Mettere al mondo un figlio, tirare il fiato: riflessioni sul Natale

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Il Natale si avvicina, e con esso la fine dell’anno. Tempo di affanni e di commissioni, di bilanci e, si spera, anche di qualche attimo per tirare il fiato.

Le feste dovrebbero servire a questo, almeno quelle che vogliano essere vissute secondo l’esperienza storica del monoteismo.

Ebrei, cristiani e musulmani sono infatti legati, ancor prima che dai recenti sforzi del Papa sulla Fratellanza Universale, dal condividere un rapporto con una divinità che (ritenuta l’unica e vera, e servita come tale anche a costo di prigionia e tribolazioni) ha comandato: “Per sei giorni farai il tuo lavoro; ma il settimo giorno ti riposerai, perché il tuo bue e il tuo asino possano riposarsi e il figlio della tua serva e lo straniero possano riprendere fiato”.

Incarnarsi richiede il tirare il fiato. Immaginare un mondo migliore richiede di ritornare a dare agli animali, agli stranieri e agli schiavi un giorno la settimana per tirare il fiato, per riconoscersi nel loro essere e non solo nella loro funzione reciproca. La vita va ammirata. Di questa ammirazione ci parla Maria, fanciulla stupefatta che fa entrare la periferia – Betlemme era allora l’equivalente di Trino Vercellese: non esattamente il posto in cui ci si aspetta si diano i natali ad un Re dei Re – nel centro della Storia.

Ammirare oggi è però molto difficile. Gli occhi si seccano di fronte allo schermo e alle sue distrazioni.

La natura è relegata a oggetto di scambio (un vaso di plastica fatto da operai che non possiamo immaginarci sorridenti, un fiore dozzinale i cui semi son prodotti da poche multinazionali quando non direttamente di plastica, che dura di più!). Il cibo ha sempre più un gusto standardizzato, sintomo di una società di plastica senza futuro.

Questo denuncia la piccola Greta, e con lei quei giovani che non riescono a far capire ai genitori la difficoltà di passare dai nonni (per i quali la morte era un problema individuale e la guerra, per quanto brutta, non equivaleva mai all’autodistruzione), ai genitori (a loro volta vittime della paura nucleare e degli scenari apocalittici degli anni ’60) per arrivare alla certezza che – senza un cambio radicale del sistema economico e sociale mondiale (che il neoliberismo ci consegna come ultima e unica chance in quella che Fukuyama ha chiamato la “fine della storia”) – non servirà una guerra, l’autodistruzione è solo questione di tempo.

Questa è l’eredità che, ancor prima dei 20 o 30.000 euro di debito pubblico pro-capite, lasciamo ai nostri figli. Se non se ne fanno (in Italia, come in Europa) forse non è solo perché mancano asili in cui parcheggiarli (in una vita in cui si è sempre più spremuti da un sistema incosciente), ma perché ci si rende conto di dover loro spiegare perché si è pensato di far loro questo bel regalo che è la vita alla fine dei tempi.

Quale speranza lasciamo loro? A noi stessi e agli altri possiamo raccontare frottole, arrivare anche a crederci. Ai figli non si può mentire. Sappiamo che, quando saranno abbastanza grandi, ci chiederanno conto del perché della realtà e allora lì la grande libertà che ha dato la contraccezione diventa però anche la barriera che impedisce il dialogo fra generazioni, il “tu fai col tuo che ti ho dato già abbastanza” che impedisce ai giovani di crescere capendo che il messaggio della vita (che la natura continua a ricordarci) è quello della generatività, una generatività che per essere autenticamente umana non può essere un mero scimmiottare gli animali (mettendoseli magari nello stato di famiglia, vuoi come figli-cosa vuoi come cani-specchio delle brame), ma ponendosi la domanda sul cosa significa essere uomini.

Quali sono i grandi esempi di umanità che abbiamo incontrato nella nostra vita?

Quali cuori ricolmi di verità ci hanno appagato nella ricerca di ciò che merita di sperare in un futuro in cui l’obiettivo non è solo la sopravvivenza (che a quel punto meglio soli che male accompagnati o, come diceva Alberto Sordi, “fare figli è mettersi degli estranei in casa”) ma buna vita vera, piena, autentica e appagante?

Il Natale così ci porta a dire, come Maria, “non conosco uomo”. Non conosciamo infatti uomo che possa portare la post-modernità dentro la storia. Un uomo solo poi non sarebbe credibile. Dovrebbe venire in uno e molti.

Questo lo comprendono spesso i non credenti assai meglio dei credenti: un cambiamento che sia materiale e spirituale insieme, un futuro che permetta ai bambini di potersi incarnare in una società più umana richiede un cambio di mentalità, una rivoluzione culturale (di fede però, non di nozionismo né sul calendario con cui si cambiano i colori delle sottane o la disposizione dei candelieri né della rivoluzione socialista o di altra ideologia che, come tale, non riesce mai ad incarnarsi e presto rivela tutta la menzogna del suo idealismo).

Dopo i gulag, dopo Auschwitz, credere nel “progresso” equivale a rivelare tutta la propria cecità.

Il futuro non è roseo. Questa è scienza, che andrebbe letta secondo un realismo costruttivo, il quale però richiede una speranza che, mancando, ci porta a ricercare soluzioni particolari (e via i contributi natalizi, dalla tredicesima per i poveri ai sussidi ai gattili) che ci tengano occupati, così impedendoci di smettere di essere degli attivisti (nel consumo spasmodico come nell’animalismo militanti) e tornare ad essere ammiratori, bambini che sanno stupirsi di fronte alla bellezza del creato, rimanendo in questo stato di stupore e di meraviglia nonostante la speranza che la bruttezza del mondo cerca di toglierci.

