alta risposta politica a due guerre mondiali in pochi decenni, a un passato che vogliamo non ritorni mai più. Questo, sono sicuro, è anche lo spirito che anima i tanti che parteciperanno alla Perugia Assisi.

Perché il passato non torni, tuttavia, dobbiamo evitare di ripeterne gli errori. A partire dal più importante: sottovalutare gli effetti della crisi economica sulla pace: sociale e internazionale. Dopo il rimbalzo dell’economia seguito alla pandemia, che nel 2021 ha prodotto un incremento del Pil italiano valutato al 6,6%, la guerra in corso ci costringe a ritoccare verso il basso le stime di crescita di quest’anno, e a seguire dei prossimi. E non si tratta certo di un fenomeno solo italiano. 

Come reagirà l’Europa? Sapremo dare alla crisi indotta dalla guerra la stessa risposta solidale che, con il Next Generation EU, siamo stati in grado di elaborare per la ripresa post-pandemica? Il rischio che così non accada è alto. Ma oggi non possiamo permetterci un’Europa divisa, confusa ed egoista. Né una politica che chini il capo di fronte alle ragioni dell’economia, anziché governarle. 

Non possono essere le fasce più deboli dei nostri Paesi a pagare il prezzo di uno shock energetico aggravato dalla guerra scellerata di Putin. Considero molto positivo che il Governo italiano sia promotore dell’istituzione di un tetto al prezzo dell’energia da fissare a livello europeo. Ma se l’Europa non si muove non possiamo restare a guardare: i provvedimenti per tutelare famiglie, lavoratori e imprese vanno presi ora senza paura di toccare gli extraprofitti come abbiamo già iniziato a fare.  Ora che le persone non riescono a pagare le bollette. Ora che l’inflazione si mangia gli stipendi e riesplode la questione sociale.

Questo secolo, che si è aperto con gli attentati alle Torri gemelle, che è proseguito con una durissima crisi economica e con una pandemia che ha messo in ginocchio il mondo intero, e che ora ci ripropone alle porte d’Europa la tragedia della guerra, ha il volto di un nuovo secolo breve. In pochi decenni, tutto è cambiato.

Viviamo il tempo di una profonda metamorfosi del processo di globalizzazione che ha segnato gli ultimi decenni: l’idea di una pacifica “occidentalizzazione” del mondo si è rivelata illusoria, il ruolo degli Stati non è scomparso e tuttavia le grandi questioni globali possono essere affrontate solo in un quadro di cooperazione multilaterale. Siamo nel mondo delle reti, dell’intelligenza artificiale, dei big data, dello strapotere della finanza e delle grandi multinazionali. 

È cambiato radicalmente il lavoro, nell’organizzazione, nelle dinamiche, nella gestione di luoghi e tempi. Sono cambiati i modelli di consumo e i percorsi culturali. Sta mutando, gravemente, il clima. 

In questa fase di rapide e profonde trasformazioni, che hanno arricchito pochissimi e spinto ai margini moltitudini, è cresciuta progressivamente una disaffezione dei cittadini nei confronti della politica.

Mi ha colpito il dato ultimo dei giovani francesi che per il 42% hanno disertato il primo turno delle elezioni presidenziali. Desta preoccupazione. D’altra parte, in Italia, all’appuntamento con le amministrative del 2021, in grandi città come Milano, Roma e Torino, si sono presentati ai seggi meno della metà degli aventi diritto. Il partito del non-voto sembra essere già maggioranza. E questa è una terribile sconfitta, di cui la nostra storia ci chiede ragione.

Perché, elezione dopo elezione, cresce l’astensionismo, si riduce il numero di cittadini che partecipano agli appuntamenti democratici?

Perché, crisi dopo crisi, crescono le forze nazionaliste?

Perché le nostre democrazie appaiono affaticate e afone, non sempre in grado di dare risposte non solo alle emergenze, ma alle esigenze quotidiane delle persone?

Sono domande che ci chiamano a una riflessione seria sul rapporto tra politica e società.

Il cuore del nostro problema, il nodo da sciogliere, è la questione sociale. Sono le condizioni materiali di vita e di lavoro delle persone. È l’aumento, nelle nostre società, di intollerabili disuguaglianze.

