Ma davvero, come sostiene qui Alessandro Zampella, il problema della sinistra risiederebbe nella sempre più impellente necessità di un cambio di procedure e nell’adozione di nuovi “criteri e procedimenti” rispetto a quelli che oggi risulterebbero largamente inefficaci? Ma è proprio vero che “il populismo, come il riformismo, non è un’ideologia”, ma “un contenitore di ideologie”? Un ‘metodo’ e basta? E quindi una ‘tecnica’ tra le altre? Sembrano domande marginali, di metodo appunto, e invece non lo sono affatto. Esse puntano, in realtà, al cuore stesso del problema.
Innanzitutto, cos’è il populismo? È davvero soltanto un insieme di criteri avulsi da ideologie e valori, buoni asetticamente per tutte le stagioni, tanto più nella presente e viva, e nel suon di lei? Oppure implica strategie, scelte, contenuti politici precisi? Questo è il punto. Il populismo rivendica, su tutto, la necessità di un rapporto diretto e senza intromissioni tra Capo e Popolo (oppure, nella versione soft, tra governo e cittadini), nel trionfo delle disintermediazioni, nel depotenziamento delle rappresentanze istituzionali, nella messa in un angolo del Parlamento, nella ‘liquefazione’ e nella crisi dei corpi intermedi (per primi i partiti e i sindacati). Ciò non vuol dire che talune forme di populismo (cosiddetto “di sinistra”) non abbiano promosso forme di partecipazione e articolazioni ‘dal basso’ (comitati popolari, sottocomitati, associazioni sociali, reti di cooperative). Ma quel che nei ‘populismi’ viene sempre a mancare è la funzionalità strutturale di una catena verticale di rappresentanza, una progressione istituzionale biunivoca tra vertici dello Stato e base democratica di massa, resa possibile dall’esistenza di istituzioni ‘ponte’ e rappresentative, che impedisca si attui, tra l’altro, un cortocircuito secco tra punta e base della piramide. Una progressione verticale che articoli e sincronizzi le ‘catene’ della rappresentanza e quelle della partecipazione organizzata dei cittadini. Il ‘popolo’, in tal senso, diviene la risultante di potere di questa architettura che ha nel Parlamento e nei corpi rappresentativi il proprio punto di sutura e una sorta di sintesi nazionale. Il popolo esercita, dunque, la sovranità nei limiti della Costituzione. La Costituzione è quella di una Repubblica democratica parlamentare.
Il populismo ritiene che questa articolazione (liberale, borghese!) ostacoli le decisioni e impedisca al Capo (o all’esecutivo che vince le elezioni in senso maggioritario) di poter andare verso il Popolo e di riferirsi a esso senza intralci proporzionalisti o rappresentativi di sorta. Il Governo deve ascoltare il Popolo, come afferma anche Sahra Wagenknecht, esponente della Linke tedesca, promotore di ‘Aufstehen!’. Il Popolo deve esprimere direttamente al Capo le proprie ragioni e farsi ‘conquistare’ da una politica a suo vantaggio, immediata nei modi e nei tempi. Tutto e subito, in un nanosecondo. Ci si meraviglia perché si perde tempo a discutere, quando si tratterebbe solo di decidere, di ‘ fare’, in una rassicurante ‘combinazione’ (anche mediatica) di esecutivo e cittadini (ceto medio proletarizzato, operai, ‘ultimi’) resa possibile dalla riduzione all’osso del lavoro parlamentare, accusato di concentrarsi soprattutto nelle mediazioni interne alla cosiddetta Casta, sinistra compresa. Il populismo, in sostanza, si contrappone alle forme dello Stato democratico, in quanto complessa articolazione di rappresentanza politico-parlamentare, dialettica di élite dirigente e base popolare, sviluppo della partecipazione organizzata, mediazioni e intermediazioni anche culturali, di cui la sinistra politica è stata artefice e madre nel dopoguerra.
Non si tratta qui di semplici criteri, procedure o tecniche ‘neutrali’ buone per tutte le stagioni, solo da applicare efficacemente, ancorché rovesciate, alla situazione presente. Qui c’è molta ideologia, invece. Ci sono valori, scelte, decisioni, rappresentazioni, interpretazione del lavoro istituzionale. Fa molta differenza se (1) il Popolo abbia sempre ragione, e sia da “ri-conquistare”, perché è sostanza politica e si schiera alternativamente con la destra o con la sinistra, a seconda di chi faccia le proposte più “popolari”. Oppure se (2) il popolo eserciti la propria sovranità nei limiti della Costituzione repubblicana, rappresentativa, parlamentare, che prevede la partecipazione organizzata dei cittadini nei partiti, nei sindacati, in libere associazioni. Fa molta differenza, anche ‘ideologica’. Si dà, nel caso, un giudizio sul Parlamento, si sceglie un significato di ‘popolo’, si confrontano diverse idee di ‘potere’. Si propone, insomma, un modello politico diverso da quello dello Stato parlamentare e costituzionale. E così facendo si gioca sul terreno altrui, di chi la Costituzione la vorrebbe semplificare e sfrondare. In molti rivendicano la necessità di giocare sul campo altrui: ma lo facciamo già da anni, questa è la verità! Sarebbe il caso, invece, di ritornare a casa nostra e di giocare finalmente con le nostre regole.
