Pandemia e opportunità: i piccoli borghi che curano l’Italia

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La grave emergenza sanitaria che stiamo attraversando potrebbe aggravare le condizioni di fragilità sociali ed economiche di molte aree del nostro paese, accentuando disuguaglianze e ingiustizie che potrebbero riemergere. Proprio nei momenti più drammatici, tra calamità naturali e pandemie contagiose, l’impatto economico e sociale si aggrava e si riversa nelle aree più a rischio o più vulnerabili per la sospensione delle attività lavorative. In questo senso è compito della politica ripensare o ridefinire tutti quei processi democratici che possano evitare queste disparità. Vanno prese decisioni ragionate e che possano guardare all’orizzonte di un futuro più equo e solidale per tutti i cittadini.

L’attuale governo Conte, in questo momento, è l’unica garanzia possibile per riuscire a venir fuori da questa crisi e da eventuali conseguenze disastrose prodotte dai mutamenti in corso nella nostra società. Ma da cosa ripartire? Abbiamo il dovere di ripartire da quei territori dove si potrebbero aggravare i problemi dell’esclusione legati alla pandemia: mi riferisco alle cosiddette “aree interne”, caratterizzate da piccoli comuni e piccoli borghi, che risentirebbero di squilibri sociali, economici e culturali rilevanti.

In tal senso può essere utile riprendere in considerazione alcune norme, tra l’altro già vigenti, che possano valorizzare e aiutare queste aree svantaggiate della nostra penisola.

Era già accaduto con la legge sui “piccoli comuni”, la legge n. 158 del 6 ottobre 2017, approvata all’unanimità nella XVII legislatura e detta “Legge salva Borghi”. A questa legge seguirono Direttive del Ministro per i beni e le attività culturali e per il Turismo, ad esempio la direttiva del 2 dicembre 2016 n. 555, con la quale si istituì l’Anno dei borghi italiani-2017: una linea strategica del MiBACT che intendeva valorizzare il patrimonio artistico, culturale, naturale dei Comuni delle regioni del sud.

Se ci pensiamo bene, siamo un paese formato in buona parte da piccoli borghi: l’Italia possiede poco meno di 8.000 comuni e quelli con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono 5.564 (pari a quasi il 70 per cento del totale) dove vivono 11 milioni di cittadini. Sono aree interne, che vanno dall’arco alpino alla dorsale appenninica, comprese le isole maggiori, sistemi territoriali dove si sono instaurati “delicati” ed esclusivi rapporti tra uomo e paesaggio, tra uomo e territorio. Sono piccole realtà nelle quali sono presenti marcate condizioni di arretratezza economica e fenomeni di riduzione della popolazione residente.

I numeri di questa pandemia da Coronavirus parlano chiaro: l’epidemia ha solo in parte colpito questi paesini dell’entroterra e nella maggior parte dei casi queste aree sono risultate “Covid-free”, dimostrando la loro capacità di essere luoghi della cura, “vaccini naturali” utili a combattere l’attuale situazione sanitaria. Forse nel futuro prossimo scopriremo i vantaggi di vivere in questi “centri minori”, unici ed irripetibili, fatti di buone pratiche quotidiane: tempi e ritmi dilatati, la sana alimentazione (la dieta mediterranea e il suo riconoscimento UNESCO), l’indiscutibile qualità dell’aria che si respira, rapporti sociali autentici, l’assenza di patologie psichiche o psichiatriche, l’intatto rapporto con l’ambiente circostante per lo più costituito da territori rurali e incontaminati.

Vantaggi intesi come circostanze favorevoli, da tutti i punti di vista, che possono restituire condizioni di crescita e di sviluppo da valorizzare adeguatamente. Questo dovrebbe fare la politica, riuscire a concepire nuove opportunità capaci di produrre una qualificata economia basata sull’identità locale, sui valori propri delle comunità.