La questione sociale è una bomba a orologeria innescata proprio dalle disuguaglianze. Disinnescarla è il compito, urgente, che attende la politica e che attende, in particolare, la sinistra.

Nel nostro Paese vive sotto la soglia di povertà assoluta quasi una persona su dieci.La ricchezza si concentra, creando enormi divari di reddito: il 70% della ricchezza in Italia è nelle mani del 20% più benestante della popolazione, le cui condizioni nei primi vent’anni del nostro secolo, a dispetto delle varie crisi, sono migliorate. Mentre sono peggiorate quelle della classe media, con un’erosione costante del potere d’acquisto delle famiglie, ora ulteriormente ridotto dall’aumento delle bollette e dall’inflazione. 

La disuguaglianza frena lo sviluppo. Soprattutto in un mondo in cui la ricchezza in mano ai pochi non produce investimenti e lavoro, e dunque benessere, ma solo altro denaro: un’economia di carta che non accompagna più quella reale, ma la inquina. 

L’Italia è divisa da fratture economiche e sociali sempre più profonde, la prima delle quali separa il Nord e il Sud. La questione meridionale è una parte fondamentale della questione sociale che oggi blocca la crescita. Il Pil del Nord-Ovest d’Italia è quasi doppio rispetto a quello del Mezzogiorno, dove una persona su tre è a rischio di povertà, dove in alcune regioni trovano posto all’asilo nove bambini su cento, dove l’aspettativa di vita è inferiore fino a tre anni rispetto al Nord. Ma la lunghezza e la qualità della vita non possono dipendere dalla geografia. E non è certo una soluzione l’emigrazione, verso le regioni del Nord o verso l’estero, un processo che in dieci anni ha sottratto al Sud circa mezzo milione di abitanti, l’equivalente di una piccola regione, per metà giovani. Questa emorragia di ricchezza e di capitale umano segna una rotta che va assolutamente invertita.

La disuguaglianza sociale aumenta fino a mettere a rischio il diritto a beni pubblici fondamentali, come la salute e l’istruzione. Oltre il 13% dei giovani abbandona gli studi e la percentuale sale oltre il 20% per i figli di genitori che hanno frequentato solo fino alla terza media. Uno dei tanti segnali che l’ascensore sociale in Italia è bloccato: la maggior parte delle persone rimane nella fascia di reddito della propria famiglia d’origine, che in questo modo diventa un destino, quando non una condanna. Un patto nefasto lega le generazioni più anziane e garantite alle più giovani e diseredate, mantenute dai genitori e dai nonni mentre si vedono negare servizi, lavoro, futuro. 

Il lavoro è troppo spesso precario, mal retribuito e alienante. In troppi casi, uccide. Oltre 1200 incidenti mortali sul lavoro l’anno, oltre 55.000 denunce di malattie professionali nel 2021, sono i dati di una guerra. Ma le vittime sono molte di più. Sono il 25% dei lavoratori italiani che percepiscono uno stipendio insufficiente a garantire una vita dignitosa. Sono le donne, per cui l’occupazione è ferma al 50%, che spesso sono costrette ad abbandonare l’impiego quando diventano madri oppure a ricorrere al part-time; e che soffrono di un ingiusto gap salariale rispetto agli uomini, a parità di mansioni. Sono i giovani, che in un caso su tre il lavoro non lo trovano e in un caso su dieci vivono sotto la soglia di povertà, con stipendi sempre più bassi e una retribuzione media oraria che non supera gli 11 euro. Questa povertà diffusa, che riguarda un pezzo significativo del Paese, rende la vita difficile oggi e impossibile domani, con la prospettiva di pensioni insufficienti a garantire una vecchiaia dignitosa.

La troppo scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro è un’ingiustizia, un danno sociale che contribuisce a perpetuare stereotipi tossici e una grave perdita economica per il Paese. “Stesso salario e stessi diritti tra uomini e donne” non è uno slogan, è un dovere. Le donne hanno pagato un prezzo altissimo alla pandemia: è femminile il 70% dell’occupazione perduta nel 2020; e l’aumento delle violenze domestiche ha costituito e continua a costituire un’emergenza nell’emergenza. Sull’uguaglianza di genere, su pari diritti e pari opportunità, non si possono fare passi indietro. Servono un piano nazionale contro la violenza sulle donne e misure decise per il rilancio, il sostegno e la valorizzazione dell’occupazione femminile, a partire dal Mezzogiorno.