La sinistra politica italiana, difatti, è cresciuta dentro le forme dello Stato democratico-rappresentativo, dentro i suoi usi, le sue pratiche – ha promosso un’organizzazione della società civile e una partecipazione “dal basso” – si è fatta ponte e artefice di una connessione biunivoca e partecipativa tra vertice dello Stato e base della cittadinanza – ha promosso una partecipazione che fosse aderente all’ideale della rappresentanza e non prorompesse in ‘grida’ che ambissero di essere accolte direttamente dal Capo dell’esecutivo. Non ha mai auspicato che Capo e Popolo esprimessero amorosi sensi ed esclusivi. Semmai lo ha fatto la destra. Questa è stata la forma di vita, la grammatica dentro cui la sinistra italiana è nata e cresciuta nei decenni trascorsi. Fuori di queste coordinate, fuori di queste regole, di questo metodo, dell’uso che si è fatto dello Stato democratico (e dunque di questa specifica ‘ideologia’ dello Stato!), essa non avrebbe alcun senso a meno che non divenisse totalmente, e anche ideologicamente, altra da sé! Ma questo è già stato in questi ultimi decenni.
Perché va detto con chiarezza che noi, ‘populisti’, ci siamo già, almeno per certi aspetti. Siamo stati, difatti, sostenitori del maggioritario, delle disintermediazioni e delle semplificazioni, dei partiti liquidi e dei loft, della personalizzazione della politica, dell’idea che vi fosse un ‘popolo’ preesistente alla nostra iniziativa politica da conoscere mediante i sondaggi per conquistarlo al voto, delle riforme costituzionali che sfrondassero i rami democratici, nonché del rafforzamento dell’esecutivo e del premier sulla scheda. Siamo stati le prime vittime della riscossa neoliberista e siamo stati sconfitti dai nostri avversari, ma ne abbiamo accolto i principi e le scelte come accade sempre ai perdenti magari per istinto di sopravvivenza, e ancor oggi ne subiamo l’egemonia culturale. Questo ci ha reso spesso codisti, subalterni, intenti a recuperare il vantaggio altrui adottandone le forme. Pronti a suonare ancora le trombe dinanzi alle trombe dell’avversario (invece che suonare le nostre campane!). Abbiamo tentato di vivere la sconfitta nel modo più indolore possibile, conseguendo persino alcuni risultati, ma sempre sotto il maglio di una cultura egemonica estranea, che ci teneva in un angolo e ci ‘formattava’ quotidianamente. E così siamo stati federalisti al tempo del federalismo, berlusconiani al tempo del berlusconismo, comunicatori dinanzi ai guru, maggioritari nel maggioritario, personalizzatori dinanzi ai ‘faccioni’ dei manifesti e leaderisti dinanzi al leaderismo, e infine oggi anche populisti accodati al populismo che già si aggira per l’Europa (e poi, magari, anche nazionalisti, patrioti, sovranisti e chi più ne ha più ne metta). Questo andar dietro è il segno di una sconfitta. È stato un modo per resistere da mutanti in un mondo rovesciato, ma anche il segno di una subalternità patente, conseguente alla sconfitta, dinanzi alle forme di vita proposte dai vincenti, di cui ci siamo dovuti adattare agli ‘usi’.
Ma la sconfitta più grossa è stata sul piano ideologico. Sull’assunzione della tecnica come strumento interpretativo. La politica del ‘fare’, di cui tanto si parla, è il frutto precipuo di questa idea: basta con le chiacchiere (Parlamento) è venuto il momento del ‘fare’ (Esecutivo). Una massima che funziona anche a sinistra. C’è una convinzione ‘tecnica’ dietro a tutto ciò, è quella per cui ‘fare’ è ben più che ‘agire’, ben più che dibattere, lottare o esprimere un proprio convincimento. La tecnica ci racconta che lo strumento è neutro, che conta solo chi lo impugna. Ti dice che la forma di vita non importa, tanto puoi agire al suo interno come vuoi. Che conta il risultato, conta essere vincenti, conta avere successo. Anche per questo si sostiene che il ‘populismo’ non è un’ideologia, non ci impone valori e metodi altrui, ma solo un campo su cui giocare a nostro vantaggio, un campo neutro, non ideologico, uno strumento come lo sarebbe il riformismo. Ecco la tara. L’idea che le idee altrui possano essere anche le nostre, quasi non scorgendo più i valori oltre gli strumenti, i contenuti dentro le forme. Se non è una sconfitta egemonica questa, cos’altro è? Dopo trent’anni di martellamento, la sinistra vive in modo subordinato quasi rivendicandolo con orgoglio.
Che fare? Da qui si deve ripartire, non da altro. Battersi contro tutto ciò che questi trenta anni hanno significato in politica: personalizzazione, leaderismo, liquefazione dei partiti, attacco ai sindacati, antiparlamentarismo, semplificazione delle procedure, sfrondamento democratico, assalto alla Costituzione, subordinazione alla comunicazione e ai guru. Ridefinire un progetto non tecnico, ma politico, di partecipazione organizzata. Non il ‘fare’, ma l’agire e la prassi. E poi cultura politica, organizzazione, classi dirigenti, messa in campo di ‘forme di vita’ che siano nostre, originali, dentro la nostra storia, non prese a prestito da quella altrui. Solidarietà contro competizione acerrima. Senso del bene comune. Centralità della scuola. Tutela del lavoro. Accoglienza e integrazione. Mutuo soccorso. Sviluppo democratico. Collaborazione internazionale. Pace. Un’idea di Europa solidale da affermare nel concorso di tutti, secondo i tragitti e i tempi della politica, non in base alle ricette dei tecnici o di qualche accademico. Un’idea di politica che promuove le opinioni, le scelte, la discussione e non impone tecnicamente soluzioni uniche, fuori delle scelte e della portata democratica. È tutta roba che sappiamo, che già conosciamo, perché è nel nostro DNA (altro che le primarie). Perché quando punti su qualcosa ‘di nuovo’ sei già nelle grinfie degli altri. Conosci te stesso, quindi. Vale anche in politica.