Non sono iscritto al partito di cui Peppe Provenzano è vicesegretario o – come scrive Susanna Turco domenica scorsa su L’Espresso – più prosaicamente “vicedisastro”. Né ho intenzione di diventarlo, una tessera in tasca ce l’ho ed è quella di Articolo Uno che, sempre per Susanna Turco, ormai è ridotto a una specie di succursale del partito di Conte e dell’ordalia post grillina.
Parteciperò alle Agorà, quando partiranno, e proverò a dare il mio contributo di idee, lavorando perché l’approdo sia un nuovo e più largo soggetto della sinistra democratica italiana.
Eppure, leggendo la stampa delle ultime settimane, dove l’obiettivo sembra essere in sostanza quello di prendere di mira quel che resta della sinistra fuori e dentro il Pd, mi domando perché tale prospettiva dia così tanto fastidio. Nel curriculum del vicedisastro Provenzano spicca persino un appello fatto a Unica, la Festa nazionale di Articolo Uno a Bologna, intitolata non a caso “Quello che ci unisce” – non nuovo per la verità – alla ricomposizione dei vari cocci della sinistra in Italia. Festa che è stata bollata come una sorta di summit di non allineati, sfasciacarrozze e sabotatori. Oggetto della polemica naturalmente la presenza di Marco Travaglio, ma sopratutto il tentativo di consolidare l’asse giallorosso come alternativa praticabile e strategica alla destra. In realtà hanno scoperto l’acqua calda: abbiamo sempre lavorato a far cadere il muro di incomunicabilità tra il centrosinistra e il Movimento Cinque Stelle. Non da oggi, ma almeno dal 2013, quando Articolo Uno non era nemmeno lontanamente in programma. Perché allora tutto questo stupore? Mi pare che ci siano ragioni abbastanza evidenti: chiunque provi a dire qualcosa appena fuori dalla grammatica del mainstream rischia di venire dipinto come un estremista.
Non tocca a me difendere Peppe, che sa farlo benissimo da solo, ma siccome il fattaccio è accaduto da noi a Bologna, forse per senso di colpa, forse per un sentimento di solidarietà naturale verso chi subisce un attacco a mio avviso ingiusto, non mi va di stare zitto.
Conosco Provenzano, credo da una ventina d’anni ormai, quando era uno degli animatori di un gruppetto di giovanissimi intellettuali del Sant’Anna che aderirono alla Sinistra giovanile. E io andai a inaugurarne il circolo a Pisa. Per noi era come mettere piede in un tempio, eravamo abituati ad aule universitarie più di frontiera, diciamo. Poi ci siamo persi di vista per un po’, strade politiche e professionali diverse. Non lo ricordo come incendiario, al massimo come un giovane curioso del mondo, in un periodo in cui se ti cimentavi anche sui massimi sistemi non correvi il rischio di essere preso per pazzo, per sfigato o per dissociato.
Raccontarlo come “maoista” perché ha osato criticare l’ingresso di alcuni economisti di matrice liberista – peraltro dal curriculum traballante – nelle varie task force del Governo mi è sembrato francamente un tantino esagerato. Ma siccome il giornalismo investigativo è la principale specialità dei nostri attuali rotocalchi, quotidiani e settimanali può darsi che mi sia sfuggito qualcosa della sua evoluzione politica, non accorgendomi della tardiva conversione a un’interpretazione ortodossa del libretto rosso del Grande Timoniere. Se fosse vero, complimenti ai giornalisti che lo hanno scoperto.
Tuttavia, ho l’impressione che le cose che dice o che fa Provenzano siano semplicemente un pretesto. Il punto principale riguarda chi gestisce gli effetti di lungo periodo di questo refolo di ripresa che sembra affacciarsi finalmente dopo mesi difficili.
Come sempre, chi custodisce il portafogli e distribuisce i soldi.
C’è un piccolo balzo dell’economia, dovuto alla mole di misure espansive in deficit che hanno caratterizzato questo anno e mezzo di pandemia, a cavallo tra i due governi. Le manovre anticicliche che sono state messe in campo hanno evitato il patatrac del nostro tessuto produttivo del paese, limitato gli effetti delle chiusure su lavoratori e imprese, offrendo una gamma di ammortizzatori sociali senza precedenti per la diffusione capillare in quasi tutte le pieghe della società. Senza questi paracadute oggi non staremmo a parlare di un Pil in rialzo. Ma il segno più non significa automaticamente maggiore equità. Né automaticamente lavoro buono e duraturo. Per questo abbiamo davanti mesi ancora difficili, come ci raccontano le vendette via whatsapp a interi comparti produttivi delle multinazionali dopo la fine del blocco dei licenziamenti.
In ballo non c’è la stabilità di governo, che andrà avanti tranquillo fino almeno all’elezione del Presidente della Repubblica.
Nemmeno le elezioni amministrative si presentano come uno scoglio insormontabile: il ritorno alla naturale dialettica bipolare nelle città difficilmente finirà per scalfire l’equilibrio del governo Draghi. Al massimo qualche tono un po’ più alto nei ballottaggi.
