Ora una costituente della sinistra. Non è il tempo delle risposte ordinarie

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La sconfitta è senza appello. Abbiamo la destra peggiore prossima a occupare Palazzo Chigi e un campo di opposizione diviso e frammentato.

Quando perdi è sempre colpa tua, e dunque devi ripartire non solo dall’analisi degli errori più recenti, ma anche e soprattutto da una lettura severa delle cause profonde di una frattura tra la sinistra e larghi strati popolari che sarebbe miope collocare nel tempo breve e crudele di una singola campagna elettorale. Chi si limita a fare questo o non ha capito niente oppure sta gettando le basi per la prossima sconfitta.

Invece ora abbiamo bisogno di usare bene il tempo per una rifondazione che non può ridursi né a una “gazebata” su un leader né all’ennesima soluzione mediana che non scioglie il nodo dell’identità di una sinistra popolare e di governo.
Non penso di entrare in contraddizione se dico che occorre “rapidità” per mettere su da subito un dialogo tra le opposizioni che sbocchi in un coordinamento unitario nelle istituzioni e nel paese e contemporaneamente “lentezza” nel pensare a come rilanciare una “fase costituente” della sinistra democratica di questo paese.

Rapidità e lentezza, opposizione e ricostruzione.

Per questo oggi vale la pena insistere sulle domande che non ci siamo mai fatti. Perché ci sono intere aree del paese dalle quali siamo ormai praticamente espulsi quando il voto diventa politico e si tratta di scegliere tra diverse idee di società e non semplicemente tra chi amministra meglio i fondi per gli asili nido? Forse le domande ci aiutano meglio ad analizzare la sconfitta e a provare a mettere in piedi una ripartenza vera, libera anche dai posizionamenti di queste ore che a questo punto non hanno granché senso. Se non per rianimare qualche forma di narcisismo triste, solitaria y final.

1. Perché sinistra e questione sociale non sono più sinonimi? Se la politica può solo agire sui margini e mai più sul cuore dei rapporti di forza economici e sociali, la sinistra non ha più motivo di esistere. Non è una cosa nuova, sta dentro un trentennio di ritiro della mano pubblica dalla direzione dell’economia e un ridimensionamento dello Stato come argine di protezione alle diseguaglianze. L’Europa – sulla quale scommettiamo senza se e senza ma – non è riuscita a sostituirsi a questa funzione, continuando ad apparire a seconda delle fasi storiche poco più di un salvagente che ti tiene a galla senza cambiarti la vita. Lo vediamo rispetto all’infezione astensionista – oltre il 35 per cento degli aventi diritto non va a votare – che è la grande questione democratica del paese. Siamo al punto limite della rottura sociale: c’è un esercito di persone – soprattutto tra le fasce più povere e meno istruite – che interpreta l’inutilità del voto come una manifestazione implicita di protesta verso un sistema che non garantisce più l’ascensore sociale. La fine della politica equivale alla crisi della sinistra così come l’abbiamo conosciuta e il voto italiano ci racconta che questo è l’ultimo battito d’ali della matrice novecentesca del movimento socialista europeo alla quale apparteniamo tutti, i più riformisti come i più radicali. Riemerge – non se ne è mai andata per la verità – una nuova questione meridionale che il voto preponderante ai Cinque Stelle di Conte racconta in maniera inequivocabile. Fu così già nel 2018, oggi arriva la conferma. Il reddito di cittadinanza è una misura imperfetta e parziale ma è stata forse l’ultima operazione significativa di spesa pubblica dalla fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Che ha parlato direttamente a un’area del paese disperata e impaurita: è stato un voto di legittima difesa verso chi minacciava di abolirlo (destra e Calenda), ma anche verso chi come noi non riusciva a spiegare in che direzione voleva cambiarlo. Chi dà un giudizio moralistico su questo orientamento elettorale sfugge chiaramente a un principio cardine della democrazia moderna: il voto si esprime certamente attorno a una fascia di valori, ma anche soprattutto attorno a una gamma di interessi sociali. Larga parte del sud ha votato guardando a chi si presentava come il difensore più leggibile dei suoi interessi. Il resto dell’offerta politica appariva quasi una minaccia. E la sinistra percepita quasi come un’estranea, affidabile magari di amministrare una città o una regione, ma totalmente inadatta per combattere la frattura sociale.