Ristabilire una più forte connessione con le lavoratrici e i lavoratori è la condizione indispensabile per rimettere radici profonde nella società italiana. Parole ormai entrate nell’uso comune sono un segno preoccupante. Le donne e gli uomini che perdono il loro impiego non sono “esuberi”, cioè semplicemente numeri, una variabile marginale dei processi di accumulazione. Gli uffici di collocamento non sono “agenzie di somministrazione”, perché il lavoro non si somministra come una medicina, non è una delle tante merci del mercato globale. Il lavoro è la principale risorsa del Paese. È una fondamentale esperienza umana la cui difesa e valorizzazione, oggi, deve tornare al centro del nostro impegno. Anche nella dimensione necessaria di una rimodulazione dei tempi e dei luoghi di lavoro, che consenta un più sano equilibrio tra vita privata e vita professionale.

È urgente disboscare l’attuale giungla delle forme contrattuali chiudendo la stagione della precarietà e della frammentazione. Solo una nuova legge sulla rappresentanza, adeguata alle forme della modernità, può portare a un nuovo patto tra lavoratori e imprese. I lavoratori non possono essere lasciati soli. Vanno affiancati nella lotta per tutele certe e comuni, per la garanzia di diritti fondamentali a prescindere dalla forma contrattuale, per livelli salariali dignitosi, per il diritto alla formazione permanente. 

In un contesto segnato da una pesante crisi occupazionale e dei redditi, considero un grave errore continuare a mettere in contrapposizione l’impegno a far crescere l’Italia, in modo equo e sostenibile, creando lavoro e innovazione, con un sostegno al reddito per chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il reddito di cittadinanza, ci piaccia o no, rappresenta, di fatto, l’unica risposta in campo per milioni di cittadini che vivono in condizioni disperate. Si possono criticare e modificare le modalità di attuazione di questo provvedimento, ma non si deve negare l’idea che sia necessario dare risposte, subito, a chi soffre, e che occorra una misura universale di contrasto alla povertà.

È evidente come la questione sociale e i diritti civili siano strettamente legati e in questo senso la strada da fare è ancora lunga. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Il principio di libertà e uguaglianza, scolpito all’articolo 3 della nostra Costituzione, non ha ancora piena attuazione nella nostra società. Attendiamo ancora – dopo la battuta d’arresto subita dalla legge Zan – una legge contro l’omotransfobia, contro tutte le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Mobbing e cyberbullismo sono in aumento, in particolare a danno dei più giovani, così come aumentano le aggressioni a sfondo xenofobo, i crimini di odio e l’ostilità contro gli stranieri. Rialza la testa persino un vergognoso antisemitismo. Su tutto questo dovremo impegnarci ancora in Parlamento come sulla proposta di civiltà dello Ius Soli.

Il binomio “più mercato, meno Stato” non è la risposta a questo disagio crescente. Ricette propagandate come miracolose mostrano oggi tutti i loro limiti. L’ideologia della mano invisibile, del mercato capace di autoregolamentarsi e di produrre benessere per tutti ha fallito sulla pelle delle persone. Il mercato, da solo, non basta.

Di fronte a questa enorme questione sociale, non può sorprenderci l’astensionismo politico, né la vulnerabilità di tanti a una propaganda populista che sfrutta il senso di abbandono e di rivalsa di fasce sociali sempre più ampie. La doppia crisi del liberismo e della socialdemocrazia ha aperto autostrade per le forze nazionaliste. Oggi, agli occhi di milioni di cittadini, queste appaiono come in grado di rispondere al forte bisogno di protezione sociale che con grande evidenza emerge in ogni Paese. Mentre è vero il contrario. Sono il veleno, non l’antidoto.

Io continuo ed essere convinto, come ha scritto Norberto Bobbio, che la differenza di fondo tra destra e sinistra sia nella “diade uguaglianza/diseguaglianza”. E che la missione della sinistra sia ridurre le diseguaglianze, la distanza tra una sempre più ridotta élite di fortunati e il resto delle persone. Nessuno deve restare indietro. 