Ma è un rischio calcolato e penso che, qualunque sia il risultato che uscirà dalle urne, non si rivelerà automaticamente come una prova generale delle elezioni politiche. Abbiamo imparato nel corso degli anni che le amministrative sono una partita a sé e che il fronte progressista riesce a imporsi con più scioltezza nelle grandi aree urbane, diradando invece il suo consenso mano a mano che si allarga la frattura tra centro e aree interne.
La partita vera invece riguarda l’agenda dei prossimi mesi del Parlamento e del governo. Dove giochiamo su due fronti altrettanto scivolosi: uno esterno e l’altro interno. E qui il clima comincia a cambiare. Salvini proverà a scorrazzare in maniera un pò più spregiudicata nelle praterie regalate precedentemente alla Meloni, lasciata a fare la guardia al bidone dell’opposizione mentre il blocco amministrativo e imprenditoriale del Carroccio imponeva al signore del Papeete di sedersi al tavolo del Recovery.
La lingua batte sempre dove il dente duole: la paura dei migranti. L’instabilità permanente della sponda nord dell’Africa – i riflettori dovrebbero essere accesi con più attenzione sulla crisi tunisina e sull’appuntamento ancora non certificabile delle elezioni presidenziali libiche del dicembre prossimo – rischia di restituire alla Lega quella funzione di lotta e di governo sulla quale ha sbattuto la testa sin dai primi passi del governo Draghi. Come è noto, Salvini è un uomo sostanzialmente privo di principi e se vede un varco dove inserirsi non ci pensa due volte: una questione di sopravvivenza.
Un atteggiamento che fa il paio con la campagna ormai martellante contro il reddito di cittadinanza. Assistiamo senza battere ciglio alla riproposizione – che non è un unicum nella storia italiana – di un qualunquismo neopadronale che agita i soliti fantasmi per imporre un’agenda più aderente ai suoi interessi parassitari: provare a prendere dallo Stato quanto più possibile, senza restituire mai nulla né sul piano fiscale né su quello sociale. D’altra parte, nessuno si scandalizza quando l’Inail ci racconta che l’86 per cento delle imprese risulta non in regola con le normative sulla sicurezza del lavoro, mentre se spuntano cinque sussidi di troppo ai poveracci, scatta l’allarme rosso dei moralisti della domenica e giù i titoloni dei giornali a tutto spiano. In un paese senza salario minimo legale, dove la giungla dei contratti ha messo a dura prova la funzione insostituibile della contrattazione collettiva nazionale, il reddito di cittadinanza è diventato un calmiere naturale: sotto una certa soglia di salario non si può scendere, non è accettabile lavorare. Una pretesa evidentemente odiosa per chi pensa che il lavoro sia “spaccarsi la schiena” e non uno strumento di emancipazione, di libertà e di dignità.
La verità è tutta qui: c’è uno scivolamento reazionario di un pezzo della borghesia italiana che vuole il ritorno del pilota automatico e che pensa che questo passi per la beatificazione di un Leviatano che spazzi via le pretese della politica di agire direttamente sull’economia, non limitandosi a lavorare ai margini dei vincoli di bilancio e della volontà assoluta delle imprese senza controllo e senza verifica. Vuole la politica ridotta a fare anticamera di un potere liberato dalla fatica della democrazia.
Tutto questo persino al netto della volontà del Leviatano stesso, vero o presunto che sia. Ma, si sa, i tifosi fanno sempre danni, soprattutto quando scambiano la penna con il bastone.
Dunque, la questione sociale sarà lo snodo dei prossimi mesi. Il vero e unico fronte interno. Con la crisi sanitaria ancora viva, le aspettative che si sono accumulate sul Pnrr non possono andare deluse. Espansione e redistribuzione devono camminare insieme, altrimenti il Recovery stesso produrrà una nuova frattura tra vincitori e vinti, a partire dalla sfida della transizione ecologica e digitale. Se è vero che la pandemia ci ha consegnato una domanda di protezione più forte, lo schieramento progressista deve lavorare senza esitazione su questa traccia, rivalutando la funzione di uno stato innovatore, restituendo al lavoro rappresentanza, potere e unità, difendendo i beni comuni come la salute, la formazione e l’ambiente da nuovi attacchi speculativi e privatizzatori, reintroducendo una leva fiscale progressiva e generale.
Lavorare alla definizione di questa agenda è il minimo sindacale se vogliamo evitare di essere travolti dall’ambivalenza della destra, capace di presentarsi nuovamente come la causa e la soluzione dei malesseri sociali alimentati dal suo matrimonio con il liberismo. Vogliamo – come abbiamo sempre dimostrato nella nostra storia – tutelare gli interessi generali del paese, ma partendo dal pezzo di società che nel corso degli ultimi anni ha pagato di più la diminuzione delle tutele, dei diritti, dei salari.
Se è questo che infastidisce di Provenzano, di Articolo Uno e di qualsiasi altra forma di vita a sinistra ce ne faremo una ragione.
La politica non è un concorso di bellezza, non si può piacere a tutti. I ricchi d’altra parte hanno già abbastanza guai per farsi difendere da gente come noi.