Purtroppo, ad oggi, la legge n. 158 del 6 ottobre 2017, detta “Legge salva Borghi” manca ancora dei decreti attuativi previsti dal provvedimento, indispensabili soprattutto per sbloccare le risorse. Forse proprio in questo momento sarebbe utile sollecitare il governo affinché assuma urgentemente tutte le iniziative per dare completa attuazione ai decreti e sbloccare, finalmente, il Fondo costituito da 100 milioni di euro previsti inizialmente fino al 2023 e poi incrementati a 160 milioni nella legge di Bilancio per il 2017. Risorse finanziarie rimaste, sino ad oggi, inutilizzate.

Oggi abbiamo la grande occasione offerta dal Recovery Fund che ha previsto per l’Italia 209 miliardi di Euro e che potrebbe essere di aiuto: parte di questi soldi potrebbero essere utilizzati per sbloccare le risorse messe a disposizione e per ridare dignità a una legge sospesa ma utile al nostro paese. I finanziamenti dovrebbero rafforzare l’attrattività dei borghi e dei piccoli centri storici, attraverso il restauro e il recupero di spazi urbani, di edifici storici o culturali, nonché attraverso la valorizzazione degli elementi distintivi e del carattere identitario dei luoghi.

Ma per migliorare ulteriormente la qualità di questi posti bisognerebbe potenziare le condizioni di accessibilità e dotare queste comunità d’infrastrutture per la mobilità sostenibile, l’erogazione di servizi e sistemi (anche innovativi ed eco-sostenibili) per l’accoglienza turistica, indispensabile fonte di reddito. Inoltre si potrebbero favorire processi di crescita economica attraverso il ripristino del territorio che, a causa dei cambiamenti climatici, è soggetto ai rischi del dissesto idrogeologico. Altro tema cogente e attuale riguarda l’ambito della prevenzione dal rischio sismico con interventi finalizzati al consolidamento statico e antisismico degli edifici storici e alla loro riqualificazione energetica.

Tutto questo potrebbe “sollecitare” nuove possibilità, una nuova concezione del modo di vivere: molte sono le persone che decidono di lasciare le grandi città, troppo caotiche e intasate, per spostarsi nei piccoli paesini di provincia. Una scelta coraggiosa, modernissima e rispettabilissima. Ma allo stesso tempo andrebbe valorizzata con politiche attente. Parlo di rovesciare il paradigma e pensare di “ritornare” a vivere nei piccoli borghi dal fascino antico e dall’esistenza tranquilla. È una possibile strada da percorrere.

In questo ragionamento potremmo considerare anche i piccolissimi “borghi rurali” nati dal processo di riforma fondiaria avviato con le leggi del parlamento italiano a partire dal 1950, fondati in alcune grandi aree del territorio italiano. Nel pieno del dopoguerra si pensò di dare alla gente meno abbiente un piccolo possedimento terriero per poter ”campare”: un pezzo di terra coltivabile con casa colonica a seguito. I borghi rurali furono un esperimento sociale unico per quei tempi e di grande portata culturale, oggigiorno riscoperti anche dal punto di vista turistico. La ricerca emotiva del contatto con la campagna autentica, spesso assolata e calda d’estate, descritta da vari autori italiani: uno su tutti Niccolò Ammaniti con il suo libro “Io non ho paura”.

In conclusione la legge Salva Borghi potrebbe dare, attraverso opportune modifiche legislative, la possibilità concreta per recuperare molte aree interne italiane, le uniche capaci di possedere quei “valori autentici” che sono alla base di una esistenza appagata. Una politica attenta ai bisogni della gente dovrebbe incentivare la ricerca di nuove opportunità di vita più dignitose, sia dal punto di vista personale che collettivo. Un riscatto sociale autentico che possa guarirci dai mali del nostro secolo.

Giuseppe Lapolla

Laureato in Architettura presso il Politecnico di Bari, indirizzo urbanistico, paesaggista ed esperto in materie ambientali. Membro della segreteria di Articolo Uno “Terra di Bari”. Componente ICOMOS Italia (Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti) e facente parte del Comitato Scientifico nazionale CIVVIH