Sono urgenti misure di equità, a partire dalla leva fiscale. E’ stato più volte attaccato e messo in discussione l’articolo 53 della nostra Costituzione. Anche in questo caso, sono invece convinto che i nostri Costituenti abbiano indicato la strada giusta: la tassazione deve essere progressiva ed equa. È giusto che chi ha di più contribuisca di più. E che un contrasto efficace all’evasione fiscale metta fine all’ennesima disuguaglianza, per cui evade le tasse chi può permetterselo, caricando il peso, ancora una volta e paradossalmente, sulle spalle dei più deboli.

Andrea Riccardi, che ringrazio insieme ad Antonio Scurati e Maurizio De Giovanni (che sarà con noi domani) per il prezioso confronto che abbiamo avuto sulla nostra mozione congressuale, ha parlato del bisogno, per la sinistra, di tenere insieme cultura e politica. Enrico Letta, invece, ha insistito più volte nel corso di questi mesi sulla necessità, per il Partito Democratico, di avere un’anima. Io sono pienamente d’accordo con la sostanza di queste due affermazioni.

Anima e cultura politica della sinistra, nel tempo nuovo che viviamo, sono temi di straordinaria attualità. Sono il cardine di un’innovazione non più rimandabile nelle nostre proposte.  Non ci sono modelli da adottare, né programmi scritti in un altro secolo da copiare ed applicare. C’è una piattaforma programmatica da arricchire e da adeguare alle sfide del presente. È per questo che ho apprezzato l’idea di Enrico di convocare le Agorà. 

È un impegno da assumere sapendo che c’è differenza tra la capacità di affrontare i problemi di un’epoca nuova e cadere nella trappola del nuovismo, della subalternità culturale, smarrendo le ragioni costitutive e ideali della sinistra.

Giustizia sociale, uguaglianza, solidarietà, emancipazione del mondo del lavoro: i nostri valori fondamentali, le radici della nostra storia, sono di straordinaria attualità.

Cosa è la sinistra se rinuncia a una forte tensione politica per la giustizia sociale? Se si rassegna, invece di combatterla, alla logica dello scarto, alla povertà e all’infelicità delle persone come effetto collaterale accettabile dell’economia di mercato? Cosa è la sinistra se non lotta per dare sempre più dignità e valore al lavoro, per promuovere i diritti sociali e i diritti civili, per abbattere qualsiasi forma di discriminazione e razzismo?

La globalizzazione e la digitalizzazione non hanno superato il conflitto sociale, lo hanno solo riproposto in nuove forme. Non sono bastate da sole a portare benessere diffuso ed equo, come non era bastata la Rivoluzione industriale. I fenomeni, i mutamenti di paradigma, vanno governati e per governarli occorrono idee e valori chiari. Occorrono forze politiche ben strutturate, grandi partiti nazionali e di massa. Senza questi, la sottomissione della politica all’economia, alle élite finanziarie, ai grandi gruppi di interesse non è un rischio, ma una certezza.

Dobbiamo ridare dignità alla parola “Partito”. Veniamo da un trentennio durissimo in cui i partiti sono stati al centro di una campagna di delegittimazione continua. Sono stati individuati come il capro espiatorio di tutti gli enormi problemi del Paese. Una campagna evidentemente interessata, culminata nell’abrogazione del finanziamento pubblico, finalizzata a smantellare i grandi soggetti di rappresentanza collettiva con l’obiettivo, neppure troppo nascosto, che una società senza partiti avrebbe lasciato più spazio all’autoregolamentazione e agli spiriti animali del mercato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non più grandi soggetti con i piedi ben piantati nel Paese e relazioni strutturate con i soggetti sociali, ma comitati elettorali permanenti di una leadership costruita ed alimentata attraverso la comunicazione. 

Voglio andare controcorrente. Io credo che forze politiche con un simile profilo non siano adeguate a rispondere agli interessi del Paese. Se l’obiettivo principale di ciascuna leadership è conquistare consensi per il prossimo sondaggio o aggiungere “like” sulle pagine social, viene definitivamente meno la funzione che la Costituzione ha assegnato ai partiti all’art 49. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quello della scomparsa dei partiti è un grande problema del Paese che non si può far finta di non vedere. Così è più debole la nostra democrazia. E siamo meno pronti ad affrontare le enormi sfide che sono dinanzi a noi. Molti di noi lo hanno toccato con mano nei giorni difficili dell’elezione del Presidente della Repubblica, quando sono emersi tutti i limiti del nostro sistema politico. 