2. Quali sono le radici della vittoria della destra? L’elettorato di destra in Italia esiste e ha un nocciolo ideologico molto più solido e duraturo del centrosinistra. Sa chi rappresenta e non ha bisogno di aggiornare le proprie parole d’ordine. Dio, patria e famiglia è stato il sottotitolo dal 1994 in poi anche quando l’egemonia era berlusconiana. È chiaro che con la Meloni c’è un salto di qualità oggettivo, c’è l’illusione di una svolta autoritaria – sì, va chiamata con questo nome perché il presidenzialismo non è altro che l’allusione all’uomo solo al comando – c’è la certificazione del ripiegamento della globalizzazione e il ritorno della retorica delle piccole patrie. Larga parte della borghesia italiana, salvata dal vincolo esterno esterno in questi anni, ha pensato come sempre che il soccorso al vincitore la salvasse dalla necessità di fare i conti con la sua incomprimibile allergia ai meccanismi del suffragio universale e al patto fiscale. Assolve Giorgia Meloni anteponendo l’adesione alla coperta un po’ lunga dell’atlantismo a una dichiarazione chiara e tonda di affidamento ai valori insostituibili della Repubblica: l’antifascismo e la Costituzione nata dalla Resistenza. Insomma, prima il portafoglio. Persino Letta, che ha un’estrazione riformista e cattolico democratica, finisce per essere rappresentato come un parente troppo prossimo alla sinistra novecentesca. Questi traumi infantili di classi dirigenti sempre sull’orlo del sovversivismo contribuiranno a scassare definitivamente i conti dello stato e la credibilità del paese nel mondo. È già successo in passato, ma non sarebbe la prima volta che la storia si ripete come farsa e che sul piatto di questo accordo finisce la Costituzione come moneta di scambio.

3. Perché bisogna chiudere la stagione delle agende tecniche? Il Governo Draghi nasce dallo strappo cinico di Renzi che fa cadere un esecutivo popolare e apre la strada alla destra di nuovo al potere. Non potevamo sottrarci all’appello di Mattarella, eravamo in piena pandemia e c’era da mettere a terra il Pnnr. Rivendico quella scelta di unità nazionale, anche perché la sinistra non può mai separare se stessa dal destino del paese. Ma quello era un governo dichiaratamente senza formula politica e per antonomasia era privo di un’agenda. Draghi stesso, che è più sveglio dei suoi esegeti, ha ribadito che l’agenda – da alcuni agitata alla stregua del libretto rosso di Mao – non è mai esistita. Gli italiani hanno indubbiamente vissuto traumaticamente quella caduta. Ma come? La politica, anziché preoccuparsi dell’inflazione alta, della guerra che torna, delle bollette che aumentano, si guarda l’ombelico e pensa che la priorità sia una percentuale elettorale in più e non il futuro del paese? La domanda di stabilità dei governi non è un bene in sé – non ripetiamo questo errore anche ora che al governo ci sarà la Meloni, se abbiamo l’occasione di buttarla giù facciamolo senza pensarci un attimo – ma ci sono passaggi della storia dove la richiesta di protezione dei cittadini va ascoltata anche al netto delle convenienze immediate. Questa reazione è durata però poco meno di due settimane, poi le persone hanno detto: “cosa fatta capo ha”. E si sono guardati intorno. E hanno premiato la destra che ha letto meglio la domanda di protezione. La cantonata presa dall’intero circo mediatico è abbastanza clamorosa e conferma il distacco di un pezzo di establishment dal paese reale. Un minuto dopo il voto hanno scaricato Letta, rinfacciandogli persino l’assenza di quell’alleanza giallorossa sapientemente bombardata nei tre anni precedenti. Nulla di nuovo, basta sapere soltanto che di amici in giro se ne troveranno pochi nei prossimi mesi, di dispensatori di cattivi consigli invece tantissimi.

