L’umanità a pezzi e i pezzi di umanità. Un film per la Giornata della memoria

| Cultura

Nel 2016 l’Oscar per il miglior film straniero è stato attributo a Il figlio di Saul. Domanda: chi l’ha visto? Pochissimi. È stato dato, in piccole sale, per pochi giorni; Rai 2 lo ha ritrasmesso qualche giorno fa, ma a mezzanotte. Un peccato. In occasione della Giornata della memoria, ricorrenza della scoperta, il 27 gennaio 1945, da parte dei soldati dell’Armata Rossa, del Lager di Auschwitz, ovvero di Oświęcim, in territorio polacco, merita di essere ricordato. Nell’ambito delle testimonianze sull’Olocausto, è un film decisivo.

Nelle Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin, ad un certo punto, dice una cosa strana. Questa: “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico se egli vince”. Ne Il figlio di Saul (Saul fia), opera prima di László Nemes (Budapest, 18 febbraio 1977), sceneggiatura con Clara Royer, quella frase assume un significato più chiaro. Un modo autentico per fare memoria della Shoah. Non l’appuntamento di un giorno: la coscienza di un’epoca. Interessante la tecnica registica di László Nemes, un intarsio di piani sequenza e dissolvenze. La terribile descrizione del campo di concentramento, luogo di lavoro (sul cancello di Auschwitz, quella frase: Arbeit macht freiIl lavoro rende liberi), detenzione e morte.

Un’umanità schiavizzata. In genere si pensa a una macchina perfettamente funzionante. Il film di László Nemes rivela, invece, l’intimo caos, insieme alla corruzione, nell’organizzazione degli aguzzini. Chi vi entra deve seguire un protocollo. Abbandonare le sue povere cose. La valigia, gli indumenti, i documenti, qualche oggetto di maggiore o minore valore. Tutto viene sequestrato, espropriato, ammassato, in un macabro accumulo. Il campo, una babele linguistica: ungherese, yiddish, tedesco, francese. L’inizio è un quadro impressionista di campiture senza messa a fuoco.

Poi un frenetico vagare all’interno di bolge infernali, un incessante brulicare di corpi. Gente sospinta dentro uno stanzone, costretta a spogliarsi, con la scusa che debba farsi una doccia e prepararsi per una zuppa calda (ignobile ipocrisia). Le porte chiuse. Le urla. L’agghiacciante silenzio. Toccante la musica di László Melis. Poi lo “smaltimento” dei cadaveri, i pezzi (die Stücke), dalle camere a gas alle fornaci. Le ceneri trasportate con i camion sulla riva di un fiume e lì disperse a badilate. O la strage, a colpi di pistola, sul ciglio delle fosse comuni. E’ la specificità di questo orrore che ha indotto a considerarlo un unicum nella storia, nonostante ciò che continuano a sostenere i negazionisti, o quanti tendono a derubricarlo a una forma di violenza paragonabile a tante altre.

36 fatidiche ore nell’ottobre 1944: Saul Ausländer (interpretato dallo scrittore e poeta Géza Röhrig) è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. Porta nella fisionomia un segno distintivo, una bollicina, sulla parte sinistra del labbro inferiore. Fa parte dei Sonderkommand, vale a dire un gruppo di ebrei costretti a partecipare allo sterminio. Sulle giacche, lacere e consunte, una “x” con la vernice rossa. Saul è intento al suo compito: pulire, insieme ad altri, in ginocchio, con una spazzola, il pavimento della camera a gas, dopo la strage dell’ultimo gruppo. E’ lì che scopre che un ragazzo è riuscito a sopravvivere.

Solo che il medico, chiamato per visitarlo, in contrasto con la sua missione, dopo aver verificato che respira, lo uccide con le sue stesse mani, mentre il corpo rimane inerme, composto. In quel bambino Saul pensa di riconoscere un proprio figlio. Non sappiamo quale sia la verità: sappiamo che il film, a questo punto, prende un’altra piega. Saul decide di dare al ragazzo una degna sepoltura. Lo risparmia all’autopsia, di cui dovrebbe occuparsi un medico ebreo ungherese, per affidarlo ad un rabbino, perché possa recitare il Qaddish. Anche trascurando e mettendo a rischio il piano che stanno preparando i suoi compagni di sventura, coscienti della fine ormai imminente.

Uno gli dice: “A causa del tuo comportamento ci farai morire”. E lui: “Ma noi siamo già morti”. Da non dimenticare: Saul porta il cognome Ausländer (straniero): esprimendo, anche così, un’estraneità radicale. Alla fine, dopo un conflitto a fuoco, in una decina provano a fuggire. Trasognato, anche Saul, portando sulle spalle, correndo con gli altri, il cadavere del ragazzo. E’ interessante scoprire come qualcuno già allora, come mostra il film, abbia cercato di documentare, scattando delle foto di nascosto, quanto accadeva nei Lager. Di qui il tema della memoria, che i nazisti, in tutti i modi, hanno cercato di cancellare. Come i loro seguaci, consapevoli o meno. E’ la missione che László Nemes assegna, alla fine, con l’unico sorriso di tutto il film, ad un altro ragazzino, la generazione che verrà, il quale intravede i fuggiaschi nella casa in rovina, dove stanno facendo una pausa, prima di riprendere il cammino.

Qui la responsabilità della memoria ed insieme la dignità del morire. Il valore assoluto della vita, di ogni vita, contro la serialità della soluzione finale. Hans Jonas si è chiesto: “C’è Dio dopo Auschwitz?”. Per parte sua Theodor Adorno si è domandato se “si possa ancora vivere”; se possa vivere “chi vi è sfuggito per caso e di norma avrebbe dovuto essere liquidato”. Come Primo Levi. Anche per questo, per Adorno: “Hitler ha imposto agli uomini (…) un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile”. Aggiungendo: “Forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia”. Alludendo a se stesso, per aver detto che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Da non dimenticare i versi brechtiani di A coloro che verranno: “Quali tempi sono questi, quando / discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta il silenzio!”

Il figlio di Saul è anche un film sul paradossale senso di colpa delle vittime. Il protagonista si identifica nell’integrità di quel bambino e, in fondo, cerca di mettere in salvo quel pezzo di umanità, proprio in una consapevolezza che sembra rinviare a quella misteriosa frase di Walter Benjamin: “Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico se egli vince”.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.