Occorre ricostruire grandi partiti popolari portatori di una chiara e definita visione della società. Noi dobbiamo avere questa ambizione nel nostro campo. Servono forze strutturate e radicate, connesse al Paese attraverso reti di prossimità e non solo attraverso social e televisioni. Non sarà facile. Ma è l’unica strada possibile se vogliamo evitare la definitiva destrutturazione del nostro sistema democratico. Per me la legge elettorale proporzionale ha prima di tutto questo significato. Tornare alla democrazia dei partiti e chiudere definitivamente la stagione dell’antipolitica.

Grandi partiti sono indispensabili per ricostruire all’interno della società un sentimento largo di solidarietà. Perché si cresce tutti insieme o non si cresce. È finito il tempo dell’equazione, facile e sbagliata, tra competizione di tutti contro tutti e competitività del Paese. Solidarietà non è un sinonimo di assistenzialismo o di inefficienza. È la chiave per ridare slancio all’iniziativa personale e collettiva. In quest’ottica, un’idea di crescita che si collochi nell’orizzonte della sinistra ritengo debba essere saldamente fondata nella difesa dei beni comuni. L’Italia dei beni comuni è l’Italia che dobbiamo costruire anche grazie alle risorse del PNRR che consentono di tenere insieme riforme ed investimenti. 

Tre sono in questo senso i pilastri su cui costruire un futuro più sostenibile ed equo. La salute, l’ambiente, e il sistema istruzione/ricerca/cultura.

La salute prima di tutto: “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Con il programma di investimenti e riforme del PNRR abbiamo la concreta possibilità di trasformare una dura emergenza sanitaria in una opportunità di rafforzamento e rilancio della sanità pubblica italiana. Una riforma urgente che è stata impostata attorno a tre parole chiave: prossimità, innovazione, uguaglianza. Facendo tesoro della lezione del Covid, investiamo 7,9 miliardi per rafforzare la rete della sanità territoriale e l’integrazione socio sanitaria. Circa il 41% di queste risorse andranno al Sud. Potenzieremo poi le reti di monitoraggio ambientale realizzando sul campo una forte integrazione tra salute ed ambiente, investiremo sulla sanità digitale, sulle nuove tecnologie e sulla ricerca. 

Sono particolarmente orgoglioso del fatto che per la prima volta l’Italia avrà finanziato con fondi europei, 625 milioni, un PON salute. Non era mai successo. Si tratta di risorse che si aggiungono al PNRR ed all’aumento del FSN che è passato in poco più di 2 anni da 114 a 124 miliardi annui. Prima di cresceva di meno di 1 miliardo all’anno.  Non c’è mai stato un salto così in passato. Bisognerà fare ancora di più.

Il secondo pilastro dell’Italia dei beni comuni è un piano di rilancio culturale. Le chiusure di librerie, edicole, cinema, teatri che in questi anni hanno impoverito il nostro Paese ci dicono che dobbiamo difendere il nostro patrimonio culturale. 

Servono investimenti sulla scuola pubblica che incrementino le risorse, rafforzino gli organici, rigenerino un patrimonio edilizio a lungo trascurato, rendano effettivo il sacrosanto principio del diritto allo studio come necessario punto di partenza per la libertà delle persone. Occorre investire sulla ricerca e sul trasferimento tecnologico. Ed è cruciale favorire l’imprenditoria nel settore dei beni culturali. Creare nuove possibilità di istruzione, formazione, socializzazione e arricchimento culturale, in maniera diffusa nel Paese e in particolare nelle aree interne e montane, significa ridurre anche in questo campo le inammissibili disuguaglianze generate dall’appartenenza geografica e sociale.

Il terzo pilastro dell’Italia dei beni comuni è l’ambiente. La sinistra, oggi, o è ambientalista o è ferma in un altro mondo, in un altro secolo. Questione sociale e questione ambientale, strettamente connesse, vanno affrontate insieme e con identica determinazione. Ridurre le disuguaglianze significa infatti poter governare la globalizzazione. Significa affrontare nel modo giusto le contraddizioni di un mondo sempre più interdipendente, in cui la troppo ampia forbice di sicurezza, benessere e aspettativa di vita tra Nord e Sud del pianeta produce guerre, migrazioni, crisi. 

