Le periferie perdute: nel documento del 16 dicembre uno spunto che va approfondito

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Uno dei passi più qualificanti, a mio parere, del documento Una forza rosso verde per garantire l’alternativa alla nuova destra recita così: “La verità politica è che siamo stati respinti dalle periferie sociali, urbane, territoriali dell’Italia tanto che il voto al Partito democratico, a Liberi e Uguali e a Potere al Popolo, al di là delle ovvie differenze quantitative, ha permesso di riscontrare una comune e trasversale composizione sociologica che ha portato tali forze, naturalmente in modo proporzionale, ad attingere allo stesso bacino di voti: nel centro città più che nelle periferie urbane, nelle aree metropolitane più che in quelle rurali e nei centri minori, nella media borghesia più che negli strati popolari, tra i ceti maggiormente istruiti e scolarizzati più che tra quelli che lo sono meno” Giusta analisi a cui segue sempre nel documento “Per noi è ineludibile ripartire da questa consapevolezza, assumendo tre presupposti fondamentali…”  che non riporto, visto che della premessa su esposta si è poi persa traccia. Vale a dire: posto che “siamo stati respinti dalle periferie sociali, urbane, territoriali”, mi sarei aspettato che se ne ricavassero conseguenze sul piano dell’azione politica nello specifico e si indicassero gli obiettivi, specie per quel che riguarda le “periferie geografiche” su cui poco si discute, a differenza delle periferie urbane. E invece si salta a pié pari il problema con affermazioni molto generali (“produrre un progetto nuovo e plurale…”) e obiettivi di tipo politicistico, che bypassano la questione delle “periferie perdute”.

E’ proprio su questo vorrei richiamare l’attenzione dei compagni di Mdp, come faccio da mesi nei dibattiti a livello provinciale, anche attraverso un documento specifico, approvato nell’Assemblea provinciale di Udine nel mese di settembre, che avrebbe dovuto pervenire agli organismi nazionali.

Da più parti e specie in occasione di elezioni politiche nazionali o regionali si sottolinea come l’insediamento dei partiti e movimenti sbrigativamente definiti “antisistema” si abbia proprio nelle zone più emarginate, nei piccoli paesi o in montagna, mentre nelle medie e grandi città e principalmente nei centri storici ritroviamo i maggiori consensi alle sinistre o ai partiti “di sistema”.

Il fatto è che in queste realtà periferiche i diritti di cittadinanza sono attutiti o addirittura cassati, grazie a una politica di accentramento dei servizi e delle opportunità nei vari campi della vita quotidiana.

Uno dei punti fondamentali di una politica di sinistra, accanto alla lotta per il lavoro e la sua dignità (Articolo 1 della Costituzione),  è la lotta alle disuguaglianze, comunque esse si presentino. (Articolo 3).

E’ noto che l’articolo 3 della Costituzione dopo aver affermato l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (I comma) chiarisce che esistono ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini (II comma) e la cui rimozione è compito della Repubblica. In sostanza, come diceva don Milani, il secondo comma in qualche modo smentisce il primo: non esiste effettiva uguaglianza tra i cittadini se non si eliminano gli ostacoli alla partecipazione e al godimento dei diritti per una parte della popolazione, che di fatto sono limitati.

Questi diritti risentono di situazioni legate anche all’ambiente di vita, nel senso di abitare o vivere in certe zone rispetto ad altre. Non è indifferente il luogo dove si vive (in centro città o nella periferia, in città o nei piccoli centri, in pianura o in montagna) e questo a volte condiziona pesantemente il godimento dei diritti di cittadinanza, provocando quelle diseguaglianze che dovrebbero essere “superate” da parte dello Stato. Le pari opportunità quindi non riguardano solo sesso, lingua, religione, opinione politica eccetera ma anche lo condizione sociale di “periferico”, dove il termine va ampliato oltre la solita dimensione cittadina. L’articolo 3 andrebbe integrato con “condizioni personali, sociali e di residenza”! .

