Nel 2008, dopo la catastrofe politica dell’anno precedente, il Centro Riforma dello Stato pubblicò le “Undici tesi dopo lo tsunami”. Punto centrale del documento era l’idea che la crisi della politica non fosse solo una crisi di rappresentanza, ma una crisi di direzione tout court. Nella sua relazione al seminario di discussione delle tesi (non a caso intitolata “Fare società con la politica”), Mario Tronti ne specificò il senso in una domanda: “Quando acquisiremo l’idea che governo non è gestione, ma è direzione, cioè forma istituzionale di organizzazione del sociale?”. Tronti non negava l’opportunità di ‘ascoltare’, ma rivendicava soprattutto la necessità di imprimere una direzione politica alla società: un soggetto politico esisteva per questo, per dirigere, mica per reggere la coda a qualcuno o qualcosa, fosse stato anche un ‘popolo’. Forzando un po’ questa posizione potremmo dire che il ‘popolo’, appunto, non lo si ritrova in natura, ma è il frutto di un lavoro di direzione politica che oggi manca, surrogato da un (presunto) ‘ascolto’ che subordina la politica (e ne rafforza la crisi) agli impulsi sociali e alle grida sempre più ‘immediate’ (De Rita parla di una società dell’immediatezza) che sorgono dal suo fondo.
Dicemmo in un intervento che Tronti aveva ragione da vendere, ma che era sbagliato considerare la società come una sorta di plastilina disponibile a ogni manipolazione. Sostenemmo che la società aveva in realtà una propria refrattarietà, una forza inerziale, una singolarità nonché forme di autorganizzazione che la rendevano ‘soggetto’ a sua volta, seppure in modo disordinato e confuso e spesso in termini subordinati all’ideologia dominante. Parlare di società come se fosse un oscuro catino di pulsioni è sempre stato fuorviante. Tuttavia l’idea che il ‘popolo’ fosse un costrutto politico (ma anche comunicativo, culturale, persino linguistico in termini semplificativi rispetto alla ricchezza della struttura sociale), e che la politica dovesse assumere il sociale a propria ‘materia’ era sostanzialmente corretta. Così come l’idea che governare fosse imprimere una direzione, ossia dare una forma istituzionale all’organizzazione sociale. Ciò significava, in fondo, pensare il ‘popolo’ come un prodotto politico, il governo come ‘direzione’ e come frutto articolato, complesso di una azione egemonica, appunto, e non come il retrobottega di un’agenzia di sondaggi elettorali e di marketing sempre aperta.
Cancelliamo l’idea che il ‘popolo’ sia un oggetto, dunque, un fenomeno a tutto tondo che viene essenzialmente prima e oltre la politica, e pensiamolo invece come un sembiante di quest’ultima. Potremmo considerarlo la specifica lettura che la politica (o meglio una sua parte) dà della società. Il linguaggio attraverso cui la politica ‘parla’ i soggetti sociali, li assembla, li ‘decide’, li ‘forma’, li ‘usa’, su cui esprime una direzione. Non si tratta di ‘rappresentare’ l’oggetto-popolo, di ascoltarne a fondo ogni pulsione anche becera in nome del motto: ‘il popolo ha sempre ragione” un po’ come il cliente per i negoziante, ma di costruirlo, facendo un ‘uso’ specifico della società a partire proprio dalle sue ‘resistenze’ e dalla sua refrattarietà al governo e alla forme della politica, che oggi assume sempre più i caratteri di un distacco assoluto dalla politica stessa.