È indispensabile intervenire a monte e a valle dei processi produttivi, cambiando radicalmente le finalità di progettazione dei prodotti, la gestione dei rifiuti, i modelli di consumo, le priorità della ricerca scientifica, le modalità di erogazione degli incentivi fiscali e l’organizzazione delle nostre città avendo l’obiettivo di ridurre gli sprechi e favorire le energie rinnovabili. 

Tutto questo sarà possibile se smettiamo di considerare l’opzione ecologica come un lusso, da rimandare sempre a quando potremo permettercelo. È invece una scelta inderogabile, per permettere la sopravvivenza di questo pianeta, e un’occasione per creare nuova e buona occupazione e ripensare globalmente, nel segno della sostenibilità, il nostro sistema economico. Il capitalismo può e deve essere riformato tenendo insieme democrazia, libertà, uguaglianza e sviluppo sostenibile. Tenendo ferma l’idea che il futuro della vita sul pianeta, e il benessere delle persone, non possono essere subordinati al profitto. 

“È l’idea di difendere con forza – per parafrasare Enrico Berlinguer – tutte le libertà personali e collettive, tranne quella di accumulare ricchezze inquinando l’aria, la terra e l’acqua e creando lavoro sottopagato, precario ed insicuro”.

Per tutte queste ragioni, nel nostro documento congressuale, abbiamo scritto: è il tempo della sinistra. Questa affermazione non è figlia di un ingenuo ottimismo. Oggi è il tempo della sinistra, perché si può riaprire nella società italiana uno spazio politico dove accogliere milioni di elettori, che avevano scelto l’astensionismo o l’espressione di un voto di protesta.

Certo, guai a sottovalutare la forza della destra.

Tuttavia, la destra può essere battuta. È il tempo di una sinistra che torni a vincere. Il consenso di chi in questi anni si è allontanato non per convinzione, ma per sconforto, si può riconquistare, e dobbiamo saper vedere e cogliere le opportunità per farlo. 

Le prossime elezioni politiche saranno decisive per il futuro del nostro Paese. Ormai mancano meno di dodici mesi. Sta arrivando il tempo delle scelte.

Nell’appuntamento elettorale che si avvicina, la destra sarà competitiva e alla fine unita. Lo è per la semplicità del suo messaggio di fondo che rischia di rafforzarsi e amplificarsi dentro una crisi economica e sociale che le conseguenze della guerra possono accentuare. Al crescere della paura, della frustrazione di chi si vede spinto ai margini, la destra dà un cocktail di risposte del tutto inadeguato ma pericolosamente attrattivo. 

Da un lato infatti si individuano i nemici, i capri espiatori su cui scaricare le responsabilità: gli immigrati in primis, gli esclusi, gli emarginati, scatenando una immorale guerra tra ultimi e penultimi. E dall’alto lato si propongono politiche economiche ultraliberiste, a partire dall’idea della flat tax o della privatizzazione di servizi sociali essenziali, che non fanno altro che accrescere le diseguaglianze. Si indica un nemico facile, come l’immigrato che sottrae risorse e sicurezza all’italiano, e intanto si favorisce in realtà un modello di distribuzione della ricchezza che favorisce largamente chi sta meglio e accresce ancora di più la rabbia sociale di chi è ai margini. Con il risultato di un acuirsi delle fratture nel Paese (immigrato/italiano, nord/sud, ricco/povero, istruito/non istruito, centro/periferia, città/provincia) come cinica strategia di accrescimento dello stesso consenso elettorale.

A questo impianto della destra italiana e delle sue leadership noi contrapponiamo un’altra idea di società e un’altra idea di Italia. È l’Italia dei beni comuni quella che dobbiamo proporre alle prossime elezioni politiche, costruendo un progetto adeguato che sappia essere radicalmente alternativo alla destra.  

Io sono ottimista. Penso che sia una sfida impegnativa, ma vedo uno spazio politico largo. Le vittorie, prima negli Stati Uniti e poi in Germania e Portogallo, segnalano una fase nuova rispetto al tempo dell’ubriacatura neoliberista. Dentro questa fase nuova c’è il nostro compito e la nostra missione.