4. Si poteva fare il campo progressista più largo e competitivo? La destra probabilmente avrebbe vinto lo stesso: era il suo turno e lo dimostrano gli esiti elettorali in giro per l’Europa. E le alleanze non sono mai la somma algebrica delle identità. Soprattutto a sinistra. Eppure, una strada tecnica per stressare al massimo una legge elettorale truffaldina, l’ultimo frutto avvelenato del renzismo, andava perseguita. L’ignobile Rosatellum non implica nessun accordo programmatico, nessuna intesa sulla leadership, nessun contrassegno comune. Dopo due settimane di scazzottata dalla caduta del governo Draghi, andava tentata quella strada. Abbiamo provato a dirlo come Articolo Uno, purtroppo in splendida solitudine. Probabilmente Conte avrebbe rifiutato ugualmente – il suo calcolo era lucido e, siccome ho stima di lui, non penso che abbia agito soltanto sulla base di una scia emotiva – ma non sarebbero restate zone d’ombra sul campo. I Cinque Stelle per salvarsi avevano bisogno dell’ennesimo giro contro tutti. Pur avendo perso 5 milioni e mezzo di voti rispetto al 2018 – credo che solo i socialisti francesi e il Pasok abbiano subito una sconfitta così significativa tra un’elezione e un’altra nell’Europa occidentale – sono apparsi ancora una volta come il punto di alternativa al sistema. In democrazia non conta solo quello che si è, ma anche come si appare. Loro hanno lavorato ancora una volta giocando con la discontinuità con se stessi – opposizione e governo insieme -, noi siamo diventati il drappo rosso su cui si sono accanite tutte le contraddizioni di quella “democrazia ansiosa” quale l’Italia è diventata. Siamo stati il bersaglio della rabbia e dell’incazzatura, il residuo delle occasioni perdute su cui accanirsi: prenderne atto non significa rinunciare a una prospettiva progressista, ma capire che rifondare è necessario. Di Calenda non parlo: la sua volubilità politica e intellettuale interroga la psicanalisi. Ha costruito una danza macabra sulla sconfitta del centrosinistra, lucrando sul Pd. Come dice Bersani: si mettono in mezzo per contare sul dopo. C’è da scommettere che tempo un anno e andranno in soccorso alla destra peggiore d’Europa. Dipenderà soltanto da quando i loro mandanti schiocchieranno le dita.

5. È l’ultimo giro della sinistra o si può rifondarla? Nonostante tutto, io credo che questo sia il tempo nostro, non quello della destra. La destra non legge la frattura profonda che c’è nella società italiana ed europea: è solo portatrice di una scorciatoia. Intendiamoci, quella scorciatoia può significare manganello quando la situazione sociale si farà cattiva, come è già stato in anni bui. Rialzano la testa pensieri regressivi che nessuno di noi avrebbe voluto ascoltare: disprezzo per le minoranze, oscurantismi inquietanti verso la scienza, odio per l’autodeterminazione delle donne. Eppure il bisogno di solidarietà e di comunità è più forte dell’egoismo: lo abbiamo visto negli anni più difficili della pandemia, quando generazioni diverse si sono prese per mano e hanno cercato di mettere davanti il diritto alla vita rispetto alla logica del profitto. Non siamo mai stati così solidali come quando siamo stati distanziati socialmente. Partiamo da qui.