Continuare a sperare che è bello essere uomini, che è così buono essere uomini che il Creatore dell’Universo si è incarnato in un uomo. Non in un imperatore, non in una rock star o in un membro del jet set: in un ragazzo che vive a casa fino ai trent’anni, che nessuno aveva votato come rappresentante di classe, che non era andato alla Zecchino d’Oro o da Mike Bongiorno (diciamolo, agli occhi del mondo oggi diremmo un nerd o uno sfigato), che però è cresciuto imparando da papà la bellezza di plasmare la materia vivendo questo lavoro come un inno costante a Dio, da una madre plasmata dall’esercizio della virtù (chiediamoci un po’ quanti genitori sono bruschi o impazienti all’entrata dell’asilo, quanto fiato gli è stato tolto e spesso, con questa scusa – o “per prepararti alla vita vera” – quanto ne tolgono alla generazione di Greta).

Per incarnarsi, per vivere il proprio corpo come un mistero (accessibile all’intelletto così come alla carne), per cercare di capire cosa farne e con chi serve avere il tempo per prendere fiato. Serve che gli altri ci permettano di farlo, anzitutto insegnandoci a pregare. Non parlo di litanie o formalismi. Quelli sono ancora peggio.

Mettere al mondo un figlio ti richiede però di dovergli dare gli strumenti con cui sopravvivere non solo al capitalismo (e alla competizione fra lupi) ma anche a noi stessi. L’assicurazione sulla vita va bene, ai figli serve però anzitutto averci visti pregare. Servono cioè genitori che di fronte alla frattura verticale (che ci trafigge l’anima davanti ad un tramonto innevato, a un lutto o al sorriso della donna amata) ci sappiano preparare alla vita, anzitutto riconoscendosi impreparati e facendo della famiglia (quella vera, quella incarnata, non il banner ideologico o il prodotto spirituale da banco) il luogo in cui si cerca un senso, potendolo fare poiché in essa si ritrova quel sentimento di fiducia, quell’entusiasmo così personale che fa risuonare anima e corpo, come la lacrima dei nonni che riguardano le foto del loro matrimonio e, dopo cinquant’anni, han mantenuto lo stesso sguardo pulito che è sigillo della fede (non a caso l’anello di matrimonio è chiamato sia vera – l’amore senza la verità è arbitrio e potere – che fede).

E’ a questa bellezza lacerante che il Natale ci obbliga. Che male fa pensare ad una famiglia in cui si sia vissuto tanto tempo insieme, in armonia, attorno al focolare, coi bambini che apprendono dai grandi, cugini e zii che vivono uniti (nella fede prim’ancora che nella vicinanza dei focolari). Fa male perché ci richiama a qualcosa che molti pochi hanno vissuto, e allo stesso tempo fa riaffiorare in noi una speranza mai sopita, un anelito di gioia che nonostante le azioni immonde anche colui che sa di non meritarlo continua a sperare. E’ questa speranza dolorosa che ci apre le porte dell’Incarnazione.

Se pensiamo che “i cani sono meglio delle persone”, se pensiamo che ci siano solo poche persone buone da salvare (magari noi fra di esse) e che gli altri non lo siano (o non lo siano abbastanza) non potremo mai accogliere una bella famiglia (potremo farne una, secondo i nostri canoni di bellezza, che cambiano e non dissetano di verità i figli). Come potremo accogliere un figlio che non rispecchia i nostri canoni se non pensiamo che sia una persona, un essere speciale?

E cosa c’è di più speciale di ritenere che in fondo ogni uomo contenga un frammento dell’Unico creatore, fondamento trascendente di una dignità che – in verità – nessun regime potrà mai togliergli?

Se però non si tratta di una persona, ma di “mio figlio”, se lo scopo nella vita non è quello di educare (di far emergere ciò che già c’è, pensando che ogni uomo abbia in fondo una natura buona) ma di istruire (perché il mondo è una giungla è bisogna essere formati alla sopravvivenza), un figlio come Gesù noi avremmo al massimo potuto tollerarlo, con la rassegnazione della madre che dice “ti ho dato tutto, mi sono sacrifica per te e adesso tu cosa fai, anziché essere acclamato dal mondo (fama, gloria, successo e posterità) te ne stai qui in casa, con io che dopo tutto il lavoro che faccio ora che è domenica anziché guardarmi la tele devo pure pensare a te?”.

Maria non è questo, come il Natale non riguarda un vecchietto obeso che non paga il conto della sua impronta ecologica (in questo è più simile all’omino Michelin che a San Nicola).

Maria non ha mai distolto lo sguardo da Dio, ecco il segreto di chi costruisce un focolare fatto per durare perché fondato su qualcosa di più solido di un capriccio o di un’opinione.

Mentre tutto si scioglie (dai ghiacciai ai vocabolari, dal pensiero alle società) nella voragine della storia (che come il sifone del cesso ci porta a costruire più discariche che piramidi) il Natale è allora come una stella, alla quale attaccarsi (con la fune invisibile della fede) aspettando che il mare della storia si sia placato e lavorando attaccati ad essa (dunque in sicurezza) per invertirne la rotta: dall’autodistruzione al mondo comunità giardino.

Questo mi ha ispirato la lettura di un regalo natalizio già scartato, un libro di Fabrice Hadjadj (Il Paradiso alle Porte), personalità europea fra le più capaci di unire una lettura atea del mondo con una testimonianza di vita cristiana da far rivivere l’estasi mistica della Teresa berniniana, a mio avviso l’uomo che lavorerebbe con Ferrarotti se fossimo negli anni ’50 e Adriano Olivetti fosse ancora vivo. Ma questa è un’altra storia.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.