Siamo pronti noi, in Italia, a metterci in sintonia con questo tempo nuovo? È già in campo una proposta adeguata, capace di convincere gli italiani ed evitare la vittoria della destra? E quale è il nostro ruolo in questa sfida?

Io credo che abbiamo fatto un pezzo di strada, ma che ancora non siamo arrivati al traguardo e che tanto resti da fare. Serve, innanzitutto, una grande forza popolare e in grado di restituire rappresentanza sociale al mondo del lavoro. Un soggetto di ispirazione socialista e democratica che unisca le forze che si riconoscono nella famiglia del socialismo europeo e che si candidi ad essere l’architrave dell’alleanza progressista. 

Siamo stati i primi, già nel 2013 con il tentativo di Pierluigi, a dire che non bisognava rassegnarsi alla divisione tra centrosinistra e 5 stelle. Ci abbiamo creduto testardamente quando sembrava impossibile far cadere quel muro, proprio perché vedevamo che sul punto fondamentale della difesa dei beni pubblici c’era uno spazio importante di condivisione. Oggi, anche grazie al nostro lavoro, quel muro non c’è più. Abbiamo governato in sintonia dal settembre del 2019 e anche in molte realtà territoriali emergono le ragioni dell’unità. Dobbiamo oggi essere consapevoli che costruire un campo delle forze progressiste unito è condizione necessaria per vincere, ma da sola non è certamente condizione sufficiente. Per vincere serve un soggetto centrale della coalizione che sappia trasmettere un segnale di forte cambiamento ed affidabilità. Ed è questo il terreno su cui dovremo impegnarci di più nei prossimi mesi. 

Ho riletto nelle ultime settimane i nostri documenti di Articolo Uno dal momento della nascita nel febbraio del 2018 fino alla mozione di questo congresso. C’è un’idea fondativa che torna sempre. Dalla quale noi non ci siamo mai mossi. È proprio quella di costruire un nuovo Centrosinistra, con un forte ancoraggio valoriale nella nostra Costituzione, e con l’ambizione di governare il Paese per provare davvero a cambiare le cose. Non siamo mai stati velleitari o minoritari. E mai lo saremo. Abbiamo sempre pensato che il compito della sinistra sia incidere realmente sulle condizioni materiali di vita delle persone, costruire ogni giorno un avanzamento, un progresso nelle esistenze reali di milioni di individui. Questa è stata la nostra bussola e personalmente anche ciò che mi ha guidato nella mia intensa esperienza di governo. È quell’idea sana di Alfredo Reichlin di “partito della nazione” che torna. L’idea che rispettare compiutamente la Costituzione, e difendere i valori di eguaglianza, libertà e solidarietà, non rappresenti l’interesse di una parte, ma il bene di tutti.  

Ora, se vogliamo dare il nostro contributo al Paese e alla ricostruzione della sinistra, dobbiamo avere il coraggio di rimettere tutto in discussione. Con questo congresso, con le nostre proposte programmatiche, con le scelte politiche che ci apprestiamo ad assumere ci sentiamo pienamente partecipi del lavoro di ricostruzione di una “sinistra grande”. Ma serve ancora uno scatto. Io credo che le potenzialità del nostro campo siano molto superiori alla somma dei sondaggi che si leggono oggi. Ma serve un progetto politico innovativo che porti il centrosinistra fuori dal suo blocco sociale consolidato di riferimento. 

Di nuovo, i dati delle ultime elezioni in Francia, dove  ci auguriamo che le forze democratiche domenica fermino la destra, devono farci riflettere. È eclatante che il voto delle città più grandi, a partire da Parigi dove la Le Pen non raggiunge il 6%, vada con una così larga maggioranza a Macron e Mélenchon che è addirittura primo se si sommano le preferenze dei comuni sopra i 200 mila abitanti. Ma si nota una inversione radicale, con il trionfo della destra, se si leggono i dati delle province. Una frattura territoriale, ma in primo luogo sociale, che si vede anche nel nostro Paese. E qui c’è il punto su cui serve costruire una sinistra nuova. 