Il campo va ricostruito, la politica delle alleanze è l’abc di qualsiasi partito politico: ce lo hanno insegnato da bambini, quando entravamo per la prima volta in una sezione. Ma per farle dobbiamo pensare innanzitutto a motivare un popolo, a restituirgli un tetto, una militanza, una missione. Per la prima volta il centrosinistra e in particolare il Pd è stretto tra due fuochi. A destra un centro liberaldemocratico che punta a chiudere la stagione del Pd come “grande tenda pigliatutto”. A sinistra l’opzione Conte – che non si dichiara di sinistra semplicemente perché per sua stessa ammissione non lo è – che punta esplicitamente a un’opa sul campo dei progressisti. I Cinque stelle non sono quelli del 2013 o del 2018: superata l’ambiguità “oltre la destra, oltre la sinistra” puntano dritto a sostituirci, per quanto l’analisi dei primi flussi ci dica che non hanno recuperato praticamente nulla nell’elettorato tradizionale della sinistra. Ma il nostro problema non sono loro, siamo noi. Fanno il loro mestiere: vogliono occupare uno spazio e recuperare consenso. Questa tenaglia può ucciderci.

Letta ha detto: abbiamo evitato di fare la fine dei socialisti francesi, stretti tra Macron e Mélenchon. Vero, ma non sta scritto da nessuna parte che sia un’assicurazione per il futuro, i cicli cambiano e certe profezie possono persino avverarsi. Sarebbe un disastro se la reazione fosse chiudersi ciascuno in un fortilizio.

Vale anche per noi di Articolo Uno, che abbiamo assunto non senza lacerazioni una decisione molto difficile e sofferta e che dobbiamo a mio avviso avere la forza di fare una discussione profonda e strategica sulla nostra funzione e sulla nostra prospettiva. Questo voto interroga i limiti del Pd, ma anche quelli nostri, saremmo miopi nel rimuoverlo.

Serve un processo costituente per una forza politica nuova – nome, simbolo, modello di organizzazione – che dica chiaramente chi vuole rappresentare, per cosa si batte e contro quali interessi milita. Non si può tenere tutto insieme: oggi torna una domanda di voto identitario. Italia democratica e progressista ha iniziato a mettere insieme culture politiche diverse, quelle che hanno fondato la Costituzione repubblicana: partiti, associazioni, movimenti. Varrà poco, ma il programma della lista unitaria è stato quello più in discontinuità con la sinistra della “terza via” di sempre. Perché non è bastato a riconquistare gli strati popolari che ci hanno lasciato? Perché i programmi sono “bandiere piantate nella testa dei popoli” come diceva Federico Engels: conta il messaggio di fondo, non solo la lista delle proposte. E quel messaggio non siamo riusciti a farlo arrivare. Per questo dobbiamo ripartire dalle fondamenta, non dal tetto.

Le leadership verranno, ma partire ora dai nomi significa non aver capito davvero niente. Promuovere una discussione diffusa, chiedere a tutti – quelli con la tessera e quelli senza tessera – di partecipare a definire i connotati della sinistra del futuro. Questa chiamata larga deve coinvolgere anche quei corpi intermedi – penso ai sindacati confederali come al terzo settore diffuso, Arci, Acli, Legambiente e tanto altro – che avranno nei prossimi mesi a che fare con il governo più a destra di sempre. Anche per loro suona la campana: l’autonomia, che è un bene da custodire per tutti, deve incrociare il tema della ricostruzione di una rappresentanza sociale e politica della sinistra di fronte a questa destra. Dunque un processo costituente: non si risponde a fasi straordinarie con risposte ordinarie.

Arturo Scotto

Nato a Torre del Greco il 15 maggio 1978, militante e dirigente della Sinistra giovanile e dei Ds dal 1992, non aderisce al Pd e partecipa alla costruzione di Sinistra democratica; eletto la prima volta alla Camera a 27 anni nel 2006 con l'Ulivo, ex capogruppo di Sel alla Camera, cofondatore di Articolo Uno di cui è coordinatore politico nazionale. Laureato in Scienze politiche, ha tre figli.