Si parla spesso di “periferie” e dei problemi legati alla condizione di deprivazione o di degrado in cui vivono gli abitanti delle periferie urbane. Ma non esistono solo le periferie cittadine: da qualche tempo è invalsa la definizione di “aree interne” (vedi “Strategia aree interne” dell’ex ministro della coesione sociale Fabrizio Barca) per designare quelle zone lontane dai centri urbani e che usufruiscono in maniera differente dei servizi cosiddetti “universali”. Non è un mistero che il vivere in periferia comporta una condizione di inferiorità in rapporto ai diritti di cittadinanza. Essere “cittadini” significa per alcuni aspetti vivere in città, mentre per i “periferici” i diritti di cittadinanza risultano attutiti o di difficile godimento. “Le Aree interne sono “questione nazionale” per i costi sociali determinati dal loro stato e perché in esse viene negato un principio costituzionale di parità delle opportunità di cittadinanza. Per quanto riguardo la cittadinanza, essa è limitata in queste aree dal basso grado di accessibilità ai beni di base – sanità, istruzione, mobilità, connettività virtuale (internet) – per la popolazione residente” (dal Documento ministeriale sulle Aree interne).

E’ facile accusare di “localismo” le giuste proteste dei cittadini periferici per la soppressione di servizi pubblici (tribunali, poste, scuole, uffici statali o regionali), specie in montagna. Razionalizzare, risparmiare ha significato in questi ultimi anni  essenzialmente “ridurre” e costringere le popolazioni a rivolgersi sempre di più al centro provinciale o regionale per poter usufruire di quelli che si chiamavano i “diritti di cittadinanza” con un aggravio di tempo e di costi. Di questi ultimi, le spese private, i decisori politici non si preoccupano e non rientrano certamente nel bilancio statale. Frequentare la scuola o soprattutto l’Università per un cittadino di periferia comporta costi che pesano sul bilancio familiare in maniera differente rispetto ai “cittadini”.

La logica dell’accentramento risponde indubbiamente a criteri di economicità, non sempre a quelli dell’efficienza e dell’uguaglianza di opportunità; essa riflette una visione “verticale” (per usare una felice espressione del sociologo De Rita), mettendo in crisi le piccole realtà periferiche, che pagano le tasse alla stessa stregua degli abitanti dei capoluoghi. Ancora una volta, don Milani ci dice: “Fare  parti uguali tra disuguali è la peggiore ingiustizia”. L’impoverimento delle periferie d’altra parte non può che accentuare i problemi delle città e il tutto contribuisce a far perdere quella peculiarità del nostro paese, un tempo basato sulla “orizzontalità”. Scompaiono i centri intermedi, sedi di storia e di economie originali. I vantaggi economici e finanziari dell’accentramento si capovolgono in “perdite” complessive per la Nazione.

Occorre invertire tale logica riscoprendo il valore dell’“orizzontalità”. La cosiddetta “disintermediazione” non riguarda solo la scomparsa degli anelli intermedi delle istanze politiche e dei soggetti sociali intermedi, ma anche le realtà periferiche, rurali e soprattutto la montagna.

Non si tratta di tornare al “locale”, inteso nella sua accezione più restrittiva, o all’assistenzialismo; non è con la difesa a tutti i costi del proprio orticello da parte dei “periferici”, che si potrà sconfiggere la logica accentratrice, ma con una nuova visione della società che poggi sulle piccole realtà integrate tra di loro e con le città. Una logica puramente privatistica e mercantile di quelli che si chiamavano un tempo i “servizi pubblici” penalizza fortemente gli abitanti dei piccoli centri.

Si tratterà quindi:

  • di rivedere il rapporto pubblico-privato nei servizi pubblici essenziali (trasporti, sanità, istruzione, risorse energetiche, ) riconsiderando  il ruolo dello Stato nel welfare rispetto alla gestione puramente privatistica, basata sul profitto più che sulle esigenze della popolazione, specie periferica
  • di definire bene quelli che nella modifica del Titolo V del 2001 (oggi rimesso in discussione) si chiamano i LEP, vale a dire il Livelli Essenziali di Prestazione, di cui devono poter godere tutti i cittadini indipendentemente dalle condizioni economico/sociali e DI RESIDENZA in cui vivono.
  • Infine impegnare le risorse necessarie a superare il digital divide. Le nuove tecnologie e la telematica possono aiutare questo processo, ma purtroppo sono proprio le zone periferiche a subire il digital divide, che è alla base di opportunità disuguali. Occorre realizzare l’obiettivo delle connessioni a banda ultralarga nelle “zone bianche” come priorità.

 

 

 

Pasquale D'Avolio

Già capogruppo PCI nella Comunità montana della Carnia (UD) dal 1975 al 1995, consulente UNCEM nazionale per la scuola sul Titolo V (2007/2011).