Non possiamo accontentarci di un recinto di rappresentanza fatto essenzialmente di garantiti, ben istruiti e benestanti. Dobbiamo saper interpretare la domanda di protezione di chi è più fragile, di chi vive nella precarietà, di chi non ha sicurezze nel futuro. Credo che l’idea di protezione, così legata all’enorme questione sociale che abbiamo descritto, sia una chiave vera con cui leggere anche i cambiamenti elettorali degli ultimi anni. 

Negli anni più duri del riflusso della globalizzazione noi siamo apparsi, per larghi strati della società, incapaci di capire questa domanda di protezione e abbiamo pagato un prezzo enorme, aprendo la strada in molti Paesi europei a nuovi nazionalismi. In Italia, una parte larga di questa ansia e della conseguente domanda rabbiosa di cambiamento è stata interpretata dal MoVimento 5 stelle. Sarebbe però un errore immaginare di presentarsi alle prossime elezioni con una semplice divisione dei compiti rassegnandosi all’idea che il centrosinistra non sia più in grado di parlare oltre il recinto dei garantiti.

La pandemia ha aiutato molti a capire che esiste una risposta forte e chiara alla domanda di protezione, e viene dallo Stato e dalla collettività. Quando la domanda di protezione prevalente si è connessa alla questione sanitaria è apparso cogente il nostro impegno a difesa dell’universalità dell’assistenza pubblica e del primato del diritto alla salute per tutti. 

Consapevoli di queste lezioni dobbiamo ora attrezzare il nostro campo a questa nuova sfida. Articolo uno è nato per questo. Dobbiamo prendere atto di un tempo nuovo che riguarda anche noi. La mozione che ho presentato al congresso e che ha raccolto oltre il 90 per cento delle preferenze indica una direzione molto chiara su cui dovremo impegnarci, tutti insieme, nei prossimi mesi. Le agorà democratiche, a cui stiamo partecipando, rappresentano sicuramente un momento utile di confronto e coinvolgimento di forze ed energie importanti nel tragitto di costruzione di un centrosinistra nuovo. Ma è chiaro che alla fine di questo percorso programmatico e partecipativo servirà un passo più politico di inclusione, di apertura e di rilancio per superare l’attuale articolazione del centrosinistra e aprire davvero una nuova stagione. Una stagione in cui unire in un percorso comune anche in Italia le forze che già convivono in uno stesso gruppo, a Bruxelles e nel Parlamento europeo.

Questa è la strada che serve al Paese. E noi, se questa sarà la strada ci saremo. Con le nostre idee e con le nostre convinzioni. Con la nostra autonomia e con la consapevolezza che nessuna autosufficienza può avere senso in un tempo di sfide così complesse. Lo abbiamo già detto nelle nostre campagne. E lo ribadiamo oggi. Se si fa la sinistra, che serve all’Italia e all’Europa, noi ci siamo. Noi ci siamo.

Dobbiamo coltivare un giusto orgoglio per le iniziative, le proposte, le lotte che abbiamo condotto in questi anni; un patrimonio da non disperdere ma da mettere a disposizione di un progetto più grande: unire e rinnovare la sinistra. A tutti voi delegate e delegati, a tutti gli iscritti di Articolo Uno, voglio semplicemente dire grazie.

Grazie per il vostro prezioso lavoro e per il coraggio e la passione che dimostrate ogni giorno scegliendo, insieme a me, una navigazione in mare aperto, spesso controvento. 

In conclusione, voglio dedicare queste due giornate a Guglielmo. In questi mesi senza di lui, mille volte mi sono chiesto cosa avrebbe pensato di quanto sta avvenendo. Ci ho riflettuto nei giorni delicatissimi dell’elezione del nostro Presidente Sergio Mattarella, a cui rivolgo il più caloroso saluto e ringraziamento per il lavoro che svolge ogni giorno al servizio del Paese, e ci ho pensato allo scoppiare di questa guerra che sta insanguinando l’Ucraina. Penso che la sua lucida intelligenza e la sua cristallina passione ci manchino tanto. Personalmente mi mancano tanto. 

Ma oggi, ne sono sicuro, sarebbe stato davvero felice di vederci qui insieme, a rilanciare e rinnovare il nostro progetto per il  Paese. Forza. Avanti insieme.

Roberto Speranza

Quarantatré anni. Democratico e progressista. Segretario nazionale di Articolo Uno.