Le domande che restano, al di là di Corbyn, dopo la nostra sconfitta in UK

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Non c’è dubbio alcuno. Il risultato del voto nel Regno Unito del 12 dicembre è stata una schiacciante vittoria del Conservatore eccentrico Boris Johnson.

Non c’è neppure nessun dubbio sul fatto che, adesso, la Brexit sia a un passo, più precisamente il 31 gennaio 2020. Certo, seguiranno interminabili negoziati sul futuro accordo che reggerà le relazioni fra UK e Unione Europea, ma non si tornerà indietro.

Ed è altrettanto assodato che durante la tragica nottata chi come me è rimasto incollato alla BBC ha assistito al tracollo del Labour di “Jezza” Corbyn nelle sue storiche roccaforti operaie e dei famosi e emozionanti Gala dei minatori. Quelle stesse roccaforti che hanno votato “Leave” nel 2016.

Ciò che è invece completamente fuori luogo – specialmente per chi si dichiara europeista e progressista – è rallegrarsi della sconfitta del “radicale” Corbyn auspicando in modo maldestro e superficiale (vogliamo dire ideologico?) un ritorno al vecchio modernismo (l’ossimoro ci vuole per forza), alla terza via di Tony Blair, alla corsa al centro politico come risposta eriscossa della Sinistra riformista.

Trascuro volutamente, per restare succinta “and to the point”, le questioni riguardanti le balle spaziali propinate a valanga da Johnson e dai suoi amici del Brexit Party, cosi come non mi dilungo su un sistema elettorale uninominale e maggioritario che ha probabilmente consegnato il paese a chi non ha la maggioranza degli elettori in termini percentuali.

Vorrei provare a fare un ragionamento sul perché il Labour ha perso, dopo aver acceso le speranze di tantissimi giovani che a suo tempo si erano riavvicinati in massa a Corbyn (Momentum docet) considerandolo capace di portare un messaggio nuovo, fermo e coerente contro diseguaglianze e ingiustizia. Perché tanti dei nostri sono rimasti a casa, e altrettanti ci hanno votato le spalle, per la prima volta, e probabilmente con rabbia, rancore e sfiducia.

Certamente Corbyn ci ha messo del suo. Giudicato per il suo passato che lui non ha mai negato in politica estera e interna. Considerato improbabile come Primo Ministro proprio per la sua non propensione al compromesso. Inchiodato a un Manifesto che, fatemelo dire, se letto dal “continente” non era poi così radicale. Paradossalmente, pur tiepido con l’Unione Europea, Corbyn propendeva per dare al suo paese un’economia sociale di mercato – che il RU non ha mai avuto –  adattata alla complessità delle esigenze legate all’ecologia ed alla preservazione delle risorse del pianeta. E, infine, ancorato a una posizione incomprensibile e inspiegabile (nel senso che non si riusciva proprio a spiegarla agli elettori di fronte alla porta di casa) sull’uscita del suo Paese dal Regno Unito. Purtroppo che lo si voglia o no il tema referendario è tornato a farla da padrone nella scelta elettorale. E a fronte di un accattivante e semplicissimo “get Brexit done” (che sarebbe “facciamo ’sta Brexit una buona volta”) si è attorcigliato in un improbabile nuovoaccordodiuscitachesarebbesottopostoareferenduminclusal’opzioneremain. Indigeribile, indigesto. E infatti.

Eppure sarebbe sbagliato, ancora una volta, fare come se i nostri ex elettori delle periferie dimenticate, che si chiamino Rust Belt in America o Tor Bella Monaca, non ci fossero. Rassegnarsi a rappresentare solamente un elettorato benestante, colto, pragmatico, cosmopolita e globalizzato, mobile mi pare non solo un terrificante errore di prospettiva, ma una negazione rotonda dei nostri valori (Bobbio su eguaglianza e libertà) alla quale io non mi adeguerò mai. Il tema è per questo ampio, complesso e necessita riflessioni che vanno ben al di là di quella che il Labour inizierà ora (peraltro io stessa trovo che Corbyn dovrebbe farsi già da parte, proprio in questa fase di riflessione). Il fatto che neppure lui sia riuscito a interpretare i bisogni di coloro ai quali ha guardato anche durante il referendum, la dice lunga sulla nostra incapacità non solo a voler capire, ma a riconquistare la fiducia di chi era NOI, e si è poi sentito trattato da inferiore e inadeguato, poi dimenticato, poi giudicato e abbandonato definitivamente. All’umiliazione è seguita la sfiducia, poi la rabbia e infine il rancore. C’è un aspetto della diseguaglianza che va ben al di là del reddito, della negazione dei più elementari servizi, dell’abbandono territoriale. Si chiama diseguaglianza di riconoscimento. Queste persone, che vivono problemi reali e drammatici ormai da decenni, non è che non si sentono più rappresentati da noi. Non si sentono proprio più ESISTERE per noi. Poco importa (attenzione, questo è fondamentale) che gli altri, i vecchi nemici, raccontino balle. Siamo NOI ad essere percepiti come non più credibili.

Siamo a ciò che sembra la quadratura del cerchio. Noi dovremmo essere cosmopoliti e identitari, credibili e radicali, preoccupati per l’immigrazione di massa (?) e aperti al nuovo… Badate che questo enigma si presenta già chiaro ai Democratici USA, i quali infatti hanno preso molto sul serio il risultato di Johnson. Si potrebbe dire che per essere radicali nel preconizzare il cambiamento è più che mai necessario essere internazionalisti. Ma essere internazionalisti nel XXI secolo, con quello che la globalizzazione e la finanziarizzazione hanno combinato alle persone più vulnerabili (tante, tantissime) appare a molti un lusso da metropoli avanzate e iper-produttive, connesse, con tutti e due i piedi nel futuro.

Io continuo a dichiararmi convinta dall’Utopia Sostenibile (come la chiama il Professor Giovannini). E’ possibile andare verso un nuovo modello di sviluppo che rispetti le genti e il Pianeta, che promuova un profitto condiviso fra le persone e i territori, che si metta alle spalle il peggio di una globalizzazione che ha arricchito pochi senza scrupoli sino allo sfinimento dell’ingordigia.

Però bisogna volerlo, questo nuovo modello. Partendo dalle periferie, tutte, sia quelle fisiche che quelli ideali. Per riconquistare una fiducia stracciata, bruciata non una, ma tante volte, ci vorranno anni. Non aspettatevi risultati in tempi brevi, anche a buttarci tutte le energie da oggi. Eppure va fatto.

I giovani hanno tempo, speriamo che ci riescano. Io ho fallito per ora. Non perché non ho capito, ma perché non sono stata abbastanza accorata, vocale, testarda. Mi sento cosi. Poco blu, e poco a balze.

Speriamo nel frattempo che gli europeisti incravattati delle città Stato si facciano un giro, compassati, nel Sunderland. Per dire.

Anna Colombo

Responsabile nazionale Esteri di Articolo Uno. Segreteria di Articolo Uno Belgio. Ex segretaria generale del gruppo S&D al parlamento europeo