Cos’è d’altronde l’egemonia? Una conquista strategica e progressiva dello Stato, che traversa per intero casematte e istituzioni, in una sorta di grande marcia? Niente affatto. L’egemonia è la costruzione ed edificazione del ‘popolo’ secondo valori, ideali e progetti proposti dal soggetto politico in termini conflittuali sia rispetto alle altre forze politiche sia rispetto alle inerzie della società e alle sue resistenze. Non è lo Stato il fine, non è la sua conquista l’obiettivo ultimo, non è una stanza dei bottoni da cui esercitare una tecnica di governo di tipo illuministico, ma il sociale, o meglio la trasformazione sociale secondo giustizia. Lo Stato allargato è la via, il mezzo per costruire l’egemonia, per affiancare egemonicamente un ‘popolo’ alla propria iniziativa politica. Lo Stato è costruzione di un ‘popolo’, nel senso già detto di governo in quanto direzione politica, e non di piatto codismo verso un popolo che non c’è.
Dire che la sinistra ha perduto il proprio popolo, quindi, non vuol dire che ‘dato’ un popolo fuori di sé, si tratterebbe ora semplicemente di ascoltarlo e ‘rappresentarlo’ per riprenderselo, rubando magari forme e modi all’avversario politico, scimmiottandone le idee e i gesti altrui in termini subordinati. La politica e il sociale marciano assieme, sono un’unica cosa, così come la politica e l’economia. Se, da una parte, chiedere la nazionalizzazione o statalizzazione o ‘pubblicizzazione’ delle imprese implica un necessario ragionamento sullo Stato stesso e sulla sua struttura attuale, così un ragionamento sul sociale implica un’indispensabile azione di direzione della politica. Perché la politica ‘agisce’ (ossia struttura, costruisce, ‘usa’, combina in una prassi), non ‘fa’ (non opera tecnicamente sull’ente, non ne ammette l’esistenza fuori di sé per lanciarne poi la ‘conquista’). L’idea di ‘conquistare’ un popolo già ‘dato’, come se questo crescesse sui rami degli alberi, è una sciocchezza in termini, un’idea balzana prima ancora che populista. Perdere il proprio popolo, vuol dire che gli avversari ne hanno costruito un altro a partire da una lettura diversa della società, formandone dunque la coscienza, le opinioni, nonché la propria autorappresentazione in termini alternativi ai tuoi. In questo senso la ‘cultura’ e l’antropologia sono anche forme specifiche dell’azione politica.
Questo ha fatto Berlusconi, d’altronde, quando ha plasmato una parte consistente del sociale a immagine del proprio progetto politico. Questo sta facendo Salvini. Non ci hanno rubato un popolo (anche si se si trattava di pensionati e casalinghe), ne hanno messo in cantiere un altro, hanno riplasmato la materia sociale facendo leva su contraddizioni e disagi, ne hanno fatto un ‘uso’ aderente ai propri obiettivi. Certo, la destra parte da un terreno fertile, ‘agisce’ in una società conquistata dai miti del mercato, dai valori dell’individuo-monade, dalla leggenda della meritocrazia. La destra opera a casa propria, perché la sua battaglia egemonica ha avuto successo, ha vinto uno scontro epocale con la sinistra e i suoi valori imperversano. Ma la strada è questa: il conflitto in nome di idee, valori, progetti politici alternativi, il cui obiettivo è appunto la costruzione di un consenso ‘popolare’ sulle cui basi esprimere un nuovo governo e dare una nuova direzione al Paese.
In assenza di questo lavoro ‘egemonico’ (politico e culturale, persino comunicativo) e in assenza di una concreta azione soggettiva della politica, tutto si riduce a contenderci ‘oggetti’ simili a stelle fisse di un cielo immobile, sempre identici quando identici non sono, in una sorta di mercato politico che riduce il cosiddetto ‘popolo’ a una merce preconfezionata e sempre uguale, esposta sui banchi di un mercato: il popolo prima era mio, ora è tuo, ma adesso lo rivoglio per me. Come se il popolo fosse romanticamente fuori dalla storia, fosse un ideale universale, una sostanza che non muta, un’essenza che trascende l’azione politica. In una deriva romantica, oscura e per certi aspetti pittoresca, che somiglia tanto a una rivoluzione conservatrice ‘capitanata’ dalla destra peggiore.